Coniglio mannaro

ALAGNA, MILANO NON PERDONA IL DIVISMO


di ELENA PERCIVALDI Milano, Teatro alla Scala. È una domenica sera d’inizio dicembre, sono da poco passate le 20, e al Piermarini danno la seconda rappresentazione (per molti la vera “prima”, orfana com’è dei nani e delle ballerine che troneggiano all’ouverture) di “Aida”, il capolavoro di Verdi che con esiti alterni ha aperto a Sant’Ambrogio la stagione. In scena entra Radames e attacca il suo celebre “cavallo di battaglia”: «Celeste Aida, forma divina». Ha appena finito di offrire alla sua amata il «bel cielo» natio, le ha giusto declamato che vorrebbe ergerle «un trono vicino al sol», che si scatena, improvviso, il putiferio. Coro di fischi. L’eroe egizio, perso d’un tratto il piglio guerriero, si guarda intorno smarrito. Dieci secondi interminabili, durante i quali il condottiero dell’«esercito di prodi» si vede d’un tratto solo, inerme, saettato di «buu» che piovono, anziché dalle folte schiere degli etiopi, da nemici altrettanto ben nascosti quanto assai più insidiosi: i loggionisti del teatro. È un attimo: il comandante in peplo alza il braccio, chiude il pugno, dietrofront marziale, e via verso l’uscita. Veloce come la luce. Altro che sogno che si avvera. È un incubo. Una ritirata in piena regola. Radames finisce davvero disonorato, e senza nemmeno discolparsi.Quel che è accaduto l’altro ieri sera alla Scala, invece che creare sconcerto, è una vera nemesi. Protagonista dell’infelice vicenda è Roberto Alagna, giovin tenore (43 anni) nato nella banlieu parigina da genitori italiani che al nobil idioma di Dante preferisce la musicale lingua di Voltaire. La sua colpa? Aver cantato male. Capita. Anche ai migliori. Ma ha un’aggravante. Già il 7 dicembre, ricevuto qualche buu e qualche fischio, aveva esclamato stizzito che «questo non è un teatro ma un’arena, non voglio cantarci mai più», in ciò mostrando di non essere certo un gladiatore ma semmai un piccolo divo capriccioso. La critica, quasi unanime, l’ha stroncato. Anche noi sottolineammo quanto Alagna fosse fuori posto come Radames. Sforzato, sforzatissimo - avevamo scritto - nel tirar fuori una voce che sembrava a tratti persa per strada; «poco guerriero, poco eroico, poco amante, con quel braccio proteso costantemente in avanti sembra la statua romana di Metello, se non il solito centurione genere peplum». A proposito di “Celeste Aida”, poi, commentammo che la cantò come se fosse alla “Corrida” di Corrado. E quell’acuto finale sulle parole «si schiude il ciel», prima che calasse il sipario su una prova da dimenticare, lo liquidammo come errore. In realtà fummo buoni a parlare di sbaglio, perché quel bruttissimo falsetto inserito al posto non diciamo della ben più difficile e auspicabile mezzavoce, ma almeno di un suono “misto” quale il classico falsettone, fu una vera e propria caduta di gusto. Ma se errare è umano, perseverare è diabolico. E domenica sera, il buon Alagna ha fatto di peggio. Ha mancato di rispetto alla Scala e a tutto ciò che di buono rappresenta nel mondo. Senza curarsi dello spettacolo, senza pensare agli altri cantanti, al direttore, al coro, all’orchestra, a tutto il resto ha preso e se n’è andato. Sic et simpliciter. Al suo posto, tra assordanti «Vergogna!» e «Questa è la Scala!», è stato letteralmente catapultato in scena il povero Antonello Palombi, che faceva parte del secondo cast e si stava godendo l’opera comodamente vestito in jeans e camicetta nera. Neanche il tempo di cambiarsi d’abito. Ma il tenore umbro ha portato a termine brillantemente lo spettacolo più assurdo (mai visto, in mezzo ai trionfi di bianco e oro di un kolossal d’altri tempi, un Radames vestito Prada!) della sua carriera. Finiti i primi due atti, il sovrintendente Stéphane Lissner ha dovuto chiedere scusa al pubblico inferocito e ha ringraziato Palombi per essere andato sul palco senza riscaldamento e senza preavviso. Il tutto mentre Riccardo Chailly, sconcertato, scuoteva la testa: «Nessuno poteva aspettarsi - commentava sommesso - una reazione del genere».Un comportamento inaudito, dunque, quello di Alagna, «un brutto gesto nei confronti del pubblico» (dice il vice presidente del cda Bruno Ermolli), che ha spinto Lissner, ieri, a prendere una posizione ufficiale: «Ciò che è successo è molto increscioso, poiché vi è stata una evidente mancanza di rispetto nei confronti del pubblico e del teatro». «Sono venuto a conoscenza della richiesta di Roberto Alagna di rientrare alla Scala per le prossime recite. - ha aggiunto - Purtroppo il suo comportamento, domenica sera, ha provocato uno strappo definitivo fra l’artista e il pubblico, che la Scala non ha alcuna possibilità di ricucire». Quasi certamente, ora per il tenore - che medita di far ritirare dalle scene scaligere anche la moglie Angela Georghiu che a luglio dovrebbe interpretare “Traviata” (altro caratterino: durante le prove di “Pagliacci”, a Ravenna, lasciò di sasso un attonito Muti reo di averle fatto un appunto) - scatterà una penale.Caro Alagna, siamo d’accordo: le contestazioni non fanno piacere. Ma vorremmo ricordarle una cosa. Non la si fa franca se si viene nel più importante teatro lirico del mondo, frequentato sempre da un pubblico storicamente tra i più appassionati e competenti del mondo a dichiarare, dopo qualche buu, che «se il pubblico mi fischia vuol dire che non mi merita». Suvvia, signore, non la prenda così male. In fondo, è in buona compagnia. Lo sa, vero, che nella loro lunga e brillante carriera anche Pavarotti, la Ricciarelli, persino la Callas sono stati fischiati? Lo sa che a Milano, sì proprio alla Scala, anche il grande Placido Domingo, facendo “Otello”, fu contestato? Lui però uscì di scena, ma poi tornò a cantare. Ma erano altri tempi. Altra classe. Altri divi. Lei dice che ha cantato in tutto il globo con successo, ma di fronte al pubblico dell’altra sera le sembrava di essere fuori dal mondo. Che il pubblico vero, quello con il fuoco e il sangue, quello non c’era. Si vede che la sta aspettando a Sanremo, dove lei ha già annunciato che parteciperà in pompa magna. Lì, è certo, avrà un grande trionfo anche se l’intonazione non sarà al top. In fondo, basta un bel do di petto. Purché sia forte, però. Si sa: lì sono di bocca buona. Milano, invece, no. Milano, caro Alagna, non perdona. E di un certo divismo non sa che farsene. Sa cosa diceva il grande Arturo Toscanini? «La prima qualità di un direttore? L’umiltà, l’umiltà». Lo stesso vale avrebbe detto per un cantante. Magari, ci dorma sopra. E forse, quando la rivedremo sotto la Madonnina, ritornerà, come Radames, vincitore.