Al risveglio, la spalla faceva ancora molto male. Certo, non male come prima di addormentarsi (anche se forse il termine “collassato” era sicuramente più adatto), ma abbastanza male. Ma quanto tempo era rimasto privo di sensi, lì a terra? Si tirò su, vide buona parte del firmamento, ricadde. Perse qualche istante per mettere a fuoco e finalmente diede un’occhiata intorno. La casa era tutto sommato pulita, fatta eccezione per le tracce di neve e fango che tracciavano una linea incerta dalla porta fino al punto dove si trovava adesso. Le sue tracce. Si alzò con fatica e subito si appoggio alla parete per poi accasciarsi nuovamente. Al quarto tentativo, finalmente, potè cominciare ad esplorare quella casa. Una classica casetta di montagna. Poco più di un rifugio. Spartana e funzionale. E solida, aggiunse mentalmente. Tutto il necessario, ma in piccolo. Di fatto, era una grande stanza equamente divisa a metà', una delle quali fungeva da camera da letto, e l’altra da ambiente giorno con angolo cottura. Due porte, una sicuramente verso il bagno, e l’altra da dispensa e sgabuzzino. Un paio di finestre piccoline dalle quali entravano due lame di luce dagli scuri chiusi. Più o meno in mezzo a dividere gli “ambienti”, un camino. Di legna, a vista, pochina. Sicuramente, la maggior parte sarà stata dentro una capanna là fuori, chissà sotto quale mucchio di bianco. Non si era congelato, quindi la casa doveva essere ben isolata termicamente. Non ricordava nessuno di questi particolari, mentre era impegnato a rifugiarsi dentro quell’unico porto sicuro prima e cadere a corpo morto poi. La paura, il dolore e lo scarico di adrenalina avevano cancellato quei momenti dalla sua mente, prima dell'oblio. Ed ora eccomi bloccato qui, pensò. Senza sapere dove sono, rinchiuso dentro una cassaforte di ghiaccio e probabilmente dato per disperso. Magari mi troveranno tra chissà' quante settimane, uno scheletro dentro una tuta da sci firmata. Che fine idiota. Andò verso lo sgabuzzino e lo aprì. Che mi venisse.. C’erano provviste in scatola per un reggimento. E coperte e abiti pesanti di scorta. Una ottima organizzazione a prova di emergenza. Bè, chiunque sia il padrone, dovrò fargli un monumento, quando esco da qui. Se esco da qui, aggiunse mentalmente un istante dopo. Scosse la testa per scacciare quel pensiero, quando notò un’altra cosa sul pavimento dello sgabuzzino. Una valigetta nera. Si abbassò per guardarla meglio. Uhm. Sarà mica un contrabbandiere. Nel caso, se mi trova, il monumento rischio che lo facciano a me. Meglio fare finta di non averla vista. Ma, mentre si diceva questo, le sue mani erano già scattate verso la chiusura della valigetta. Inclinò leggermente la testa per essere sicuro di aver visto bene. Una vecchia macchina da scrivere. Pulita e lucida. Decisamente un oggetto fuori posto in quell'ambiente. Sul davanti campeggiava in bella vista la scritta ‘lettara 22’. La prese e subito la dovette lasciare. Aveva dimenticato la spalla fuori uso. Chissà. Forse quassù ci viene uno scrittore, pensò. Ed anche di una certa età, direi. Chi diavolo usa ancora questa roba oggi? Vicino alla valigetta, una scatola. Risme di carta formata A4 che facevano il paio con quell’oggetto di un’altra epoca. Prese una scatoletta e la portò sul tavolo della ‘sala da pranzo’. Nel cassetto del tavolo, un vecchio apriscatole gli ricordò dolorosamente quanto fanno comodo tutte e due le mani ben funzionanti. Aprì la porta con circospezione. Come immaginava, un muro di bianco lo isolava dal mondo. Usò il vecchio apriscatole per togliere un pò di ghiaccio e bere. Capì che di scavare una via per raggiungere il mondo civile, non se ne parlava proprio. Non in quel momento, in quelle condizioni e con quella temperatura. E in che direzione sarebbe andato, poi? Meglio cercare di riprendere le forze e la testa. Scampato il pericolo, aveva tempo per pensare alla sua prossima mossa. Richiuse la porta. Raggiunse il letto e lo usò per la prima volta. Tempo dopo (Minuti? Ore?) i suoi occhi si riaprirono. Da quell’angolo del letto vedeva chiaramente la porta dello sgabuzziono aperto e la macchina da scrivere. Da qualche parte dalla sua memoria, l’immagine di suo padre che infilava una risma di carta nella loro macchina da scrivere lo colpi con forza. Era un’immagine dimenticata che riemergeva sovrapponendosi a quella che aveva davanti a sè, come un sogno ad occhi aperti. Si ritrovò senza sapere come di nuovo seduto a quell’oggetto antico. In fondo non c’è molto da fare qui, mentre aspetto che mi cerchino, si disse. Prese un foglio, lo inserì nel rullo e premette dei tasti a caso. Il foglio restò bianco. Non c’è il rullo con l’inchiostro, capì. Dietro le risme, un’altra scatola più piccola rivelò dei nastri metà neri e metà rossi, chiusi in delle bustine di plastica. Chissà quanto tempo era passato dall'ultima volta che en aveva visto uno. Ne aprì una, infilo le bobine negli appositi alloggamenti e riprovò nuovamente a scrivere. Niente. Foglio nuovamente bianco. Mosse una levetta che sollevò il rullo, passando alla modalità ‘rosso’ e miracolosamente apparve la parola che le sue dita scrissero. Il nero si è seccato e il rosso no , pensò scartando un’altra bobina. Inserì nuovamente l’oggetto del desiderio, ottenendo lo stesso identico effetto. Sono sicuro che se le aprissi tutte sarebbe la stessa cosa, sbuffò. Evidentemente è destino che questa storia sia raccontata col colore rosso, ghignò proseguendo la sua scrittura incerta da un dito alla volta. Fuori, la poca luce che filtrava incominciava ad affievolirsi.
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Cos'è il “progetto incipit”? Una cosa a cui pensavo già da un po’. “Semplicemente” una raccolta di primi capitoli di “possibili” storie che mi piace lasciare aperte e metterle a disposizione di tutti quelli che vogliano raccogliere il testimone per proseguire da queste tracce e andare dove la loro fantasia li voglia trasportare. Significa che chiunque voglia proseguire dal mio ultimo punto a capo lo può fare, senza limiti di sorta. Se lo prende, lo copia, lo incolla e va oltre, senza limiti di sorta... O meglio, alcune piccole regole ci sono: Se il racconto verrà scritto senza fini di lucro, nulla è dovuto, se non un grazie (sempre gradito). Se il racconto vedrà la luce in una forma retribuita (cosa che auguro a tutti gli scrittori, aspiranti e non), si intende che esista tra noi quello che viene chiamato un “accordo tra gentiluomini” per cui eventuali diritti siano dovuti in percentuale. Semplificando: se viene pubblicato un libro di 100 pagine di cui la parte da me scritta occupa una pagina, mi tocca un centesimo del pattuito. Semplice, no? Una ultima raccomandazione, più una cortesia che altro: se fosse necessario modificare quanto trovato scritto da me per esigenze narrative (miei eventuali strafalcioni a parte, si intende), avrei piacere che su queste modifiche fossimo d'accordo. Eventualmente sentiamoci, il mezzo informatico aiuta. Per il resto, carta bianca. Buona lettura.. e buona scrittura. |
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