cahiers de doléances

Rousseau, Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1755)


dal Discorso  Occorre partire dallo studio dell’uomo originario; anche se è difficile discernere ciò che vi è di originario da ciò che vi è di artificiale nella natura dell’uomo. Tutti i filosofi cercano di risalire fino allo stato di natura, ma nessuno c’è arrivato… tutti parlano continuamente di bisogno, avidità, oppressione, desiderio, trasportando nello stato di natura delle idee che avevano prese dalla società civile. Hobbes pensa che l’uomo sia naturalmente coraggioso e non desideri altro che attaccar briga… altri pensano che non ci sia niente di più timido dell’uomo nello stato di natura [Montesquieu]. L’uomo selvaggio vive sempre in pericolo; la sopravvivenza è la sua unica cura. Dal confronto con gli animali capisce che può superare la loro forza con l’astuzia. Vede che a differenza degli animali esso non agisce per istinto, ma per un atto di libertà. Un’altra qualità dell’uomo è la facoltà di perfezionarsi: questa qualità distintiva è la sorgente di tutte le sventure dell’uomo; poiché è essa che lo fa uscire da quella condizione naturale nella quale passerebbe giorni tranquilli e felici; ed è essa che di secolo in secolo, facendo sviluppare l’intelligenza e gli errori, vizi e virtù, lo rende tiranno a se stesso.L’uomo selvaggio, privo di conoscenze, non conosce altre passioni che i propri bisogni fisici: il nutrimento, una femmina, il riposo.Alcuni dicono che questo stato di natura sarebbe miserabile. [Rousseau si chiede]: Ma la vita civile o quella naturale è più soggetta a divenire insopportabile a coloro che ne godono? Hobbes ha fatto entrare nella cura dell’uomo selvaggio il bisogno di soddisfare una quantità di passioni che sono opera della società.Due principi anteriori alla ragione appartengono all’uomo:quello di conservazionela ripugnanza innata a vedere soffrire il proprio simile (pietà, compassione - che Hobbes non ha visto).Dall’unione di questi due principi derivano tutte le regole del diritto naturale. La compassione, è un sentimento naturale che attenua l’egoismo e concorre alla mutua conservazione della specie. La pietà nello stato di natura tiene luogo di legge, costume, virtù. Non è necessario ricorrere al principio di socievolezza. “… l’uomo selvaggio, errabondo nelle foreste, senza industria, senza favella, senza domicilio, senza guerra e senza amicizie, senza aver bisogno dei propri simili e senza aver alcun desiderio di nuocere loro, forse persino incapace di riconoscere individualmente qualcuno; soggetto a poche passioni e bastante a se stesso, non aveva che i sentimenti e i lumi propri a questo stato, non sentiva che i suoi veri bisogni, guardava soltanto ciò che credeva gli interessasse di vedere e la sua intelligenza non faceva più progressi della sua curiosità. se per caso faceva qualche scoperta, non poteva assolutamente comunicarla, visto che non conosceva neppure i suoi figli. L’arte periva con l’inventore. Non c’era né educazione né progresso, le generazioni si moltiplicavano inutilmente. E poiché ciascuno partiva sempre dallo stesso punto i secoli passavano mantenendo tutta la rozzezza delle prime età: la specie era già vecchia e l’uomo restava sempre fanciullo.Mi sono esteso così a lungo nella rappresentazione ipotetica [n. b.] di questo stato primitivo…” La disuguaglianza fra uomo e uomo nello stato di natura è quasi nulla, essa aumenta per opera della disuguaglianza derivata dalle istituzioni. Come potrebbe esserci l’oppressione, il dominio nello stato di natura (un uomo, per esempio, di forza superiore alla mia, abbastanza depravato, pigro e feroce da costringermi a provvedere alla sua sussistenza mentre lui se ne resta in ozio, bisognerebbe che non mi perdesse di vista un solo istante, insomma sarebbe costretto ad esporsi a una fatica assai più grande di quella che vorrebbe evitare).Le catene della servitù si sono formate soltanto per opera della mutua dipendenza degli uomini e dei bisogni reciproci che li uniscono.La legge del più forte è vana nello stato di natura. Per l’asservimento occorre che l’uomo sia messo nella condizione di non poter fare a meno di un altro.Rendendosi socievole l’essere umano si è reso cattivo.[R. mostra successivamente i diversi casi che hanno perfezionato la ragione umana, peggiorando la specie].Il primo che ha recintato un terreno, dicendo “questo è mio” e ha trovato delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi avesse detto ai suoi simili: “guardatevi da questo impostore; se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!” Ma l’idea di proprietà non nacque improvvisamente nello spirito umano, furono necessari molti progressi prima di arrivare a quest’ultimo confine dello stato di natura.L’esperienza ha insegnato all’uomo che l’amore del benessere è il solo movente della azioni umane; e che occasionalmente, per un interesse comune, poteva contare sull’aiuto dei suoi simili.La prima rivoluzione si ha con l’istituzione della famiglia; nacque l’abitudine a vivere insieme (marito e moglie, padre e figli). Diverse famiglie poi si legano tra loro. Fonte di tutti i mali è proprio la vita in comune: il primo passo verso la disuguaglianza e verso il vizio. Dal confronto reciproco nacquero la vanità, il disprezzo, la vergogna e l’invidia. Nasce l’idea di stima: ognuno pretese di avervi diritto; ogni minimo torto divenne un oltraggio. E così ognuno puniva il disprezzo in base alla stima che aveva di sé con vendette crudeli. Questo è lo stadio in cui sono i popoli selvaggi a noi noti.Si pensa che l’uomo dello stato di natura sia in questa fase e ci sia bisogno del potere statale per addolcirlo. Invece l’uomo dello stato di natura è a uguale distanza fra la stupidità dei bruti e l’intelligenza funesta dell’uomo civile.Gli uomini vissero n uno stato felice, liberi e sani finché vissero indipendenti. Dal momento in cui che un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, dal momento che era utile ad uno solo di avere provviste per due – da questo momento l’uguaglianza disparve: si introdusse la proprietà, e il lavoro divenne necessario.… le foreste divennero campagne che bisognò innaffiare col sudore degli uomini e nelle quali si videro germogliare e crescere insieme alle messi la schiavitù e la miseria.L’idea di proprietà, dunque, deriva dalla coltivazione delle terre e nasce dall’idea di lavoro. E’ soltanto il lavoro che dà il diritto al coltivatore sul prodotto della terra [come in Locke]. Così la disuguaglianza naturale diventa più sensibile e le differenze tra gli uomini diventano permanenti, e cominciano a influire sulla sorte degli individui. A questo punto tutte le qualità umane sono messe in azione e la sorte di ogni uomo è stabilità non solo sulla quantità di ricchezze ed il potere di servire o di nuocere ma anche sull’intelligenza, la bellezza, la forza o l’astuzia, sul merito o sulle capacità. E poiché queste qualità sono le sole che possono destare la stima , ben presto fu necessario o averle o simularle. Essere e apparire divennero due cose affatto diverse.L’uomo, da libero e indipendente che era prima, eccolo a causa di una quantità di nuovi bisogni non può fare a meno dei suoi simili, di cui in un certo senso diventa schiavo… il che lo rende imbroglione e artificioso con gli uni, imperioso e duro con gli altri.“E infine l’ambizione divorante, l’intenso desiderio di elevare la propria condizione (non tanto per un vero bisogno quanto per mettersi al di sopra degli altri), ispira a tutti gli uomini una trista inclinazione a nuocersi a vicenda, una segreta gelosia tanto più dannosa in quanto, per agire con più sicurezza, si mette la maschera della benevolenza – insomma, concorrenza e rivalità da una parte, dall’altra opposizione di interessi, e sempre il desiderio nascosto di fare il proprio vantaggio a danno degli altri: tutti questi mali sono il primo effetto della proprietà e l’inseparabile accompagnamento della nascente disuguaglianza”.Dalla nascente disuguaglianza cominciò a nascere la dominazione e la servitù, oppure la violenza e le rapine. Le usurpazioni dei ricchi e il brigantaggio dei poveri, soffocarono la pietà naturale – e le passioni sfrenate resero gli uomini avari, ambiziosi, cattivi.Fra il diritto del più forte e il diritto del primo occupante, sorse un conflitto perpetuo che finiva soltanto con combattimenti e uccisioni.La società nascente è già uno stato di guerra.La guerra fu sentita svantaggiosa soprattutto dai ricchi, perché sentivano minacciati i loro possessi (per loro natura abusivi e precari). Il ricco, spinto dalla necessità, alla fine ideò il progetto più meditato di quanti siano stati nell’intelletto umano; invento delle ragioni per trasformare i suoi avversari in suoi difensori: fece vedere l’orrore di una situazione in cui tutti sono armati contro tutti e in cui nessuno trova la sicurezza. Uniamoci, disse, per garantire i deboli dalla oppressione, per contenere gli ambiziosi e per assicurare ad ognuno il possesso di ciò che gli appartiene; istituiamo dei regolamenti di giustizia a cui tutti siano obbligati ad uniformarsi.Questa dovette essere l’origine della società e delle leggiche diedero nuove pastoie al debole e nuova forza al ricco. Tutti corsero incontro alle catene credendo di assicurarsi la libertà. Esse distrussero la libertà naturale e stabilirono per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza – e di un’abile usurpazione fecero un diritto irrevocabile.“… a mano a mano che l’uomo originario sparisce, la società non offre più agli occhi del saggio che lo spettacolo di una riunione di uomini artificiali e di passioni fittizie che sono opera di queste nuove relazioni e non hanno alcun vero fondamento nella natura […] la disuguaglianza, la quale è quasi nulla nello stato di natura, trae forza ed incremento dallo sviluppo delle nostre facoltà e dai progressi dello spirito umano e diviene alla fine stabile e legittima ad opera dell’istituzione della proprietà e delle leggi.”[1][1] Il testo utilizzato per questa sintesi è quello curato da Giulio Preti, Universale Economica, Milano 1949.