Coniglio mannaro

Post N° 191


A cinque anni dalla morte del grande compositore ligure, intervista ad Andrea Lucchesini che ne eseguì in prima mondiale la Sonata per pianoforte «Il modo migliore per ricordare Berio? Suonarlo»di Elena Percivaldi  
Beethoven, Chopin e Schubert sono i suoi indiscussi cavalli di battaglia. Ma Andrea Lucchesini è un pianista che sa andare oltre il repertorio classico affrontando con piglio e sicurezza anche gli autori contemporanei. Per lui, classe 1965, non esistono steccati, e lo dimostra la grande dimestichezza con le opere di Luciano Berio, di cui fu amico e collaboratore: basti pensare che nel 2001, a Zurigo, eseguì la prima mondiale della Sonata per pianoforte del grande maestro di Imperia, alla cui composizione peraltro aveva partecipato in prima persona verificando la fattibilità dei singoli brani via via che nascevano. Ma la sua duttilità, del resto, è nota e i suoi interessi vanno ben oltre la mera esecuzione, abbracciando anche l’attività didattica, a livello non solo istituzionale – è vicedirettore della Scuola di Musica di Fiesole - ma anche, per così dire, “privato”: sostenitore del gioco di squadra contro l’imperversare dell’individualismo odierno, ha insegnato ai suoi figli il piacere di fare musica insieme e di condividere, così, le emozioni che questo “gioco” può dare. Lo abbiamo intervistato appena conclusa la tournèe primaverile che lo ha portato in tutta Italia, da Palermo a Ravenna, da Imola a Torino.Maestro Lucchesini, lei è interprete di riferimento per molto repertorio romantico, ma anche per il contemporaneo. In quale dei due, però, si sente maggiormente a suo agio?«Non saprei, in quanto si tratta di due situazioni emotive molto differenti. La musica contemporanea richiede un atteggiamento di maggior razionalità, poiché è spesso connotata da una più ampia quantità di segni, che indicano con una certa esattezza la volontà dell’autore, lasciando all’interprete un minor margine di libertà. Il repertorio romantico invece, più scarno nella notazione,  suggerisce un’effusione dello spirito più immediata e libera, pur essendo maggiormente vincolato alla storia ed alla tradizione degli interpreti che ci hanno preceduto. Posso dire di sentirmi a mio agio in tutto ciò di cui riesco ad appropriarmi più profondamente, in modo da trovare in quel linguaggio un’affinità spirituale che mi permetta la massima sincerità espressiva».Secondo lei, l'attenzione riservata alla musica di oggi è sufficiente oppure occorre seriamente darsi da fare?«Credo che sia opportuno incoraggiare la composizione e incrementare le occasioni di ascolto della nuova musica, così da evitare che “passi” soltanto ciò che è talmente elementare da essere immediatamente fruibile ed altrettanto rapidamente sostituito da altro. In questo senso la mediazione degli interpreti è fondamentale, poiché alle loro scelte spesso corrisponde l’orientamento degli ascoltatori. Parimenti il sostegno delle istituzioni, quando accompagnato dalla reale capacità di saper distinguere ciò che di valido viene presentato, costituisce un imprescindibile appoggio al faticoso percorso della composizione».Come giudica lo stato attuale di salute della musica? Può fare un paragone tra la situazione italiana e ciò che avviene all'estero?«Il quadro clinico è abbastanza serio, ma non dispererei… Stiamo pagando il prezzo di un’educazione musicale carente e non diffusa, e anche se non mancano progetti pieni di fantasia e creatività, raramente ottengono un reale sostegno pubblico. La musica è troppo spesso ancora considerata da noi un qualcosa in più, una specie di optional culturale destinato ad una elite sempre più ristretta, mentre all’estero, sia nei paesi europei di antica tradizione come la Germania, ma anche – sorprendentemente – in aree disagiate come i paesi dell’America latina, si è capito da un pezzo che  un’educazione musicale di base diffusa rappresenta un valore assoluto di civiltà. Rispetto a qualche tempo fa, tuttavia, mi sembra che anche in Italia si stia raggiungendo una nuova consapevolezza in questo senso e credo che con pazienza e tenacia la situazione possa essere migliorata».Per restare in tema: quest'anno ricorre il lustro dalla morte di Berio, ma nessuno finora sembra essersene accorto. Qual è stato - qual è - il suo rapporto con questo grande compositore, lei che ne ha eseguito in prima mondiale la Sonata per pianoforte e ha partecipato alla sua creazione?«Si è trattato per me di un incontro straordinario, avvenuto all’inizio degli anni novanta e concretizzatosi presto in una serie di collaborazioni che ricordo con orgoglio e nostalgia. La gestazione della Sonata ha rappresentato uno dei momenti più intensi nella mia esperienza di interprete, poiché mai mi era capitato di assistere alla nascita di un lavoro – che già sapevo avrei dovuto eseguire per primo – così ‘in diretta’. Berio era un uomo di poche parole, ma capace di grandi gesti di amicizia e soprattutto di far sentire il suo sostegno e la sua fiducia in un giovane musicista sostanzialmente inesperto – come ero io allora - nel repertorio contemporaneo. Ha incoraggiato la mia curiosità, spingendomi  a tentare strade nuove con quel suo caratteristico gusto per la provocazione intellettuale. Credo che il modo più giusto di rendere omaggio alla sua memoria consista nel cercare ogni occasione per inserire la sua musica nei programmi dei concerti, magari accostandola ad opere lontane per epoca e scrittura, come egli stesso progettava proprio insieme a me poco prima di lasciarci».A tal proposito, cosa pensa del trattamento che il nostro Paese riserva ai musicisti e alla musica in generale?«Si tratta di una strana situazione: se da un lato la sostanziale diffusa incompetenza in campo musicale tende a sottrarre alla musica ed ai musicisti una qualunque funzione, in realtà si percepisce spesso un atteggiamento di interessata curiosità verso chi dedica la propria esistenza a quest’arte. Capita molto spesso che anche persone colte premettano a qualunque considerazione sulla musica la confessione della propria estrema ignoranza in merito; tuttavia vorrebbero saperne di più, magari amerebbero ascoltare ma non sanno da dove cominciare… insomma di nuovo il punto di partenza resta quello dell’educazione alla musica, senza la quale i musicisti rischiano di divenire nel nostro Paese una specie in via d’estinzione, cui destinare magari una riserva protetta, cioè l’esatto contrario di ciò che sarebbe giusto».   Il suo impegno in campo didattico è noto. Può raccontarci i suoi progetti per la Scuola di Fiesole? Che speranza può avere un giovane musicista, oggi, in Italia?«E’ una domanda a cui è molto difficile rispondere. Credo che il futuro di un musicista di oggi, nel nostro Paese, si possa costruire solo attraverso una preparazione il più possibile ampia, unita ad una grande duttilità ed alla capacità di imparare velocemente. In un mondo globalizzato come quello attuale c’è spazio per chi si mette in gioco, non teme gli spostamenti e cerca di far tesoro di qualunque esperienza. Spesso invece nel nostro sistema educativo si è privilegiata la ricerca e la coltivazione del grande talento individuale, cui far percorrere unicamente la strada di un’affermazione solistica, con le inevitabili delusioni per chi non riesce a concretizzare le proprie aspirazioni in questo senso. Molto più costruttivo mi pare invece  far sì che l’identità di un musicista passi anche attraverso l’orgoglio di appartenere ad un quartetto,  ad un trio, oppure ad un’orchestra. Fiesole in questo senso è abbastanza lungimirante: i ragazzi studiano individualmente, ma suonano anche nei gruppi da camera e partecipano all’orchestra fin da piccoli, quindi sono abituati a leggere molta musica e ad ascoltare gli altri. Il progetto didattico di Piero Farulli, pensato più di trent’anni fa, mostra ancora oggi intatta la propria carica innovativa; proseguire su questa strada è il primo obiettivo – che si scontra comunque con mille difficoltà pratiche ed economiche. Il secondo obiettivo è invece quello di estendere il progetto ampliandone la portata, in modo da permettere a molti più giovani di compiere un percorso di questo tipo».A questo punto la domanda "politica" è d’obbligo: cosa si aspetta dal nuovo governo in materia di musica e spettacoli?«Non so cosa si possa fare in un momento economicamente così difficile e congiunturale… Certamente ci sarebbe bisogno di un maggiore sostegno non soltanto a questo o quell’ente, ma più in generale ad una politica culturale che parta nuovamente dall’educazione quanto più possibile diffusa sul territorio, in modo da far sì che l’ascolto o la pratica di un certo genere di musica non sia affidato unicamente alle leggi di mercato, ma alla libertà della coscienza critica di ciascuno».A proposito di mercato, da pianista come giudica il fenomeno Allevi e le sue vendite da record? E’ solo un successo passeggero costruito a tavolino dalle major discografiche, che hanno costruito un personaggio fatto apposta per far presa sui giovani, oppure si tratta di vero talento?«Non giudico, poiché ritengo che ciascuno sia libero di esprimersi come sente e che ci sia spazio per tutti. Mi auguro tuttavia che non abbia presa sui ragazzi il messaggio che purtroppo viene rilanciato  ad ogni intervista, e cioè che si possa fare bene la musica senza lavorare duramente ogni giorno: non è così».Quali sono i suoi progetti nell'immediato futuro?«La partecipazione ad alcuni festival estivi e poi, finalmente, un po’ di vacanza con la mia famiglia».Pubblicato su CLASSICAONLINE.COM:http://www.classicaonline.com/interviste/03-07-08.html