Coniglio mannaro

Post N° 195


“An Inconvenient Truth” di Battistelli, tratta dall’omonimo testo di Al Gore, andrà in scena nel 2011 per i 150 anni dall’unificazione. Intervista al compositore e ai protagonisti di un progetto “globale” LA SCALA CELEBRA L'UNITA' D'ITALIA. PENSANDO ALL'APOCALISSE di Elena Percivaldi   
Teatro alla Scala, anno 2011. L’inno di Mameli, poi si alza il sipario. Ed ecco l’omaggio del Piermarini –dove risuonarono le melodie verdiane che diedero la carica al nostro Risorgimento- al 150° anniversario dell’unità d’Italia vede in scena non già Garibaldi, non già il conte di Cavour, non già le battaglie contro l’invasore austroungarico e i moti per l’indipendenza, ma la voce di Al Gore rivista e corretta, che declama  An Inconvenient Truth, “Una scomoda verità”. Cioè la minaccia dell’apocalisse ambientale, ogni giorno sempre più a portata di mano, che ha fruttato nel 2007 all’ex vicepresidente degli Stati Uniti il Nobel per la pace. A musicare il testo, adattato come libretto dal poeta  J.D. McClatchy, sarà Giorgio Battistelli, classe ’53, uno dei più interessanti compositori contemporanei della sua generazione, pluripremiato e decorato (è Chevalier de l’Ordre des Artes et des Lettres), composer in residence dell’opera di Düsseldorf. La regia dello spettacolo, che si annuncia come un evento di portata mondiale, William Friedkin, universalmente noto per aver diretto, nel 1973, L’Esorcista.  Li abbiamo incontrati alla presentazione ufficiale del progetto, sicuramente inconsueto, ma che non mancherà di suscitare grandi attese. A spiegare com’è nata l’idea, è il sovrintendente Stéphane Lissner: «Due anni fa l’allora ministro Rutelli  mi chiese di pensare ad un progetto, da realizzare alla Scala, per il 150° anniversario dell’unità d’Italia, che cade nel 2011. Nel maggio del 2006 ho incontrato Giorgio Battistelli a Roma e gli ho parlato di questa idea. Quando ci siamo rivisti, lui mi ha proposto di comporre per l’occasione un’opera basata sul libro “Una scomoda verità” di Al Gore, vincitore del Nobel per la pace. Mi aspettavo una proposta, come dire?, più in linea con la tradizione. Ma due ore dopo, ero convinto che questa fosse la scelta giusta». Un testo e un film (due gli Oscar vinti, miglior film e miglior canzone) di denuncia, quello di Al Gore, che passa in rassegna le previsioni degli scienziati a proposito dei cambiamenti climatici indotte dalle attuali politiche dei governi, tese allo sviluppo e allo sfruttamento selvaggio energetico del pianeta, con conseguenze già sotto gli occhi di tutti: innalzamento dei livelli di CO2 nell’atmosfera,  aumento dei gas serra, surriscaldamento del pianeta, scioglimento progressivo dei ghiacciai, inondazioni e uragani. Una catastrofe annunciata, insomma, e inevitabile se non si interviene subito non solo con una vasta cooperazione a livello globale, ma anche con una serie di comportamenti “singoli”, piccole cose che ciascuno di noi può fare per diminuire il consumo di energia e ridurre le immissioni inquinanti.  Maestro Battistelli, perché per celebrare l’unità d’Italia ha scelto un testo come questo, che apparentemente con noi non ha alcun legame storico, e non qualche eroe nazionale? «Perché non volevo lavorare su tematiche che considero ormai logorate dal tempo. Il tema dell’unità d’Italia affrontato in maniera tradizionale, con il solito soggetto mitologico-politico al centro della storia, è secondo me molto riduttivo rispetto alla situazione attuale del Paese, quindi ho preferito proiettare l’Italia nel mondo globale, con tutte le problematiche che questo comporta. Una di queste è l’ambiente, l’inquinamento che ci sta soffocando e se che non si interviene avrà sicuramente risvolti tragici. Il soggetto di Al Gore, quindi, mi è sembrato fare al caso mio. E per questo l’ho proposto». Niente Garibaldi, insomma. Ma neanche richiami alla cronaca quotidiana, ai problemi dell’Italia di oggi. Come l’immigrazione, oppure i rifiuti a Napoli, che pure sono sulle pagine dei giornali di tutto il mondo… «No. Volevo un tema che sganciasse l’Italia dalla politica del momento. Non volevo i soliti scontri ideologici, fascisti contro comunisti, ma un’opera che avesse qualcosa da dire a Sydney come a Bombay, a Singapore come a New York. Un’opera, quindi, che affrontasse un tema universale». Uno dei problemi principali che si pongono quando si vuol ricavare un testo drammaturgico da un saggio  è come renderlo “scenico”. Come, cioè, tradurre in spettacolo una trattazione teorica che di spettacolare non ha assolutamente nulla. Come lo avete risolto? «Quello tra saggistica e letteratura è un rapporto che mi interessa molto. Guardandomi attorno, mi sono accorto che oggi il saggio stimola l’immaginario collettivo assai più della poesia e della prosa. Come se la letteratura fosse più “lenta” nell’affrontare questioni di attualità: viene percepita come più lontana. E’ una riflessione che faccio anche in musica, visto che la mia ambizione è quella di cercare di interpretare il mondo tramite la mia scrittura. I compositori di oggi si dividono in due fazioni: chi crede nella narrazione e chi no. Io appartengo  alla prima categoria. Ma quello che vorrei lanciare non è un messaggio di protesta, ma una visione del possibile: l’apocalisse della chimica». 
Come tradurrà in musica queste sensazioni di tragicità annunciata? «Vorrei sperimentare una nuova tecnologia. Ho previsto la presenza dell’orchestra, dei solisti e del coro e ciascuno di essi avrà un ruolo preciso. In particolare, il coro rappresenterà la massa, la globalità del mondo, in contrapposizione ai solisti che invece saranno gli individui presi singolarmente. Musicalmente, ci sarà una grande presenza dell’elettronica. Ho previsto di collocare alcuni ricettori acustici in vari luoghi di Milano che registreranno i “rumori” della città, suoni che saranno poi rielaborati e forniranno, in certi luoghi dell’opera, il “paesaggio sonoro”, il timbro dell’orchestra. Farò inoltre posizionare anche alcune telecamere che riprenderanno ciò che avviene. Le immagini poi saranno selezionate, cancellando tutto ciò che è fermo e inerte: il movimento, tradotto in suono, interferirà invece come “colore ombra” sulle voci. Una tecnica del tutto nuova: mi ci vorranno un paio d’anni, penso, per metterla a punto e sperimentarla». Il libretto sarà composto da J. D. McClatchy, poeta, traduttore e scrittore, di recente protagonista proprio alla Scala come autore del testo di 1984 di Lorin Maazel, tratta dall’omonimo romanzo di George Orwell.  «Il testo di Al Gore – spiega in inglese - è una grande lezione polemica. Ma io sono un librettista, e ciò che mi occorrono sono i personaggi, i dialoghi, l’azione. Quando abbiamo iniziato a lavorare sul progetto, una cosa ci è sembrata subito chiara: non avevamo nessuna intenzione di dar vita ad un oratorio didascalico con tanto di coro a declamare la fine del mondo, ma nemmeno creare una situazione statica con personaggi ridotti a meri tableaux vivent». Cosa vi ha ispirato, quindi, nel libro? «Ciò che ci ha ispirato in questo libro è la descrizione di un mondo in profonda crisi. La sfida della sua “traduzione” in spettacolo è stata affrontata avendo come stella polare il fatto che questo non sarà, e non potrà mai essere, un melodramma “tradizionale”. Il nostro lavoro, però, è appena cominciato, e si tratta di un work in progress, destinato a cambiare in corso d’opera e ad adattarsi alle esigenze della musica. Sappiamo, per ora, solo che avrà un inizio drammatico ed una fine, forse, ancora più drammatica. Ma una cosa è certa: non daremo “ricette per la sopravvivenza”. La nostra intenzione è quella di proporre una riflessione su temi cruciali della nostra esistenza e del nostro futuro come singoli individui e come abitanti del Pianeta. Stimolare la gente a pensare a ciò che accadrà. Ma saranno loro a decidere cosa fare in concreto e se compiere, come auspichiamo, una scelta morale». La regia sarà firmata da William Friedkin, universalmente noto per aver diretto L’Esorcista (1973), ma che dal 1998 si è convertito al teatro d’opera: Wozzeck con Mehta,  Barbablù, Gianni Schicchi e Ariadne auf Naxos con Nagano, fino alle imminenti (settembre 2008) Tabarro e Suor Angelica alla Los Angeles Opera. «Lavorare – commenta Friedkin - per il più prestigioso teatro del mondo, e con due uomini di grande talento come Battistelli e McClatcky,  è una sfida che non potevo non accettare. Quando abbiamo cominciato, ci siamo ritrovati di fronte al classico foglio bianco. Punto di riferimento è e sarà il libro, non il film, quindi l’opera non sarà la mera trasposizione melodrammatica di un documentario ma avrà una vita a sé. Attenzione però: qualsiasi cosa verrà fuori non dovrà avere successo solo per il messaggio che saprà veicolare, ma anche e soprattutto come opera teatrale». Da dove nasce il suo interesse per il melodramma? «Pur essendo un regista cinematografico, da anni mi cimento nell’opera perché sono convinto che il teatro sia molto più efficace del cinema per veicolare messaggi. Conosco e amo profondamente il cinema italiano, ma in giro per il mondo le pellicole che hanno successo parlano solo di supereroi in lotta col cattivo di turno per salvare il mondo. Tutta tecnologia e basta. Chi ne parlerà più tra cent’anni? Invece l’opera, scritta secoli fa, la ascoltiamo ancora oggi. Perché è universale». Avete già in mente la squadra con cui lavorerete alla realizzazione dell’opera? «Abbiamo per ora scelto un team di collaboratori di tutto rispetto: il set designer sarà Mark Fischer, il mago del Cirque du soleil,  il lighting designer Mark Johnathan del Royal Ballet di Londra, infine Michael Curry, autore delle meravigliose creature del film “Il Re Leone”. Un team con cui ho già lavorato molte volte e che sono convinto darà moltissimo a quest’opera». E gli interpreti vocali? «Saranno scelti – spiega Battistelli - più avanti, quando avremo terminato il lavoro. Mentre la direzione musicale sarà affidata a Gianandrea Noseda, un musicista con cui ho un’ottima affinità e  che  non teme, per citare Schönberg, la ridondanza del suono». PUBBLICATO SU CLASSICAONLINE:http://www.classicaonline.com/interviste/10-07-08.html