Coniglio mannaro

AIDA, ALLA SCALA UN KOLOSSAL RIDONDANTE


di Elena PercivaldiMILANO - Magniloquente, faraonica, ridondante fino agli eccessi, ma di grande impatto ed effetto visivo e mediatico: questa l’”Aida” che ha inaugurato la stagione scaligera in questo piovoso e un tantino tristanzuolo Sant’Ambrogio milanese. Un’”Aida” molto più di Franco Zeffirelli, che ne ha firmato regia e scene, che non di Giuseppe Verdi. E questo, ad un compositore che, come il genio di Busseto, ha sempre sostenuto il primato della Musica (con la maiuscola) sull’aspetto meramente visuale del melodramma, di certo non avrà fatto granché piacere. E neanche agli intenditori. Ma tant’è. Erano anni, forse decenni che al Piermarini non si assisteva ad un trionfo kolossal come quello andato in scena giovedì sera. Un trionfo, peraltro, debitamente annunciato visto l’imponente battage pubblicitario e mediatico (speciali in tv, inserti nei quotidiani, pagine e pagine a non finire su tutti i giornali) che ha martellato tutti – melomani e non - senza scampo per giorni e giorni. Il che suggerisce oltretutto che di questo spettacolo, assurto de hoc quasi a evento sacrale, non sia possibile parlare in termini critici, pena il compiere un vero e proprio sacrilegio. Comunque, quasi un quarto d’ora minuto più minuto meno di applausi, ovazioni da stadio per il maestro Riccardo Chailly (chi gli ha gridato, a ragione, «Bentornato!» ha però poca memoria, avendo egli lì diretto il “Rigoletto” meno di un anno fa, lo scorso gennaio) e per Zeffirelli, vero mattatore della serata, non possono che confermare incontestabilmente che, stavolta, la Scala ha davvero fatto centro. Nel cuore del pubblico più che in quello dei veri intenditori e degli “addetti ai lavori”. SOGNO O INCUBO?E vediamola, allora, questa “Aida” formato “Ben Hur”, colori dimensioni e numeri d’altri tempi.  I primi due atti, dall’inizio al trionfo di Radames, sono accorpati (per dar continuità alla fase “eroica” e separarla da quella “intimista”, col precipitare del dramma dal tradimento del guerriero alla morte dei due protagonisti) in quattro quadri con cambi di scena rapidissimi (massimo 40 secondi); intervallo di 35 minuti, terzo atto, altro intervallo di mezz’ora, finale. Le scenografie utilizzano al massimo gli immensi spazi offerti dal teatro dopo la “cura Botta” ricostruendo nei dettagli, con bassorilievi e statue colossali di Amon-Ra, Iside, Ptha, templi egizi e piazze trionfali, come anche gli esterni del lungo Nilo. Nello stupefacente finale, addirittura, ecco i due piani del santuario e della tomba sotterranea compresenti una tantum sul palco. A ciò si aggiungano i 500 costumi, i 350 personaggi sul palco nella scena del trionfo e i due quintali di polvere d’oro usata per colonne e statue, che non potevano non lasciare il segno (anche nel budget, con qualche contestazione da parte di una frangia agguerrita di artisti scaligeri che sull’argomento hanno scritto al sindaco Moratti). Si respira insomma, in un tripudio abbagliante (e a tratti, diciamolo pure, un po’ kitsch, tipo gli uomini-uccello che piombano sugli attoniti astanti) di bianco e oro,  tutta la grandeur della grand-opéra di ambientazione esotica, al punto che più che in un teatro dotato di precisi limiti fisici sembra di essere negli open space dell’Arena di Verona o delle terme di Caracalla. Più che filologico (nonostante i modelli delle decorazioni siano stati presi dal vero), quello di Zeffirelli è un Egitto onirico, immaginario, fatto di sistri d’argento, pesanti costumi e improbabili parrucche, ma certo fortemente evocativo. Tanto bagliore e tanta ricchezza sono però un dejà-vu, non costituendo negli allestimenti di “Aida” novità di sorta. Semmai ci fanno ripensare con un po’ di nostalgia alla messa in scena intimista (da parte peraltro dello stesso Zeffirelli) nel teatro-bomboniera di Busseto, qualche anno fa. Alla Scala, invece, il regista si è fatto un baffo di quanto Verdi aveva in mente quando, sia al Cairo (debutto, 1871) sia a Milano (l’anno dopo),  si raccomandava, temendo il peggio (ah, quella sciagurata moda orientalizzante fin de siècle!), di ridurre tutte le ridondanze al minimo in modo da non annacquare la musica in una sorta di orgia visiva. Qui invece le scene l’hanno sovrastata relegandola a ruolo di mero accompagnamento d’atmosfera, tutt’al più di comparsa: operazione, se ci è concesso definirla così,  contro natura.  E Verdi, vedendosi proiettato su una Figurina Liebig per quanto grandiosa, non l’avrebbe certo presa bene.   CHAILLY FILOLOGICO…Due parole sui balletti della scena di trionfo. Le coreografie di Vladimir Vassiliev rappresentano gli schiavi etiopi come una sorta di “bingo bongo” che si agitano come demoni sulla scena in danze tribali dal sapore animista. Il solito cliché del vincitore-civilizzatore dei barbari, francamente ha un po’ stancato. E se la sacerdotessa Luciana Savignano incanta come al solito con la sua classe immensa, fremiti e brividi investono le signore in sala, Fanny Ardant in testa («Che corpo – ha esclamato – e che sguardo!»), in contemplazione estatica di un Roberto Bolle (con Myrna Kamara) in versione semiadamitica, scultoreo e di una bellezza sconvolgente. Passando alla musica, come detto purtroppo relegata in secondo piano, c’è da sottolineare la direzione magistrale di un Riccardo Chailly  in stato di grazia: attento ai minimi dettagli, nota per nota, filologico nel rispettare i pianissimi prescritti da Verdi in partitura, sfuma le trombe e gli ottoni annullando l’effetto “banda di paese” sempre in agguato ed esalta invece i legni e gli archi facendo produrre all’orchestra un suono quasi fiabesco, al confine tra sogno e realtà. Onirismo che per lui fa rima con esoterismo (i nuclei di tre note ripetuti, il triangolo amoroso, i messaggi “massonici” sugli eccessi del fanatismo religioso e della guerra, oggi peraltro attualissimi), ma mai con esotismo, specie se d’accatto. Gli dà una mano il coro, diretto dal solito grande Bruno Casoni, che si dimostra ancora una volta superbo (e ormai non fa più notizia), capace di pianissimi sussurrati  come dei più roboanti, ma seppure armonici, clamori. In una parola: immenso.  … CANTANTI ONDIVAGHIAssai discontinua invece la prova dei cantanti. Violeta Urmana, al debutto come Aida dopo aver incarnato altrove Amneris (il che implica il passaggio di registro da mezzosoprano a soprano),  dimostra di amare molto la parte. Ma se a tratti incanta (memorabile il do di “O cieli azzurri”, che nei giorni scorsi la preoccupava tanto), altrove (“Numi pietà”) sembra un po’ assente. L’esser lituana l’aiuta a porre l’accento sulla patria lontana, ma senza enfasi retorica. Bravissima l’ungherese Ildiko Komlosi nel ruolo di Amneris: grande mezzosoprano, sa estendere perfettamente la voce anche verso le regioni acute (ed è sensualissima nel “Ah! Vieni, vieni, amor mio”) e si immedesima bene nel ruolo della rivale imperiosa, innamorata e, a mal compiuto, pentita. E Radames? Sforzato, sforzatissimo nel tirar fuori una voce che sembrava a tratti essersi persa per strada, Roberto Alagna canta “Celesta Aida” come se fosse alla “Corrida” di Corrado e sbaglia l’acuto finale sulle parole “si schiude il ciel”. Poco guerriero, poco eroico, poco amante, con quel braccio proteso costantemente in avanti sembra la statua romana di Metello, se non il solito centurione genere peplum. Da dimenticare. Bene il Ramfis di Giorgio Giuseppini (chiamato a sostituire l’indisposto Orlin Anastassov) e il Messaggero di Antonello Ceron, così così il re di Marco Spotti, perplessità infine per l’Amonasro di Carlo Guelfi: buona la presenza scenica, ma indulge un po’ troppo al parlato.  BUONA LA PRIMASottigliezze, queste, per il paludato (quando non scollato e impellicciato) pubblico della “prima” ambrosiana, composto dai soliti vip dello spettacolo e della moda (la Marini, la Versace), calciatori (Figo, Materazzi), ministri e politici (Gianni Letta, lunari, Formigoni, De Corato, De Michelis), big della finanza, attori e attrici, imprenditori (Moratti), diplomatici da ogni dove (Mali, Arabia Saudita, Egitto, Congo, Nigeria, Israele) persino il figlio di Gheddafi, Safi al Islam. Tutti contenti, tranne qualche (minima) eccezione. Se per Romano Prodi – contornato    - quest’“Aida” è stata «la perfezione», per Francesco Saverio Borrelli invece è stata troppo roboante per colpa delle scenografie. Gli ha risposto, velenoso, l’assessore alla cultura Vittorio  Sgarbi: finalmente sono finiti i tempi delle magre imposte dall’austerity monacale e punitiva di Mani pulite,  è ora di tornare alla tradizione italiana. Per Lucio Dalla invece, l’“Aida” va risentita perché «musicalmente non mi convince», visto che «non la conoscevo affatto» (ma ascoltare un disco prima, no?). Il sindaco Letizia Moratti, invece, gongola: «Una festa per Milano internazionale», quella che vuole assicurarsi l’Expo 2015. Anche questo, signori,  è business.nel palco reale dal vicepremier Rutelli e dagli ospiti d’onore: il presidente ellenico Karolos Papoulias, il premier croato Ivo Sanader, il cancelliere tedesco Angela Merkel, tutti entusiasti. Ma chi paga?