Como “abbraccia” Vienna e le inquietudini del ’900A Villa Olmo le opere di Klimt, Schiele e Kokoschka raccontano la fine di un’epocadi ELENA PERCIVALDI
Sono due corpi nudi e glabri, intrecciati un amplesso forte, di quelli che tolgono il fiato. Lei pelle chiara, lui olivastro, sotto il lenzuolo candido e stropicciato. È il 1917, l’Austria sta soccombendo sotto le granate e i colpi di cannone della Grande Guerra. Egon Schiele, testimone dei tempi, ritrae in questo Abbraccio il sentimento morboso e disperato di due amanti che non sanno, non possono sapere, se sopravviveranno al disastro e se potranno avere ancora qualcosa da raccontare. È questo il quadro simbolo della mostra in corso a Como fino al 20 luglio (catalogo Silvana Editoriale), dove le stanze di Villa Olmo accolgono una nutrita selezione di capolavori provenienti dal Museo Belvedere di Vienna. Il titolo è proprio L’abbraccio di Vienna, e sta ad indicare il ruolo che la capitale del vecchio impero asburgico ha rivestito nella genesi dell’arte del Novecento, in particolare agli inizi del secolo, quando divenne protagonista con la Secessione e il primo Espressionismo. I nomi sono quelli, eclatanti e terribili, di Egon Schiele, di Gustav Klimt e di Oskar Kokoschka. Ma la rassegna non inizia né finisce con loro. Curata da Sergio Gaddi e Franz Smola, la mostra raccoglie un’ottantina di opere che dal Barocco arrivano appunto all’Espressionismo, passando per la Belle Èpoque e quel tanto vituperato Biedermeier, tutto oleografico e buoni sentimenti, profumato di interno borghese, di cannella e torta di mele, che qualcuno pure non senza ragione ha tentato di rivalutare come parte integrante della cultura austriaca. La parte che preferiamo, comunque, resta quella dello Jugendstil. Con le sue inquietudini, i suoi terrori, le sue visioni morbose amiamo le turbe psicanalitiche di Schiele che, morto giovanissimo, ha saputo trasmetterci lo smarrimento e l’angoscia di una generazione che ha visto violato il rassicurante e caldo grembo della grande madre Austria. E sentiamo nelle sue opere la voce di Joseph Roth e le pagine dolenti e disperate della Cripta dei Cappuccini. Così come ci piacciono la veemenza e i colori forti e icastici di Kokoschka, e di Klimt apprezziamo non solo gli svolazzi decò e le citazioni dell’antica arte bizantina, ma anche i ritratti e i paesaggi, di gran lunga meno conosciuti. Questi artisti sono gli interpreti della fine fragorosa di un’epoca e della fine della vecchia Europa. E il canto del cigno dell’impero alla fine della decadenza è un canto che continua a commuovere.