SUBARAU

Gioie e Dolori del Kendo: il torneo Mu Mun Kwan 2009


Mancavo da Lodi dal 1986. In 23 anni la cittadina è cresciuta, e quel che ricordavo come un piccolo paese avvolto nella bruma invernale si è rivelato un luogo brioso, ricco, con una vitalità piacevole e accogliente. Pianure verdi cullano l’abitato e dalla sua periferia al centro è un crescere di strutture organizzate, di persone cortesi, di strade pulite che si stringono attorno a un centro storico bellissimo, con massicci portici pieni di luci, movimento e umana simpatia.Mi ha fatto dunque un gran piacere tornarvi in occasione dell’XI edizione del Mu Mun Kwan.L’MMK è considerato uno dei momenti più significativi del kendo italiano, e anche quest’anno non ha deluso. Forse un po’ meno frequentato rispetto ad altre edizioni, ha mantenuto i suoi elevati standard, raccogliendo ancora una volta rappresentative di alto contenuto tecnico e umano.La parte migliore del torneo è certo l’organizzazione.Cesare Kim è un simpatico folletto che dai suoi indecifrabili occhi a mandorla esprime calore e ironia, sempre indaffarato da un capo all’altro del palazzetto per porre rimedio alle esigenze dell’ultimo istante: una traduzione per gli ospiti stranieri, la sistemazione di un angolo scollato dello shiaijo, l’elaborazione al computer degli accoppiamenti delle squadre, e tutto quel che viene.Il M° Kim è il guru di questa come di molte altre manifestazioni, campionati italiani compresi. Papà di Cesare, porta scritta sul volto e nei modi la compassatezza di chi abbia conosciuto molto della vita, sia nella sua componente interiore che in quella combattiva e disciplinata del kendo.Potrei accennare ad altre persone ottimamente dedite ogni anno alla realizzazione dell’MMK, ma soprassiedo perché non è questo il nocciolo della questione. Dire bene del torneo è superfluo, giacché i contenuti espressi, sia in termini di stage (tenuto dal M° K.C. Ko, Hanshi 8° Dan di kendo e direttore tecnico della nazionale coreana, e fin troppo “up”, considerato il tasso tecnico dei partecipanti,) che di gara, parlano da soli. Conta piuttosto soffermarsi sul contraltare della manifestazione – la cui responsabilità non è imputabile alla stessa – e che si ripropone nella maggior parte dei tornei nazionali organizzati e/o riconosciuti dalla Confederazione Italiana Kendo: l'arbitraggio.Poiché a Lodi c’ero, ho osservato e ho ascoltato. E adesso scrivo, per analizzare pubblicamente la generale scontetezza dei kendoka.Mi son detto che per partecipare a un serio torneo di kendo sono necessari sacrifici. Il kendo è una passione, certo, ma è anche un’attività fisicamente stressante, tecnicamente difficile, mentalmente impegnativa. Il kendoka – uomo di sentimenti, valori e passioni - mette tutto di sè per prepararsi adeguatamente a un, che so?, MMK. Ogni atleta sostiene delle spese per potersi confrontare sul parquet. Molti vengono davvero da lontano, o non hanno alle spalle alcuna forma di contribuzione. Da questo punto di vista, del resto, la Federazione latita. Sin qui, ad ogni modo, tutto ok: ogni kendoka segue per scelta la voce della propria passione.Che ogni cosa venga però poi vanificata da certa approssimazione fa storcere il naso. E anche preoccupare. Mi spiego.Prima dell’inizio delle gare, il M° Kim, dall’alto della sua delicata autorevolezza, ha offerto ai kendoka alcune indicazioni affinché gli ippon potessero essere riconosciuti come tali. Tale chiarificazione è stata oggettivamente utile perché espressa pubblicamente e a chiara voce. Sullo shiaijo, però, ogni coordinata è saltata. Coloro i quali avrebbero dovuto rappresentare la salvaguardia della precisione e correttezza di un combattimento – gli arbitri – evidentemente erano per la maggior parte distratti mentre il M° Kim provava ad illuminare tutti – indistintamente – con le sue considerazioni di tecnica e di spirito.Così, al momento delle gare ecco prender vita paradossi stupefacenti: chiari ippon negati un istante prima al kendoka A, identicamente eseguiti due secondi dopo dall’avversario kendoka B venivano riconosciuti all’unanimità arbitrale come colpo vincente.Ancora, da un lato ripetute titubanza nell’accordare un colpo agli atleti italiani – nessuno escluso – e dall’altro lato costante atteggiamento di entusiasta benevolenza esterofila verso gli atleti stranieri: più o meno un ippon per colpoHo dinanzi agli occhi I kote inflitti dai coreani - atleti veramente eccezionali dai quali ognuno di noi può solo imparare - ai loro avversari: volavano sfiorando - più che colpendo - il guanto dell’avversario, con tecnica bellissima e implacabile, e giustamente veniva loro riconosciuto il colpo. Ma se un atleta italiano avesse fatto qualcosa di simile, nessun arbitro della nostra federazione gli avrebbe riconosciuto l’ippon: perché, come recita la filastrocca, “se non senti il kote, il colpo non c’è…”Potrei dire altro, ma non importa. Conta piuttosto riflettere su una questione: quali parametri deve seguire un kendoka? E quali un arbitro? E c’è la possibilità di un punto di incontro tra i parametri degli uni e degli altri? Insomma, il kendoka da chi si deve guardare? Dall’avversario o dall’arbitro?Sul fronte tecnico e arbitrale la federazione è dunque chiamata a chiarire d’autorità alcune questioni, se ne è in grado e se la “politica estera dello sport” non la mette, come temo, sotto scacco.Noi siamo qui per darle alcuni suggerimenti e aiutarla.Chiudo rilevando che quanto sopra detto non và però assolutizzato: a fronte di arbitri incompetenti, o con manie di protagonismo, o poveri di spirito di imparzialità, primeggiano anche personalità umilmente magnifiche: voglio ricordare ad esempio il M° Zago, il M° Pomero o il M° Lancini – insieme a pochi altri – ai quali và il plauso e la gratitudine dei fianchi, dei polmoni e dei cuori dei kendoka, i quali sanno che - con tali maestri all’arbitraggio - non saranno costretti a spomparsi inutilmente alla ricerca dell’ippon che nessuno, al di fuori di loro, pare essere più in grado di riconoscere.Con cordialità. Sentzo Tomori