Coniglio mannaro

Romanino, barbaro tra tormento e estasi


A Trento una grande mostra sul geniale artista bresciano,   di ELENA PERCIVALDI«Bonissimo pratico e buon disegnatore, come apertamente si vede nelle opere fatte da lui, et in Brescia et intorno a molte miglia».  Questo il giudizio, sintetico ma efficace, che nel Cinquecento  Giorgio Vasari, il celebre biografo dei “più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri”, diede del bresciano  Girolamo Romanino (1485-87 - ca. 1560), artista  tanto fecondo quanto libero dagli schemi pittorici del suo tempo. Un artista audace e a tinte forti, capace di sfidare la dittatura stilistica  di un Raffaello o di un Tiziano rompendo gli equilibri dettati dal labor limae, dall’idealizzazione  e dalla pulizia formale per inserire elementi di profonda  e rivoluzionaria novità. A lui è dedicata la grande mostra - curata da Francesco Frangi ,  Lia Camerlengo, Ezio Chini e Francesca de Gramatica -  che il Castello del Buonconsiglio di Trento,  custode del suo più  celebre ciclo di affreschi, si appresta a inaugurare  il 29 luglio. Un  evento che, aperto  fino al 29 ottobre prossimo, è destinato a portare nuova luce su un genio misconosciuto al grande pubblico, ma che si colloca prepotentemente tra i protagonisti più interessanti, originali e vigorosi del nostro Rinascimento. PRECURSOREDELLA MODERNITÀ «Un pittore più moderno di quello che la cultura italiana del suo tempo gli consentisse di essere»: così lo definì Pier Paolo Pasolini  quando, nel visitare quarant’anni fa a Brescia la prima e finora unica  monografica dedicata al Romanino, ne rimase addirittura folgorato. Il tratto diretto, la cura descrittiva del particolari,  lo schietto  realismo delle figure rappresentate sulle tele,  non potevano non ricordare al regista quei volti e quelle situazioni che egli, acuto ritrattista della borgata, conosceva fin troppo bene.   Altro che Tiziano.Del resto a differenza del bellunese, che  nel corso della sua lunga vita ebbe l’occasione di lavorare per marchesi, sovrani e papi in capitali della cultura e dell’arte come Venezia e Roma, Romanino - che pure in Laguna aveva studiato - preferì restarsene per gran parte della sua esistenza in periferia,  percorrendo in lungo e in largo  le strade sebine e camune e lasciando qui molte testimonianze della sua arte. Una scelta che, lontano dalle richieste dei potenti e dagli obblighi  estetici delle corti, ha il sapore della libertà.  Lo evidenzia bene, del resto, il sottotitolo della mostra trentina, “Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano”, che rispecchia anche nel percorso la  volontà dell’artista di trasgredire, di provocare, di frantumare gli schemi.  Se le prime tavole esposte,  come la Madonna del Louvre e il Narciso di Francoforte, denotano ancora un forte debito nei confronti di  monumenti quali Giorgione e Tiziano, già i ritratti giovanili e i lavori eseguiti negli anni 20 mostrano inquietudini e ispirazioni via via differenti, mutuate  ora dalla grafica tedesca (come per il ciclo pittorico del Duomo di Cremona), ora  dalla pittura lombarda del Bramantino e del Moretto. AL CASTELLODI TRENTOMa se quest’ultimo, per citare Giovanni Testori, rappresentava - per  l’uso  della luce - il «meriggio», il  Romanino era la «penombra». Una penombra che,   nel miracoloso San Matteo, sembra  presagire addirittura certe nuances degne del Caravaggio. La cifra forse più originale del bresciano è comunque l’affresco: lo strato di intonaco forniva in genere la base grezza per il colore, steso a pennellate rapide e leggere, il che ne rendeva quasi proverbiale la velocità di esecuzione. Lo dimostra realizzando per il principe vescovo di Trento Bernardo Clesio il grande ciclo  del Castello del Buonconsiglio: poco più di un anno  - tra il 1530 e il 1532 -   per  ricoprire le immense pareti dell’edificio di pitture a tema profano in un vero e proprio trionfo di decorazione e di  colore. Protagonisti i personaggi mitologici, le allegorie del tempo e delle stagioni, gli eroi della storia romana, ma anche le figure tragiche e violente dell’Antico Testamento, qualcuna dipinta in maniera giudicata un po’ troppo disinvolta  se proprio il buon vescovo dovette, in una lettera, lamentarsi che «non hanno quella venustate et proportione che doveriano».  Romanino se ne torna  allora in provincia, nelle  sue valli, dove  dà il meglio di sé nella chiesa di Santa Maria della Neve a Pisogne -  definita ancora da Testori la «Cappella Sistina dei poveri» -, nelle   Storie bibliche di Daniele  a Sant’Antonio di Breno - miracoloso connubio tra una religiosità intimamente medievale e la spiritualità severa del coevo movimento della  devotio moderna-,  nelle Scene della vita della Vergine di Bienno, vera e propria “sacra rappresentazione” corale esibita, anziché sul sagrato, nell’interno della chiesa. E sono proprio i temi sacri a rappresentare la cifra degli ultimi anni di attività  e di vita del Romanino, trascorsi tra  atmosfere tenebrose e lucenti  bagliori, tra  la cupa e severa Vocazione di S. Pietro di Modena e i manti argentati del Cristo portacroce di Brera o della Natività  di Brescia.   Tra il centinaio di opere in mostra a Trento, gli affreschi del castello - alla cui realizzazione  parteciparono tra gli altri il ferrarese Dosso Dossi e il veneto Marcello Fogolino - si possono ammirare completamente restaurati, insieme alle le grandi ante d’organo provenienti dal Duomo di Brescia e dalla chiesa di S. Giorgio in Braida a Verona.  Arricchiscono l’esposizione  - cui fa il paio la mostra  “L’ultimo  Romanino”  già aperta alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia con  le pale della maturità e della vecchiaia: la Vocazione di Pietro e Andrea   dalla chiesa di San Pietro apostolo di Modena,  la pala di San Domenico  e la  “pala Avogadro” (fino all’8 ottobre)  -quei  disegni  a suo tempo tanto ammirati dal Vasari, messi  a confronto con quelli del Pordenone e del Lotto.  Completa il percorso una rassegna di lavori  di Tiziano, Lotto, Moretto, Savoldo, Callisto Piazza, Altobello Melone e Altdorfer, utile per un confronto con l’arte di questo gigante, che emerge sempre più come l’altro volto - quello umbratile e comodo -  del Rinascimento. CONFRONTIE SCONTRIConsiderando che l’ultima importante biografia sul pittore è del ’94 (firmata da  Alessandro Nova) l’evento trentino consente dunque una rilettura dell’intera produzione di questo  genio incompreso che, grazie alla sapiente mistura tra registri stilistici opposti,  colti e popolari, riuscì a farsi interprete della crisi umanistica e religiosa della prima metà del Cinquecento e a  calare i fatti della storia sacra nell’esperienza quotidiana del popolo. Senza temere di sporcarsi il pennello. Romanino, quindi,  «tristezza, sgrammaticatura, violenza, espressione», per dirla ancora con Testori,   precursore dei  caravaggeschi derelitti tutti crapule e angiporti di un secolo dopo. Romanino cortigiano e plebeo, aulico come un Baldassarre Castiglione e maccheronico  come un Teofilo Folengo, inventore insomma di un nuovo linguaggio pittorico capace di fondere insieme  “latino” e dialetto in una sintesi nuova, tanto sperimentale quanto  espressionista.   Romanino, infine, volto barbaro ma autentico del cambiamento e dell’audacia,  vero artista, sospeso tra tormento ed estasi, ma  proiettato verso la modernità.  7/7/06     volto “scomodo” e moderno del Rinascimento