Stultifera Navis

Non sono ubriaco, ma diversamente sobrio

 


Vado alla ricerca della felicità naturale e possibile
sapendo che la felicità non è una meta,
ma un modo di viaggiare

 

AREA PERSONALE

 

ULTIMI COMMENTI

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Luglio 2018 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
            1
2 3 4 5 6 7 8
9 10 11 12 13 14 15
16 17 18 19 20 21 22
23 24 25 26 27 28 29
30 31          
 
 
Citazioni nei Blog Amici: 13
 

TAG

 

CHI PUÒ SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

AVVERTENZA

I testi contenuti in questo blog, salvo dove specificatamente indicato, appartengono al sottoscritto.
Non valgono una sega, ma se qualcuno volesse copiarli da un'altra parte mi farebbe piacere saperlo.

Grazie

 

Messaggi di Luglio 2018

Caterina

Post n°566 pubblicato il 23 Luglio 2018 da hieronimusb

Il cancello della casa famiglia si apriva su una via abbastanza vicino al centro di Racconigi, una di quelle vie vecchie dei paesi di una volta, troppo centrali per essere periferia e troppo periferiche per essere curate.

Dietro al cancello un piccolo cortile, al piano terra le zone comuni, il refettorio con la cucina ed il laboratorio dove si facevano quei lavoretti che non rendono nulla, ma servono ad impegnare il tempo, al primo piano le camerette dove si dormiva in due o tre per stanza e c'era sempre lo spazio per accogliere un ospite o un amico.

Una piccola comunità di cui non ricordo il nome, poteva essere "arcolabeno" o "girasoli", un nome semplice, un grande disegno sulla porta che serviva più che altro perchè se un ospite si perdeva gli bastava poter dire quella parola o mostrare il cartoncino con l'indirizzo e veniva riaccompagnato.

Gli ospiti erano liberi di andare e venire, si cercava di inserirli in qualche modo nel tessuto sociale della città cercando piccoli lavoretti, ma a quei tempi, quasi 35 anni fa non c'era ancora la sensibilità di oggi e si pensava che quelli li , "ca l'eru pa da bin", fossero più che inutili, un peso per la comunità.

Nel mio dialetto la frase che ho riportato prima significa che non erano a posto, non erano normali , o meglio non erano per bene e veniva usata indifferentemente sia per i down, che per i malati psichici. E' una frase talmente radicata in me, nella mia cultura, che ancora oggi non riesco a vederla con una valenza di giudizio negativo, ma come una classificazione povera e sommaria, un po' come il tempo che si divideva in giornate in cui pioveva oppure no.

In questa casa abitavano dai sei agli otto ragazzi e ragazze con problemi di varia natura e tre ragazze che fungevano da assistenti,  coordinatrici, amiche ma che per nessun motivo volevano essere distinte dagli altri, quella era una famiglia e loro erano a tutti gli effetti membri di quella famiglia, con pari diritti degli altri.
I doveri erano ovviamente diversi, ma questo faceva solo parte del concetto per cui chi poteva dare di più lo avrebbe fatto, come si direbbe oggi, senza "se" e senza "ma".

Una di queste ragazze era Caterina. L'avevo conosciuta per via di quegli incroci strani che avvengono quando sei adolescente, un mio amico era moroso della MariaTeresa che era amica dell'Ornella che era la sorella di Caterina, così' un giorno al compleanno a casa dell'Ornella mi sono trovato a parlare con lei. Ci siamo raccontati, o meglio lei mi ha raccontato, io avevo ben poco da raccontare se non qualche cazzata alle spalle di cui ero più o meno orgoglioso. A quel tempo bazzicavo con il gruppo Abele di Rivalta, nel senso che frequentavo i locali, partecipavo alle attività, suonavo la chitarra insieme a Dario e facevo parte di quei ragazzi fuori dal giro che danno un senso di normalità al tutto.

Lei mi ha raccontato di quello che faceva e tra le altre cose mi ha detto che tra gli ospiti c'era un ragazzo del mio paese che conoscevo, e poi l'invito "Perchè non vieni a trovarmi?"

E' iniziato così un periodo bello, lei era poco più vecchia di me ed aveva già la patente, passava a prendermi con la sua 2CV rossa, la mitica Citroen 2CV con i finestrini che si aprivano a metà in senso orizzontale e quando viaggiavamo alla pazzesca velocità di 70Km/h si muovevano nell'aria come le orecchie di un cocker.
Quando sopra eravamo in quattro la partenza in salita non era possibile, se ci fermavamo al passaggio a livello di Racconigi, per ripartire dovevamo scendere, lei iniziava a muoversi e risalivamo al volo.
Tempi mitici!

Ma per me il suo lavoro non era semplice, per me non era facile essere di aiuto. per carattere, per educazione metto barriere alte alla comunicazione, alle relazioni interpersonali, metto spazio tra me e l'interlocutore e così un sistema di relazioni per cui era naturale che un ragazzo o una ragazza della comunità ti abbracciasse per dirti che era contento di rivederti mi metteva in imbarazzo, quasi in soggezione.

Per Caterina invece era tutto naturale, li capiva, si entusiasmava per i loro stessi entusiasmi, lei sorrideva ed il suo sorriso era una luce che le accendeva il viso e gli occhi.

E cercava di spiegarmi quel mondo in cui mi muovevo come un pesce fuor d'acqua, il più a disagio ero proprio io, quasi a rimorchio, anche io come gli altri ad accudire a semplici compiti, taglia le cipolle, pela le patate, lava i piatti, suona qualcosa.

Caterina rideva quando le spiegavo le difficoltà che incontravo, e mi raccontava che forse avrei dovuto semplicemente lasciar fare ai ragazzi perchè il mio problema era la rigidità, in un certo senso mi sentivo superiore e dentro di me pensavo di dover essere io ad instaurare una comunicazione, mentre invece la comunicazione deve sempre avvenire ad un livello comune.

Mi ricordo bene quella chiaccherata, era l'estate del '77, sera tardi, tutti riposavano e noi stavamo fumando una sigaretta nel cortile godendoci un po' di fresco.

"Tu sei bravissimo", mi diceva, "ma come tutti quelli che si reputano normali pensi di dover essere tu a scendere al loro livello, pensi di dover essere tu ad aprire ponti con loro e non ti rendi conto invece di quello che loro possono insegnare a te, tu pensi a loro come portatori di handicap, e non riesci a vedere che sono semplicemente persone, ragazzi come te e me
Tu pensi di doverti abbassare al loro livello e non capisci che invece sono su un altro livello, non più in alto o più in basso, semplicemente un altro piano, in cui sanno muoversi e si sentono a loro agio, un piano in cui invece tu ti trovi in difficoltà"
Ed un altra volta mi disse ancora
"Tu credi di sapere cosa sia l'amore ed hai la testa piena di concetti epici, di parole altisonanti, ed invece l'amore è sostanzialmente capirsi, accettare che un altro entri nel tuo spazio, non difenderti, ma accoglierlo".

E' difficile cambiare un atteggiamento in maniera razionale, è difficile capire qualcosa con il cervello ed applicarla al cuore, perchè di norma ragione e sentimento camminano per strade differenti, per cui ho continuato a faticare, ma ad impegnarmi gratificato dal sorriso di Caterina, dalla sua amicizia e da quella sensazione di avere a portata di mano qualcosa di straordinario, ma che non riuscivo ad afferrare.
Dove però mi trovavo a mio agio era con la chitarra, stonato io, stonati i ragazzi, ma chissenefrega, si canta tanto per cantare mica per andare a sanremo.
Uno degli ospiti era Antonio, un ragazzino taciturno, introverso, che amava solo la sua tromba. Quasi mai c'era verso di riuscire a suonare qualcosa insieme, anche se si interessava alla musica che gli facevo ascoltare. Il "gloria in excelsis deo di Handel", "l'Ave Maria" di Gounod, i concerti di Vivaldi, tutti pezzi a cui la tromba regala un fascino particolare.
Ma anche Granada, il De Guello, il silenzio.

Per uno spettacolo avevamo provato l'Ave Maria di Gounod, io alla chitarra e lui alla tromba, Caterina a fare da mediatrice.
Era davvero bravo, non leggeva la musica, andava ad orecchio, ma se imparava una cosa non la dimenticava più.
Avevamo partecipato ad uno spettacolino in una parrocchia e tutto era andato bene, tanto che Caterina gli aveva detto che lo avrebbe voluto a suonare l'Ave Maria al suo matrimonio.
Era questa una promessa penetrata nella testa di Antonio che molte volte le faceva capire a suo modo che se ne ricordava  quasi a chiederle "quando sarà?"

Nel frattempo la vita seguiva i suoi ritmi, la vita di ognuno di noi segue le sue personali strade che a volte si allontanano altre si avvicinano, nel maggio 1978 sono partito militare, di ciò che avvenne in seguito ho avuto solo un racconto.

E' successo una sera che ad un incrocio, un furgone non avesse rispettato la precedenza e centrato in pieno la 2CV che stava arrivando, quella scatoletta di sardine si era accartocciata come fosse stagnola ad avvolgere un corpo immobile.
Trasportata all'ospedale le erano state riscontrate varie fratture, ma soprattutto un grave trauma cranico. Caterina era in coma e sembrava non volesse svegliarsi.
Al suo capezzale si alternavano i genitori, gli amici, i ragazzi e le ragazze della casa famiglia, le parlavano, le facevano ascoltare la musica che le piaceva, la stimolavano massaggiandole le mani, ma sembrava davvero che nulla potesse arrivare là dove lei era, nulla che potesse richiamarla, riportarla indietro.

I medici avevano lasciato fare, anzi all'inizio avevano anche incoraggiato questi tentativi, ma erano ormai passati quasi due mesi dalla data dell'incidente e Caterina non reagiva assolutamente, oltretutto l'ospedale di Fossano era troppo piccolo per tenere una persona così grave ed allora si stava decidendo di trasferirla a Torino, alle Molinette dove avrebbe potuto essere seguita meglio, ma questo significava la quasi impossibilità per i ragazzi di andarla ancora a trovare, di starle vicino.
La disperazione era palpabile,

Quel pomeriggio Antonio uscì da solo, da solo prese l'autobus, da solo arrivò fino all'ospedale. La porta che conduceva alla rianimazione era chiusa, ma c'era un'altro modo per arrivare, passando attraverso gli spogliatoi degli infermieri si arrivava ad un piccolo vestibolo dove i visitatori dovevano indossare le maschere protettive, il camice e le soprascarpe per non portare batteri in quegli ambienti sterili:
Diligentemente Antonio si vestì come aveva fatto altre volte, poi tolse dal suo zaino l'oggetto che aveva portato con se e tenendolo stretto si avviò verso la stanza dove Caterina dormiva il suo sonno senza risveglio.
Il ronzio delle macchine, i piccoli suoni degli apparecchi erano l'unico rumore nel reparto.
A me piace immaginare che quei suoni siano stati l'arpeggio introduttivo, poi nel silenzio del reparto si alzò piano, con quel suono pulito che è proprio delle trombe il canto lieve dell'Ave Maria.

Far ascoltare la musica ad un degente è facile, gli metti in testa le cuffiette, non disturbi nessuno, il suono di una tromba è tutta un'altra cosa, le note rimbalzano sulle pareti, si propagano, svegliano chi dorme, fanno saltare sulle sedie dottori ed infermieri.
In un attimo ci fu un trambusto indescrivibile, ma Antonio non lo poteva sapere, lui era li, solo in quella stanza dove dormiva la sua grande amica, lui , consapevole di essere il solo che potesse svegliarla e se questo non fosse avvenuto, tutto il resto non avrebbe comunque avuto importanza.

E le note salivano di intensità mentre la melodia si snodava, nessuno sa perchè l'infermiera fermò il medico che si stava per lanciare su Antonio, forse fu colpita dalla melodia, forse intenerità dal fatto che Antonio suonasse mentre le lacrime gli scorrevano sulle guance come un fiume in piena, o forse perchè semplicemente si era resa conto che il canto stava finendo ed ormai quel che era stato fatto era stato fatto, tanto valeva attendere quei pochi istanti in cui il ragazzo avrebbe staccato le labbra dalla tromba ed il silenzio sarebbe tornato
Poi dolcemente come una madre lo abbracciò e lo tenne stretto finchè si fu calmato e smise di piangere.

...ma le note erano entrate in cunicoli scuri dove l'oscurità è regina, come un filo d'Arianna si erano distese nei labirinti della mente fino ad arrivare al luogo dove dormiva la coscienza di Caterina, l'avevano presa per mano e la stavano riportando indietro...

... forse
.... e forse no!

Personalmente credo che i miracoli avvengano quando Dio si accorge di essersi distratto e che le situazioni hanno preso pieghe inaspettate, mi piacerebbe credere ad un Dio pietoso che ascolta l'umile suono di una tromba, la disperazioen di un ragazzo scartato dalla vita e che aveva in un angelo dai capelli neri la sua unica speranza di riscatto.
Mi fermo qui, ma voi potete decidese se questo sia fiaba o realtà ed in base a questo, potete scegliere il vostro finale.

 
 
 

Eiger NordWand

Post n°565 pubblicato il 18 Luglio 2018 da hieronimusb

(in memoria di Tony Kurtz, Andreas Hinterstoisser, Edi Rainer, Willi Angerer morti sull'Eiger NordWand Luglio 1936)

Sono stanco di questo buio Andreas, sono stanco di questo silenzio, di questa immobilità, in questi giorni a Berchtesgaden si taglia il fieno, posso sentire il campanaccio delle mucche sui pascoli, e l'odore che viene dall'erba tagliata. E se buio deve essere dovrebbe essere quello delle notti d'estate quando stavamo ad ascoltare i grilli cantare e guardavamo le stelle facendo progetti. i nostri progetti, la botta di vita che avrebbe cambiato tutto, che ci avrebbe resi famosi e soprattutto immortali.
Dopo tutti avrebbero parlato di noi, avremmo potuto lasciare il lavoro in fabbrica e fare finalmente quello che tanto amavamo. Ci avrebbero cercato Andreas! avrebbero pagato per venire in montagna con noi.
Sai che giorno è oggi Andreas? '
Il 18 luglio. Ricordi? Il giorno in cui è cominciato tutto. C'era la luna quella notte e c'erano le stelle e c'eravamo io e te fuori dalla tenda a guardare l'Orco! Eiger Nordwand, 1800 metri verticali di ghiaccio e roccia , la parete che faceva tremare le vene ai polsi a chiunque, la parete inviolata, la nostra parete, la nostra opportunità di uscire dal buio e dall'anonimato e scrivere il nostro nome accanto a quello dei grandi alpinisti.
Mi ero svegliato di soprassalto, c'era troppo silenzio! Fuori dalla nostra tenda le biciclette e nessun rumore dalla tenda di Edi e Willi. Erano già partiti, avevamo dormito troppo e loro se ne erano andati in silenzio per non svegliarci, per guadagnare tempo e vantaggio, sapevano che noi eravamo più forti e ci temevano.
Ricordo come correvamo su per l'attacco, per la prima paretina, quasi volavamo, ma non c'erano altre tracce oltre alle nostre, forse mi ero sbagliato, forse dormivano ancora o forse avevano trovato un'altra via di salita.
Ed invece li abbiamo trovati bloccati da quel passaggio di roccia strapiombante e con pochi appigli che oggi porta il tuo nome Andreas! "Traversata Hinterstoisser" almeno tu hai scritto il tuo nome su quella parete maledetta, perchè sei stato tu che sei passato dall'altra parte attaccato come un ragno alla parete, aggrappato per le unghie, ma di noi quattro solo tu potevi passare di li, eri il più forte, sei il più forte.
Lo hanno riconosciuto anche gli altri, abbiamo litigato noi tedeschi di baviera contro i due austriaci, ma alla fine abbiamo deciso di andare su insieme, la gloria si può dividere anche in quattro e ne resta sempre abbastanza per vivere, anche loro erano come noi e non potevamo negarci a vicenda l'opportunità di una vita intera, il treno che passa una sola volta.
Sei passato, hai legato la corda e siamo passati tutti noi , poi abbiamo ritirato la corda perchè si sa, siamo poveri, quella corda era tutto ciò che avevamo, corda di canapa 40 metri per un diametro di 14 millimetri. Pesante, pesantissima in confronto alle corde di oggi costruite in nylon che non si bagnano e non diventano rigide e ribelli come la nostra quando la neve e l'acqua la inzuppano.
Siamo andati su in due cordate separate, abbiamo passato il primo ed il secondo nevaio, ma l'orologio scorreva ed il caldo ha iniziato a sciogliere la neve e la parete a scaricare.
Scariche di valanghe e pietre, l'orco iniziava a fare sul serio. Sentiamo Edi gridare: Willi è stato colpito alla testa da una pietra ed ora sta male. Noi non avevamo i caschi di oggi a proteggerci, nel 1936 si usavano cappellacci che attutivano la botta, ma non ti salvavano la vita.
Era impossibile proseguire, dovevamo aspettare che la notte bloccasse di nuovo con il ghiaccio le pietre e la neve. Eravamo già oltre metà parete. Ci siamo fermati, abbiamo cercato un posto riparato ed abbiamo bivaccato.
Il giorno dopo Willi stava sempre male, non riusciva a muoversi bene, quel giorno siamo riusciti a salire solo di 200 metri, di quel passo sarebbe stato impossibile arrivare in cima, abbiamo dovuto fermarci un'altra volta e bivaccare, ma alla mattina del terzo giorno era chiaro che Willi non ce la faceva più a salire.
C'erano due soluzioni possibili, lasciare Edi a badare a willi in un riparo sicuro, salire in vetta e ridiscendere per chiamare aiuto, oppure rinunciare e tornare tutti insieme alla base lungo la via di salita, rinunciare ai sogni, rinunciare a tutto.
Nel primo caso Edi e Willi avrebbero dovuto attendere almeno due o tre giorni prima che i soccorsi arrivassero, non era possibile e non era neppure possibile che Edi scendesse da solo insieme a Willi su una parete così ostile.
Chi fa alpinismo estremo sa che esiste un patto segreto e mai detto tra i compagni di cordata per cui ognuno ha il dovere di salvare la propria vita quando l'aiutare un compagno in difficoltà può significare la morte per entrambi. C'è anche chi non riuscendo a tirare su un amico caduto ha tagliato la corda che li legava per potersi salvare e per anni ed anni ha udito l'urlo dell'amico che precipitava.
E' una legge dura, spietata, ma la natura in genere e la montagna in particolare non hanno pietà.

Eppure noi abbiamo deciso di scendere tutti insieme, non potevamo abbandonare dei compagni, che vittoria sarebbe stata la nostra? Con che cuore ci saremmo goduti il trionfo? E poi sapevamo che era nelle nostre forze quella parete, l'avremmo vinta un'altra volta, ormai lo sapevamo.

In quel giorno siamo riusciti a scendere solo di 300 metri e ne restavano ancora 800 per arrivare in fondo, abbiamo dovuto fare un altro bivacco, il terzo, sempre più stanchi, sempre più infreddoliti.
Scendiamo il primo nevaio ed arriviamo alla traversata, dopo la discesa è agevole e sicura, ma nevica e la placca è coperta di vetrato, i nostri ramponi a dieci punte sono inutili, mancano le due punte frontali, ogni tentativo di passaggio è impossibile.
Sentiamo chiamare i nostri nomi, una guida alpina si è affacciata dalle finestre che portano luce alla galleria del trenino che sale dentro la parete alla Jungfraujoch ci sta chiamando.
Gli gridiamo che stiamo bene e che proveremo a scendere in verticale in corda doppia anche se questo significa passare in un colatoio dove si raccolgono tutte le scariche che scendono dalla parete.
Ma se la fortuna non ti ha mai voluto bene, se la vita non ti ha mai amato costringendoti a combattere con le unghie e con i denti per ritagliarti un tuo spazio, può cambiare atteggiamento quando tutto è appeso ad un filo?
E' stato il rumore di un treno in corsa che ci precipitava addosso, ho visto te ed Edi precipitare lungo il canalone, ho incassato la testa tra le spalle e mi sono appiattito contro la parete cercando quasi di infilarmi nelle fessure, sentendo la neve e le pietre rotolarmi addosso. Quando tutto è finito ed è tornato il silenzio ero rimasto solo, ma soprattutto non avevo più nulla per scendere, ogni corda era scomparsa nella valanga e solo rimaneva uno spezzone al quale il corpo di Willi pendeva esanime.
Non c'era tempo per piangere, per pensare a te Andreas, a tutte le nostre scalate, le nostre corse, i nostri progetti, l'Orco non si era accontentato di vincere facendoci rinunciare, aveva voluto infierire, in quel momento ho saputo che non sarei mai ritornato su quella montagna maledetta.
Ho urlato di disperazione, ho chiesto aiuto. Il tecnico di prima, Von Allmen ha chiamato i soccorsi con il telefono di servizio e sono arrivate immediatamente delle guide che hanno cercato di raggiungermi, ma la neve che continuava a cadere si era trasformata in ghiaccio rendendo impossibile il passaggio.
E' stata un'altra notte , la quarta passata in parete. Ma adesso non c'era più la luna, non c'erano più le stelle ma solo freddo, vento e silenzio.
Non voglio morire, non posso morire, le ore trascorrono piano ed a mattina sento le voci dei soccorritori, sono vicino a me, sotto di me, non ci saranno più di dieci metri di noi, ma loro non riescono più a salire ed io non riesco a scendere.
Mi consigliano di recuperare la corda che mi lega ancora a Willi e farne un cordino da far scendere fino a loro in modo che possano passarmi una corda con cui scendere a corda doppio.
usando uno spuntone di roccia e la piccozza cerco di consumare la corda . Un cordino, poi un altro, infine la corda si strappa ed il corpo di Willi precipita nel vuoto lungo la strada da cui eravate passati tu ed Edi.
Con le mie mani di legno, le mie povere mani congelate disfo la corda, aiutandomi con i denti, piangendo e pregando riesco a fare un cordino lungo abbastanza e poco dopo ho in mano la corda che lego al mio spezzone e lascio cadere nel vuoto, mi assicurano che è arrivata.
Sono sfinito, ho paura di non avere le forze di reggermi ed allora adotto una tecnica che iniziava ad essere usata in quel periodo e faccio passare la corda attraverso il moschettone in modo che debba solo usare una mano per tenermi.
Scendo piano, lentamente, vedo sotto di me i volti delle guide, sono a tre metri di loro, ma improvvisamente mi blocco , il moschettone ha incontrato il nodo che avevo fatto prima e non c'è modo di farlo passare. Lo picchio disperatamente cerco in tutti i modi di liberarmi , sono appeso nel vuoto, non posso fare nulla.
Come quando soffi su un fiammifero e quello si spegne, così se ne va anche la mia vita, sotto gli occhi dei soccorritori impotenti la luce si spegne ed io non ci sono più.
Mi tirano giù il giorno dopo, e mi va ancora bene, a quell'italiano (1) ventanni dopo andrà molto peggio, resterà per due anni appeso in parete a monito di quanti vogliano sfidare l'orco, diventerà un'attrazione turistica da guardare con il cannocchiale da chi se ne sta al caldo degli alberghi di Grindelwald.
Mi tirano giù come si depone il cristo dalla croce, ed io sono il cristo, ferito, sconfitto, umiliato, ed infine ucciso.
Eppure oggi chi guarda la montagna si ricorda di me, Tony Kurtz e della mia passione, della lotta incredibile per salvarmi la vita e di come mi sia arreso infine perchè quando anche Dio è contro di te non c'è nulla che l'uomo possa fare.

--------------------------

Due anni dopo, negli stessi giorni 19-21 luglio 1938, una cordata formata nuovamente da due bavaresi e due austriaci Anderl Heckmair, Ludwig Worg , Fritz Kasparek, Heinrich Harrer raggiunge la vetta attraverso la Nordwande, avendo lasciato però attrezzata la traversata Hinterstoisser per garantirsi la ritirata.

(1) Era Stefano Longhi di Lecco, in cordata insieme a Claudio Corti che invece si salvò, la storia è raccontata in un libro "morte sull'Eiger", che ripercorre le vicende giudiziarie successive a quella sfortunata scalata in cui sparirono anche due giovani alpinisti tedeschi e Corti fu accusato di averli uccisi. I loro corpi furono invece ritrovati quattro anni dopo la sciagura, nel 1961. Arrivati sulla vetta, erano ridiscesi dalla parete Ovest, non riuscendo a salvarsi per una questione di poche ore.

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: hieronimusb
Data di creazione: 10/12/2008
 

UANDEO (E SE) MORIRÒ

Quando , (e se), un giorno morirò
non voglio un prete che mi parli di un dio in cui non credo
o di paradisi che non mi interessano,
di inferni che non ho meritato
e se un purgatoriò ci deve essere
non sarà diverso dal mondo in cui ho vissuto

quando , (e se), un giorno morirò,
non voglio tombe costruite come casa
nè che si estirpino  fiori
se il senso della vita deve essere
nel tornare da dove son venuto
sarà l'utero della terra la mia ultima casa

Quando, (e se) morirò
sarà perchè ho vissuto
in un lungo istante senza tempo
raccolto come seme che diventa albero e poi frutto
come il fiume che corre e corre per tornare al mare
senza pensare neppure un momento
che questa vita possa finire

Se e quando morirò,
sarà perchè ho cercato nell'ultimo viaggio
la chiave segreta del tutto

 Alex

 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963