Coniglio mannaro

Post N° 186


Intervista a Dmitri Tscherniakov e Daniel Barenboim, regista e bacchetta dell’opera di Prokof’ev  in scena in questi giorni alla Scala di Milano«Il nostro Giocatore? Fresco, nobile e fatale» di Elena PercivaldiUn’opera seria, difficile. Ma anche ironica. E soprattutto, per i valori e i messaggi che contiene, assolutamente universale. Il Giocatore (Igrok’) è stato rappresentato alla Scala solo una volta,  nel 1996, e la produzione non era autoctona bensì arrivava da Berlino.  Questa, quindi, per quest’opera travagliata che fu scritta nel 1915-16, debuttò senza successo nel ’29 e fu revisionata del tutto dieci anni dopo, è la vera “prima volta”.  Abbiamo incontrato prima della prima il regista, il giovane russo Dmitri Tscherniakov (che firma anche scene e costumi), e Daniel Barenboim, che dirigerà dal podio.
«Questa  - spiega Tscherniakov – è un’opera che nasce da due anime antitetiche, del tutto incompatibili: nervosa e isterica quella di Dostoevskij, solare e allegra quella di Prokof’ev.  E’ quasi incredibile come due spiriti cos’ contrastanti si siano potuti trovare. Prokof’ev ha scarnificato l’Igrok’ di Dostoevskij fino a farne restare unicamente la trama, e il resto l’ha riempito di una grande energia».Come ha pensato di trasmettere queste sensazioni al pubblico?«Ho voluto puntare sul gruppo dei protagonisti ed esaminarne l’evoluzione: arrivano tutti insieme, condividono un angusto spazio e alla fine ciascuno prende la sua strada dopo aver subìto una sorta di catastrofe. Il messaggio da trasmettere è che la vita è un grande labirinto da cui nessuno può uscire, e che quindi nessuno può dirigere il proprio destino».Catastrofi private e pubbliche crisi, che dal podio dominerà col consueto polso sicuro Daniel Barenboim. Il grande maestro spiega così la lettura che ha dato dell’opera.«Il Giocatore andato in scena nel 1929 è molto diverso da quello di dieci anni dopo. Tra la prima stesura, che non piacque, e la seconda ci sono le esperienze di altri lavori importanti come L’Angelo di Fuoco: e si vede per come cambia la strumentazione. Direi che Prokof’ev tratti l’orchestra come un “paesaggio con persone” e le conferisce colori e timbri molto suggestivi». Il rapporto tra Barenboim e Prokof’ev dura da una vita. «Quando avevo 14 anni – spiega Barenboim  – ho debuttato negli Stati Uniti con le sue sonate per pianoforte e con il primo concerto per piano e orchestra. Mio padre era convinto che fosse importante per un giovane mantenere il contatto con la musica contemporanea. Nel 1955 a Parigi ho suonato per la seconda sonata di Prokof’ev ed era la prima volta che veniva eseguita fuori dalla Russia. Oltre a Prokof’ev, ho però lavorato molto su Bartok  e sui russi in genere, a cominciare da Stravinskij e da tutta la scuola pianistica che deriva da Rachmaninov. La mia ossessione era quella di modernizzare Rach  depurandolo dei suoi aspetti romantici per evidenziare il tocco “percussionista” del suo pianoforte. A diciott’anni ne avevo abbastanza».L’esperienza di Barenboim  con Prokof’ev continua poi con le sinfonie (« ma non mi hanno entusiasmato»), infine approda al teatro: «Qui – racconta il maestro – ho trovato qualcosa di molto interessante da approfondire: il rapporto drammatico tra l’opera lirica del compositore e le sue sonate. L’orchestrazione del Giocatore è eccezionale, caratterizzata com’è da uno sviluppo che definirei addirittura mozartiano: la musica non è mai unidimensionale, cioè non esprime graniticamente un solo carattere – che sia allegria oppure tristezza- ma, come nella vita, tutto si interseca». In una confusione che si esplica, nel caso del Giocatore, nel rapporto musica-testo: «Il problema di Prokof’ev era raccontare la storia avendo come base di partenza un testo dello spessore di quello di Dostoevskij. Di solito, in casi simili i registi  risolvono confezionando uno spettacolo “basale”, senza troppi interventi, oppure viceversa  innovando con la loro personalità. Il rischio, nel primo caso, è quello di dar vita ad uno spettacolo  piatto, nel secondo, se manca il necessario rigore, di mettere in scena le proprie impressioni personali e non la storia. In entrambi, di snaturare il testo. Ecco perché Wagner preferì sempre scrivere da sé musica e libretto».Pericolo, questa volta,  evitato…«Con Tscherniakov ho portato in scena il Boris Godunov a Berlino e sia allora che oggi egli ha raccontato la storia in modo chiaro evitando accuratamente ogni sub testo. E in questo Giocatore, musica e scene sono compenetrate l’una nelle altre al punto che o piace l’intero spettacolo, oppure non piace nulla».Che valori, che riflessioni può portare questo lavoro di Prokof’ev al pubblico italiano?
«Innanzitutto è la risposta di un ventiquattrenne a chi, come Djagilev, sosteneva in quegli anni che l’opera lirica fosse finita.  Anche se fosse solo per questo motivo, varrebbe la pena di metterla in scena. Ma c’è di più. L’Orchestra della Scala è italiana, certo, ma ha una enorme capacità di assimilazione dei più diversi stili. Insieme, io e loro abbiamo trovato nel Giocatore un mondo speciale. Loro hanno portato nell’opera l’italianità del canto, suonano Prokof’ev in maniera ironica e brillante, virtuosa. Intendendo con questo termine la capacità di creare nell’ascoltatore l’impressione di poter andare oltre ciò che credeva possibile».C’è molto, però, dell’animo russo in quest’opera… a cominciare dal fatalismo. Che per Tscherniakov  è del tutto esistenziale: «Ho cercato – spiega – di raccontare l’anima della storia. Una storia bloccata, claustrofobica, che si svolge in una sala comune e in quattro anguste stanze. Nessuno dei personaggi comprende l’altro, vi è tra di loro una incomunicabilità totale, ciascuno crea di sé un’immagine che non esiste e riconosce negli altri quello che non c’è. Il vero titolo del romanzo di Dostoevskij doveva essere Roulettenburg, non Igrok’, che invece fu imposto dall’editore. E il titolo originario nasconde la vera anima dell’opera. Il gioco infatti è parte integrante dell’identità russa. Il nostro animo è sempre in attesa del compiersi del fato, e siamo convinti che dietro l’angolo ci sia sempre una vincita. L’ansia del gioco non nasconde certezze, ma solo la fede che Dio, prima o poi, bacerà anche te. E la roulette è il momento in cui il caso domina completamente l’uomo. Quindi nel Giocatore domina la dimensione fatalista, l’impossibilità dell’uomo di dirigere il proprio destino.  Che è dunque consegnato al fato, vero e unico trionfatore».PUBBLICATO SU CLASSICAONLINE.COM:http://www.classicaonline.com/interviste/27-06-08.html