Coniglio mannaro

Post N° 154


Deludente la prova dei cantanti nell'allestimento dejà-vu del cubo di VickAlla Scala un Macbeth che non strega e non incantadi ELENA PERCIVALDI
Un Macbeth in cui succede un po’ di tutto  (fischi compresi) e che alla fine non esalta, non scalda, e soprattutto non convince. L’opera verdiana,  in scena in questi giorni alla Scala, ripropone per mano di Lorenza Cantini la “vecchia” (1997) regia di  Graham Vick dell’allestimento, divenuto ormai famoso, del “cubo”, con scene di Maria Bjornson: una gigantesca costruzione sghemba, kubrickiana,  che campeggia in mezzo al palco per tutti i quattro atti del melodramma, e che ruota cambiando funzione e colore alla bisogna. Incombente, tetra, claustrofobica. Esattamente come il dramma shakespeariano, una sorta di incubo allucinogeno dove i protagonisti - Lady e Macbeth - vivono angosciati dalla smania  di potere e, grondando sangue, finiscono schiacciati sotto il peso della loro stessa  ambizione. Ma se la regia e le scene - un po’ meno forse i costumi, troppo variopinti e “di plastica” - riescono nel complesso a sviscerare i tanti lati ambigui del dramma, la malvagità irrecuperabile (o la debolezza, che forse è ancora peggio) dei protagonisti, l’assenza totale di luce e di speranza, i cantanti in scena risultano ora monolitici, ora alterni, ora decisamente fuori ruolo. Comunque nel complesso poco efficaci. Andiamo con ordine. Ingiudicabile la prova di Leo Nucci, che terminato il primo atto ha dato forfait per indisposizione. Che qualcosa non andava lo si era comunque capito dall’emissione stentorea e dal fiato corto, tanto che a tratti quasi non si sentiva. Lo ha sostituito Ivan Inverardi che ha offerto una prova dignitosa ma sostanzialmente da rivedere. Il suo Macbeth diventa una sorta di fenomeno urlatore, perennemente a tutto volume, grossolano e privo dei tormenti, dei chiaroscuri, dei  ripensamenti, dei terrori soffusi che invece il genio inglese (e Verdi) gli avevano donato.
A Violeta Urmana, che pure ammiriamo moltissimo, chiediamo sinceramente per quali arcani motivi abbia deciso di trasformarsi da quel grande mezzosoprano che era in un soprano incompiuto, che a tratti davvero rattrista. Glielo chiediamo perché rileviamo l’acceso  contrasto tra il suo registro centrale e i toni gravi, così pieni e morbidi, e lo stridore di quegli acuti presi (peraltro male) di tecnica ma senza cuore. Strozzati, addirittura urlati. Come l’inqualificabile re bemolle del finale della scena del sonnambulismo, che addirittura è parso una stecca.  E a proposito di sonnambulismo, molto avrebbe avuto da dire Verdi sulla scena dello strofinamento della macchia di sangue sulla mano, che doveva essere oniricamente appena accennata. Qui Lady sembrava una lavandaia. Né in generale, la Urmana ha infuso  alcunché della diabolica perversità che caratterizzava il personaggio di Shakespeare, risultando anzi  paciosa fin quasi al grottesco. Grandioso il Banco di Ildar Abdrazakov, perfetto in ogni dettaglio, buono anche se non entusiasmante il Macduff di  Walter Fraccaro (belli gli acuti, ma occhio al fraseggio!), senza infamia né lode gli altri. La direzione di Kazushi Ono ci è parsa indecifrabile e non ha impressionato né per polso né per brillantezza. Scipiti i pianissimi, per contro troppo volume, quasi assordante,  nei concertati.  E se splendido e commovente è stato il coro, languido e malinconico,  dei profughi scozzesi, la scena della battaglia è risuonata oltremodo caotica e confusa, con  gli ottoni decisamente fuori misura. In questa confusione di toni,  a tratti persino l’orchestra si è smarrita. Le coreografie del balletto delle streghe, firmate da  Ron Howell, sono risultate stucchevoli e nel complesso deludenti. D’accordo che le streghe sono da sempre il simbolo di una femminilità demonizzata, negata, perversa. Ok i richiami all’antica tradizione delle baccanti o del sabba. Ma quei continui movimenti a scatti, nevrotici, persino psicotici  rievocano,  più che  sabba  o  baccanali, il laboratorio del dottor Frankenstein che elettrosciocca la sua creatura, una sala rianimazione coi suoi  defibrillatori oppure un rave party di scioperati sotto l’effetto di stupefacenti. Che peccato. Il coro diretto da Bruno Casoni, al solito, si conferma la perla del Teatro.da http://www.classicaonline.com/inviato/appuntamenti/07-04-08.html