Coniglio mannaro

Cappella Ovetari, restituzione di un capolavoro


Di Elena Percivaldi PADOVA – Immaginate di trovarvi in un negozio di antiquariato e all’improvviso, senza alcuna ragione apparente, un bambino dispettoso prende in mano un antico cristallo di Boemia e lo sbatte violentemente a terra. Pochi secondi, e un capolavoro preziosissimo costato ingegno, tecnica e fatica si dissolve in una miriade di frantumi. Perduto. Per sempre. Mutatis mutandis, è proprio quello che accadde l’11 marzo del 1944 mentre gli aerei alleati, in volo su Padova, giocavano al tiro al bersaglio sulla città del Santo. Sotto la pioggia di bombe – allora come oggi, tutt’altro che intelligenti - caddero numerosi edifici antichi e di pregio, e tra loro anche la chiesa degli Eremitani con le sue splendide cappelle affrescate. E dissolta in un mare di polvere c’era anche la più celebre di tutte, la cappella Ovetari, firmata  tra gli altri da un giovanissimo Andrea Mantegna: la schiacciante testimonianza dell’opera di un genio che aveva contribuito ad ammodernare il linguaggio figurativo nel nord Italia, dando vita ad una vera e propria rivoluzione artistica e aprendo le porte al Rinascimento padano. Da quella distruzione insensata si salvarono solo alcuni affreschi che per fortuna erano stati staccati nell’Ottocento, mentre tra le macerie fumanti – una scena che in quegli anni si è ripetuta molte volte: Montecassino, il camposanto di Pisa, Dresda la “Venezia” del Nord… -  furono recuperati, grazie ai molti volontari, circa 80 mila frammenti, la maggior parte grandi come un francobollo.  Ecco tutto ciò che restava dell’imponente (750 metri quadri!) superficie dipinta, insieme a una serie di fotografie in bianco e nero del ciclo realizzate nel 1920 dai Fratelli Alinari.La tragedia fu immortalata dallo storico dell’arte Giuseppe Fiocco in una laconica epigrafe: “La cappella Ovetari è morta, quando erano appena state socchiuse le porte del suo secreto”. Morta nel 1944, ma risorta ora, sessantadue anni dopo, restaurata in concomitanza con l’avvio delle celebrazioni – a Padova, Verona e Mantova – per il mezzo millennio dalla morte del suo creatore e in occasione della grande mostra “Mantegna e Padova 1445–1460” al Museo Civico agli Eremitani: una vera e propria “restituzione” al mondo intero di uno dei più straordinari gioielli dell’arte di tutti i tempi che sarà celebrata ufficialmente il 16 settembre, quando sia le esposizioni sia la Cappella saranno inaugurate e aperte al pubblico. Il restauro, costato quasi un milione di euro e finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, ha avuto come stella polare il recupero dell’antica suggestione della Chiesa degli Eremitani e della sua cappella più bella, le cui decorazioni erano state commissionate nel 1448 da una ricca vedova, Imperatrice Ovetari, in memoria del marito defunto. A realizzarla furono chiamati, oltre al giovane e promettente Mantegna, alcuni dei maggiori protagonisti della scena pittorica padana dell’epoca:  Nicolò Pizolo, Giovanni d'Alemagna e Antonio Vivarini, e poi Ansuino da Forlì, Bono da Ferrara. Tema scelto per il ciclo - eseguito tra il 1448 e il 1457 -,  le storie dei santi Giacomo e Cristoforo: considerati il punto d’avvio del rinascimento padovano, gli affreschi dimostrano il peso, nella formazione dell’artista di Isola di Carturo, di Donatello, al quale si ispirò nel gigantismo delle figure, nella marcata espressività dei volti e dei gesti, nella composizione prospettico-spaziale. Tre i momenti fondamentali del recupero: un restauro architettonico, la ricostruzione della decorazione pittorica dell’intera parete sud della cappella - con la ricollocazione reale di numerosi frammenti e con il restauro di ciò che rimane - e infine la proposta virtuale, attraverso una proiezione non invasiva, degli affreschi della parete nord e della volta centrale.  La data è di quelle da segnare in rosso sul calendario. Anche perché da quel tragico 11 marzo in molti hanno cercato di compiere il miracolo e rimettere insieme quel poco che restava del capolavoro giovanile del Mantegna restituendolo, per così dire, al mondo dei vivi. Il primo fu Cesare Brandi, direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, che nel ’45 riuscì a ricomporre con certosina pazienza poche porzioni – le più grandi e meno malandate - di quattro scene e a ricollocarle nel contesto originario. Ma fu subito evidente che eseguire un restauro di tipo tradizionale era una missione praticamente impossibile: la maggior parte dei frammenti non raggiungeva i 5 centimetri quadrati, e di molti non si riusciva nemmeno a capire da che parte arrivassero. Così, dopo vari tentativi, 35 casse con il materiale superstite, imballate con cura amorevole dai volontari padovani subito dopo il dramma, ripresero nel 1975 la strada di casa, seguite diciassette anni dopo dalle restanti 39: affidate ai depositi del Museo Diocesano di Padova, rimasero a prender polvere fino al ‘94, quando la Soprintendenza per il Patrimonio Storico e Artistico del Veneto decise di riaprirle per tentare di nuovo l’impresa. Che stavolta non si rivelò disperata. Gli “eroi” sono Domenico Toniolo e Massimo Fornasier, entrambi dell’Università di Padova, e le loro armi segrete si chiamano informatica e tecnologia avanzata, cementate dalla costanza e da una pazienza degna di Giobbe. In oltre tre anni di lavoro calligrafico, i due studiosi hanno restaurato, fotografato, catalogato e “trasferito” virtualmente su cd-rom ben di ben 80.735 frammenti. La metodologia usata ha un nome che sembra una sciarada: “anastilosi informatica”, cioè una procedura che, con l’aiuto di un algoritmo eseguito da un computer, opera su una rappresentazione digitale di un’immagine e dei suoi frammenti, ed è in grado di calcolare automaticamente (e con buona approssimazione) la posizione e l'orientamento in cui originariamente si trovava ciascun frammento. Sembra arabo, ma in parole povere il computer estrae l’immagine di un frammento, la elabora individuando un numero (massimo poche decine) di posizioni possibili all’interno di una scena e poi – ma qui è l’occhio esperto dello studioso a intervenire! - , la ricolloca virtualmente al suo posto sullo sfondo grigio delle fotografie di Alinari: è come fare un gigantesco puzzle, ma senza prendere in mano i pezzi. Davvero geniale. L’incredibile lavoro – che va sotto il nome di Progetto Mantegna -  ha dunque reso nuovamente possibile ammirare e studiare il ciclo di affreschi,  aprendo la strada a importanti novità sullo stile e sulla formazione dell’artista  che saranno, tra le altre cose, oggetto delle mostre-evento aperte dalla prossima settimana.  E non è tutto. Il progetto di restauro (di cui dà conto il volume “Andrea Mantegna. La Cappella Ovetari a Padova” edito da Skira e curato dallo stesso Toniolo, da Alberta De Nicolò Salmazo e da Anna Maria Spiazzi) prevedeva infatti la rimozione delle principali cause di degrado della cappella, il ripristino delle condizioni di rifinitura originarie e il recupero della decorazione pittorica della parete sud, la più ricca di affreschi e di frammenti. In particolare, l’altare della cappella (col suo bel bassorilievo in terracotta firmato dal Pizolo e da Giovanni da Pisa) è stato ricollocato nella posizione originaria, più arretrata rispetto a quella acquisita con i restauri del 1931,  mentre gli affreschi mantegneschi dell’Assunta - salvatosi dal bombardamento -  e della Decapitazione di san Giacomo (parete nord) sono stati rimessi a nuovo. Chi dal 16 settembre andrà  a visitare la cappella vedrà dunque la parete sud interamente ricostruita grazie al riposizionamento delle immagini digitali dei frammenti su pannelli che riproducono in grigio le scene originarie perdute, reintegrando le parti mancanti con colori ad acquarello. Per farsi un’idea di come doveva presentarsi, invece, la decorazione pittorica della parete nord e della volta prima della loro sciagurata distruzione, basterà aprire bene gli occhi: le scene perdute, infatti, saranno proiettate in loco in tutta la loro splendente luminosità. Quella che fece scrivere a Goethe nel suo “Viaggio in Italia” (1786):  “Nella chiesa degli Eremitani ho visto gli affreschi d’un più antico maestro, il Mantegna, e ne sono rimasto sbalordito. Che incisiva, sicura concretezza in quei dipinti! (…) Così l’arte, dopo le epoche barbariche, raggiunge il suo pieno sviluppo”. E lo stesso incanto che il grande scrittore e poeta tedesco seppe cogliere con l’ausilio dei sensi, noi oggi potremo coglierlo grazie a un poco di immaginazione.