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Post N° 178

Post n°178 pubblicato il 12 Giugno 2008 da eleperci
 

Devia, Bruson e Bros per la prima volta al Piermarini nei panni di Violetta, Germont e  Alfredo.
E sul podio Carlo Montanaro, “direttore per caso”  con un brillante avvenire già scritto

 

Alla Scala in scena la Traviata dei “grandi debutti”

 


di Elena Percivaldi

 

La si potrebbe definire “la Traviata dei debutti”. Sì perché quella che si accinge ad andare in scena in questi giorni alla Scala di Milano è, di fatto, un’opera che molti dei suoi interpreti – Mariella Devia, José Bros, Renato Bruson – e anche il direttore  Carlo Montanaro affrontano al Piermarini per la prima volta.  Un’opera amatissima al pubblico, di solida tradizione, che con i suoi illustri precedenti ogni volta che viene messa in scena rappresenta una sfida. Abbiamo incontrato i cantanti, il direttore e la regista Liliana Cavani alla vigilia della “prima” (purtroppo la Devia, indisposta, sarà sostituita alla prima rappresentazione da Irina Lungu) per raccogliere impressioni, aspettative e perché no?, anche i timori.

Signora Devia, come si sente a un passo dal debutto?

«Non ho mai cantato Violetta alla Scala, ma il mio vantaggio è che comunque non sarà un debutto. E’ un ruolo che ho sostenuto moltissime volte e che sento molto “mio”. Ma proprio perché alla Scala non l’ho mai interpretato, non ho voluto vedere né sentire i precedenti. Non voglio fare paragoni: la mia Violetta sarà mia e basta. Se piacerà, bene, altrimenti pazienza».

Traviata è un’opera che Liliana Cavani ha riscoperto in tutto il suo valore solo tardi.

«La prima volta che la vidi, a Carpi, – racconta la regista – ero una ragazzina, e mi sembrò un papocchio. Un’opera poco seria, a tratti persino ridicola. A farmela apprezzare fu Riccardo Muti, che a Ravenna la cantò per me da cima a fondo al pianoforte. Capii allora che all’epoca in cui fu scritta rappresentò una novità enorme, tanto che la “prima” alla Fenice fu fischiata perché questa storia “scandalosa” fu messa in scena in abiti moderni quando il pubblico era abituato a miti e ambientazioni storiche. Vedersi rappresentati in questo modo dovette essere uno choc».

 Invece Traviata ha a suo modo cambiato la storia…

«E’ qui che nasce, di fatto, il Verismo. Un Verismo oltretutto non banale, anche e soprattutto perché contiene una forte critica sociale. A questo proposito, vorrei dire una cosa che sento molto. Purtroppo Verdi non è rappresentato, poco e nemmeno troppo bene. Io invece credo che la Scala debba avere come tratto distintivo proprio questo: rappresentare Verdi al meglio. Perché Verdi è un gigante».

Come sarà dunque questa sua Traviata?

 

 «Rispetto alle altre che ho già portato qui non molto diversa, anzi. Trovo che i personaggi siano ben definiti. Dal punto di vista psicologico non c’è nulla da cambiare rispetto alla prima volta. Allora, mi ricordo, Gianandrea Gavazzeni mi prese da parte e mi disse: “Liliana, non ti preoccupare. Deve andare male, è già scritto. Dopo la Traviata della Callas, non può che andare male”. Invece andò benissimo. Quindi avanti così».

Alfredo avrà il volto e la voce di José Bros. Il tenore iberico, già apprezzato in Italia come dimostra l’assegnazione di vari premi tra cui il “Parma Lirica” dopo la sua interpretazione, al Regio,  in Rigoletto,  ha già cantato Germont jr in passato e con ottimo successo. Alla Scala, però, vi arriva per la prima volta. «Il mio debutto è stato cinque anni fa a Madrid – racconta -, da allora ho lavorato in modo molto intenso al personaggio di Alfredo approfondendone il carattere, al quale ho cercato di restituire freschezza».

Altro “debuttante” di lusso il grande Renato Bruson, vero e proprio monumento che non ha bisogno di presentazioni. «Per affrontare Germont alla Scala – scherza - ho atteso di essere maturo… Ovviamente,  è un ruolo che conosco benissimo perché l’ho interpretato qualcosa come cinquecento volte. Questa, però, è la prima con la regia di Liliana Cavani, e la cosa mi intriga molto. Alla Scala io sono un po’ come un olimpionico: torno ogni quattro anni. Stavolta ho deciso di anticipare i tempi. Magari si trovasse sempre un ambiente come questo in cui lavorare».

Debutta sul podio, in assoluto, anche il maestro Carlo Montanaro. La storia di questo giovane direttore – ha appena compiuto 39 anni – è tutta da raccontare. Per lui l’incontro con la bacchetta è avvenuto quasi per caso. E da sogno nel cassetto si è trasformato in splendida e fulgida realtà.

Maestro, questo per lei è il debutto alla Scala, l’anno prossimo la vedremo di nuovo nei Due Foscari. Come si sente alla vigilia della “prima volta”?

 

«Emozionato. Ma non troppo preoccupato».

Qual è il suo approccio con Traviata?

 

«Per me è l’opera più delicata del repertorio verdiano, si basa su equilibri raffinati, e dietro alla apparente grande semplicità suscita un clima di magia. Io ritengo che sia un’opera molto femminile, rarefatta, tutta costruita sui rapporti tra i personaggi la cui evoluzione coincide col dipanarsi della storia, e viaggia lungo percorsi interiori. Io credo che il cardine attorno al quale tutto ruota è la figura del padre, di Germont. Ho dunque cercato di valorizzare questi spunti, trovando peraltro nei cantanti gli interpreti ideali per dar corpo a questa lettura».

Lei ha iniziato come violinista, nel 1991 è entrato nell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino e sembrava avviato ad una brillante carriera da orchestrale. Come è finito sul podio?

 

«Ho iniziato a fare il direttore d’orchestra quasi per gioco. Era il 2000 e con alcuni amici, membri anche loro dell’Orchestra del Maggio appunto, decidemmo di mettere in scena un concerto in una chiesa. Io sarei stato sul podio. Invitammo, per l’occasione, anche Zubin Mehta, ma con scarse speranze che venisse a sentirci. Invece, eccolo lì seduto tra il pubblico. Io diressi il concerto. Essendo noi per motivi di budget in pochi e solo archi, il programma non era dei più variegati. Ma quella sera cambiò la mia vita».

Cosa accadde esattamente?

 

«Alla fine dell’Intermezzo di Cavalleria Rusticana, sentii alle mie spalle qualcuno alzarsi e iniziare, da solo, a battere le mani. Era il maestro Mehta. Non credevo ai miei occhi. Poco dopo mi diede in mano una lettera di presentazione per la Hochschule für Musik di Vienna. Lì studiai tre anni e poi iniziai una lunga gavetta. Ed ora, eccomi qua».

Ha mai più lavorato con il maestro Mehta da allora?

«No, ma so che segue quello che faccio».

Dicono che i musicisti sentono se un direttore “viene” dall’orchestra. Conferma?

 

«Assolutamente. Forse perché l’approccio di un orchestrale alle sonorità è diverso».

Lei è un direttore giovane ma ha in repertorio. Ha mai pensato di dedicarsi anche alla musica contemporanea?

 

«Ho un approccio molto classico all’opera, per questo il repertorio che prediligo è quello del nostro Ottocento. Mettere in scena il Verismo oggi per noi italiani è normale. Ciò che è difficile è ascoltare quella musica con l’orecchio di chi la ascoltava quando fu scritta, e cercare di rendere quelle sonorità.  Comunque, amo molto anche il repertorio francese e mi dedico parecchio alla sinfonica. Per quanto concerne Wagner, non mi sento ancora pronto. Meglio aspettare».

Per un direttore che ha studiato a Vienna, è curioso che lei non abbia finora diretto Mozart...

 

«E’ vero, assolutamente. Ma ciò non significa che non lo apprezzi, anzi. Ho diretto molte sue sinfonie. Per il teatro, credo che dirigere le sue opere per me sarà una grande sfida: vorrei riuscire a coniugare l’universo  che nacque in Mozart a seguito dei suoi viaggi in Italia con la sua mentalità e la sua cultura salisburghese e viennese. Un incontro interessante, non crede?».

PUBBLICATO SU CLASSICAONLINE.COM:
http://www.classicaonline.com/interviste/09-06-08.html

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