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Post N° 662

Post n°662 pubblicato il 12 Gennaio 2009 da maverick_72

Ben Thomas è un giovane uomo che ha commesso un tragico errore. Ossessionato dalla sua colpa è deciso a redimersi risanando la vita di sette persone meritevoli. Osservate e individuate le sette anime, Ben si prende amorevolmente cura di loro, donandogli una parte di sé e una seconda possibilità. Sarà però la bella Emily Posa, colpita al cuore da Ben e da (gravi) scompensi cardiaci, a innamorarlo e a distrarlo dal suo disegno originale. A Ben non resterà che decidere se tornare a vivere o lasciare vivere.
Il titolo italiano, al solito, non "traduce" il senso del secondo film americano di Gabriele Muccino, sostituendo sette pounds (sette libbre) con sette anime e spostando in questo modo l'attenzione dello spettatore dal debitore ai creditori. Di carne, o meglio di libbre di carne, parla invece il titolo originale e aderente alla storia raccontata, riferendosi al pound of flesh (una libbra di carne umana) che "il mercante di Venezia" shakespeariano chiedeva ad Antonio per estinguere il suo debito. Dopo aver affrontato con La ricerca della felicità il dramma a sfondo sociale e a lieto fine, Gabriele Muccino gira un film sulla "donazione" che ha fatto molto discutere in America e altrettanto farà discutere nella cattolicissima Italia. Riconfermato come attore protagonista, Will Smith sembra idealmente restituire, o meglio, ridistribuire un po' della happiness inseguita con tanto accanimento e dopo tante (rin)corse nel precedente film mucciniano. Dopo la redenzione economica del broker Chris Gardner, che intendeva la felicità come ricchezza, il Ben Thomas (sempre di Smith) ricerca una redenzione spirituale che metta a tacere il dolore provocato e il rimorso patito. La supposta distanza, che un regista non americano avrebbe dovuto e potuto garantire rispetto ai meccanismi e alle modalità narrative hollywoodiane, non è in questa seconda esperienza evidente come fu per La ricerca della felicità.
Sette anime è decisamente un film americano che si regge sull'interpretazione degli attori e poco o niente dice dell' "anima" italica che lo ha diretto. Qualche perplessità la solleva pure l'interpretazione non risolta di Will Smith, che rinchiude un dolore cupo e profondo dentro un corpo da supereroe mai tragico, mai corrotto o compromesso dai conflitti inconciliabili del suo protagonista. Se tutto può l'amore, fornendo in qualche modo la chiave morale del film, poco o nulla può contro il ridicolo distribuito a piene mani sull'epilogo, attraversato da affannose corse, frequentato da meduse letali, martellato da un cuore donato e osservato da occhi neri che tornano a guardare. Il tono e il sapore del dramma incombente e inevitabile viene allora travolto da invenzioni maldestre, che precipitano quel poco di intimo che il film era riuscito a costruire, mancando l'abbraccio fatale con il destino inevitabile, bruciando il calore di ciò che è insondabile.

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