Coniglio mannaro

Macario, omaggio al nostro “Pierrot lunaire”


di ELENA PERCIVALDIL’omaggio che in questi giorni il quotidiano “La Stampa” sta riservando  a Erminio Macario è doveroso, dato che il grande attore torinese è stato uno dei più amati e indimenticabili artisti del panorama cinematografico, teatrale e televisivo italiano.  Un pezzo da novanta, che nella sua lunga carriera ha lavorato ad oltre 50 spettacoli  tra riviste, varietà, commedie musicali e  prosa.  Una maschera surreale, che bucava lo schermo anche in tv e al cinema, e che seppe (come  Gilberto Govi per il genovese) “sdoganare” il suo piemontese facendolo diventare una cifra autentica e indissolubile dei suoi personaggi, una caratteristica fondamentale delle sue indimenticabili macchiette. Candido e goffo come Charlot, funambolico come i fratelli Marx, l’umorismo di Macario  riusciva ad essere tanto  innocente quanto lieve, poeticamente sospeso fra sapienti  pause  e una salacità dissimulata di battute, che lasciava intravedere lontano lontano, in fondo a quei  grandi occhi scuri perennemente sbarrati sul pubblico, un velo di tristezza quasi ancestrale. Come   tutti i grandi. Come Buster Keaton. “CANDIDO MACARIO” Macario nacque a Torino il  27 maggio 1902, e nel capoluogo piemontese  - città fredda e grigia  che amò sempre moltissimo - si spense ventisei anni fa, il  26 marzo 1980.  La  sua era una famiglia povera, di quelle che  oggi in tempi di opulenza non è facile immaginare. Povera eppur dignitosa, che riusciva a campare con tanti sacrifici, ma con il contributo di tutti. Anche del piccolo Erminio, che come tanti bambini di quell’età fu costretto a  interrompere la scuola  per lavorare.  Lui che pure, vivace e sveglio anzi precoce, sin da piccolo amava così tanto recitare.  Fu così, tra un mestiere e l’altro, che diciottenne riuscì ad entrare in una  di quelle compagnie di “scavalcamontagne” tanto popolari nei piccoli e grandi paesi del Piemonte, che balzavano agli onori delle cronache durante le fiere per le loro rappresentazioni  farsesche. Anni duri, fatti di gavetta e di fatica. Ma che fecero scoprire  a Macario di aver ricevuto alcuni dei più grandi doni che un attore possa mai  desiderare: la vocazione per il teatro e  la capacità di far sorridere, anche solo con un  piccolo cenno del volto o del corpo.  Il mimo, l’arte di imitare la realtà sapendone cogliere il lato parodistico, era forse la migliore delle sue qualità.    E lo dimostrò  quando, dopo un fugace esordio nel ’21 nel teatro di prosa, nel ’24, passò a quello di varietà nella compagnia di balli e pantomime di Giovanni Molasso, debuttando  come secondo comico al Teatro Romano di Torino con le riviste “Sei solo stasera” e “Senza complimenti”.  L’anno fu cruciale:  a Milano portò  “Il pupo giallo” e   “Vengo con questa mia” di Piero Mazzuccato, e nel ’25  “Tam-Tam” di Carlo Rota e “Arcobaleno” ancora di Mazzuccato e Veneziani.  Su quel giovane esile, dal volto buffo e dall’agilità di un burattino, posò gli occhi l’allora celebre  soubrette Isa Bluette, che decise di puntare su di lui per il ruolo di comico grottesco della sua compagnia, una tra le più importanti del panorama italiano agli albori del Ventennio. Certo, non erano, quelli, anni in cui ridere. Sullo sfondo c’erano la crisi agraria, la marcia su Roma, il delitto Matteotti, l’ascesa e l’affermarsi del Fascismo.  Ma il giovane comico piemontese  sapeva ben vedere l’ironia dove non c’era, e il grottesco dove c’era eccome. Si poteva  comunque ridere. Bastava una maschera da  clown, un ciuffo di capelli sulla fronte, una camminata  ciondolante. E intorno, come per contrasto, donne ammiccanti e dalle lunghe gambe, che apparivano e scomparivano avvolte in una nuvola di profumo e di cipria, come in un sogno proibito.  Il successo arrivò rapido come una saetta. Nel ’29 scrisse in collaborazione con Chiappo,  la sua prima rivista come autore, “Paese che vai”, e nel ’30, pronto ormai al “grande salto”, fondò la sua prima compagnia, con cui girò l’Italia dal ’30 al ’35. Il destino ne avrebbe fatto una delle  più longeve del nostro teatro. E mentre,  dal ’37,  con Wanda Osiris dava vita alla coppia più famosa degli spettacoli di genere, non trascurava la sua verve da talent scout  lanciando una moltitudine di soubrette come Tina De Mola, Lea Padovani, Isa Barzizza, le sorelle Nava,   Marisa Maresca, Lauretta Masiero,   Valeria Fabrizi, Sandra Mondaini e le Bluebelles Girls.IN DUO CON LA WANDISSIMAArrivò anche il grande amore, quello per  la  sedicenne Giulia Dardanelli: scaricata la coreografa Maria Giuliano,  sua prima moglie, l’avrebbe sposata nel ’51 a Parigi mentre debuttava la rivista “Votate per Venere”, ponendo fine allo scandalo e dando un padre ai due bambini nati nel frattempo dalla loro unione. E arrivò anche la consacrazione. Macario diventa  il “re della rivista”, i suoi spettacoli grondano  scene ricchissime e costumi sontuosi in un tripudio  di gambe femminili, una miscela esplosiva di sensualità e comicità farsesca destinata a mietere, negli anni 40, un successo dietro l’altro:  “Amleto, che ne dici?”,  “Febbre azzurra”, “Le educande di San Babila”   e “La bisbetica sognata”.  Macario però capì che non si poteva continuare a lungo su questa strada. A guerra finita, caduto il Fascismo e col Paese in piena ricostruzione, era tempo di rivedere la formula magica. Fu il momento della  commedia musicale: “L'uomo si conquista la domenica”, “Non sparate alla cicogna”, “E tu, biondina”  e “Chiamate Arturo 777”, al suo fianco  la  Mondaini  e Marisa Del Frate. E fu ancora trionfo. Ma il teatro non era tutto nella vita di Macario. C’era anche  il cinema. Il debutto era avvenuto già nel ’33 con “Aria di paese”, quasi un flop. Rimediò col successivo  “Imputato, alzatevi!” (’39), prima commedia surreale del nostro cinema.  Poi, negli anni 40 i successi di “Lo vedi come sei... lo vedi come sei?”, “Il pirata sono io!”  e “Non me lo dire!”,  il campione di incassi “Come persi la guerra”, e ancora “L’eroe della strada” e “Come scopersi l’America”. Non si appagava facilmente. Tentò la via della produzione  realizzando il film “Io, Amleto” (1952),  un autentico disastro.  Ma nel ’57, scelto dal grande Mario Soldati per un ruolo drammatico nel suo “Italia piccola”,  offrì una prova eccellente dimostrando ancora una volta la sua  versatilità d’attore.  Fu sei volte accanto a Totò: da “La cambiale” a “Totò di notte n. 1”, da “Lo smemorato di Collegno”  a “Totò contro i quattro” , da  “Il monaco di Monza” a “Totò sexy”. Non tutti sono film memorabili. Ma ciò che resta  è,  con un Totò ancora più irruente di fronte al tipico balbettìo bogianen di Macario, una serie di duetti impareggiabili e di una comicità a tratti straniante. Gli ultimi anni della carriera di Macario  furono dedicati  al teatro di prosa, con alcuni ruoli in  piemontese. Memorabile la sua rivisitazione delle “Miserie ’d Monssù Travet”, un classico portato allo  Stabile di Torino nel 1970. Da ricordare   in tv  le apparizioni a “Carosello”, “Achille Ciabotto medico condotto”, “Carlin Ceruti sarto per tuti”, “Il piatto piange” e   “Due sul pianerottolo” (1975-76), già enorme successo a teatro accanto a Rita Pavone e poi  film diretto da Mario Amendola. Esilarante la rivisitazione  de “Il medico per forza” di Molière, che nel ’77  Macario scelse per l’inaugurazione del teatro La Bomboniera di Torino, da lui stesso fondato.   E proprio a teatro, durante l’ultima replica di “Oplà, giochiamo insieme”, Macario accusò quel malessere che si rivelò  poi un tumore. Poco dopo, il 26 marzo 1980,  Erminio si spense in una clinica torinese, assistito fino all’ultimo dalla sua amata  Giulia.COME PIERROT:  INARRIVABILEMacario conquistò tutti col suo  personaggio semplice e ingenuo,  malinconico ma ottimista e fiducioso,  il  viso infantile, gli occhi rotondi in perenne rotazione e l’immancabile ricciolo a virgola,  la dizione  piemontese. «Mi dicono che io facevo Ionesco quando Ionesco quasi non era nato - disse  una volta Macario  -  e d’altronde io lo so... sono sempre stato un po’ lunare». Ecco, lunare è la parola giusta per definirlo. Soprattutto se richiama alla memoria il  “Pierrot lunaire” di Arnold Schönberg, fantasmagorica  composizione atonale in cui l’immagine romantica dell’eroe malinconico e triste viene deformata, grazie alla vocalità straniata dello Sprechsang   e alle glaciali e stridenti invenzioni musicali, in smorfie  ora macabre ora grottesche,  dando vita ad una sorta di visione allucinata ed espressionista in cui il protagonista diventa un poeta dell’ironia e della sofferenza.  Perché Macario questo fu: un poeta dell’ironia e della sofferenza.   Plasmato con la stessa essenza cosmica delle stelle, tale  (con  Totò, Govi e pochi altri) resterà, pallido e inarrivabile,  per sempre. N.B. ARTICOLO PROTETTO DA COPYRIGHT