Post n°1749 pubblicato il
09 Giugno 2020 da
surfinia60
Quando le persone sono vittime di ingiustizia, a qualsiasi titolo, istintivamente provano a ribellarsi, a protestare.
Non parlo di manifestazioni di piazza.
Mi riferisco alla piccola quotidianità, in casa, sul posto di lavoro, in ambiti sociali simili.
Succede che le situazioni, per una ragione o per l’altra, non vengano sanate.
Chi può e dovrebbe intervenire fa un tentativo, con poca convinzione, credendoci poco (in genere sono i capi che lavorano in uffici asettici, ai quali basta chiudere la porta per lasciare fuori le seccature).
Ne consegue che le situazioni degenerano.
Si covano rancori mai sopiti, che si trascinano e si amplificano.
Si smette di parlarne (l’idea è che “tanto che posso farci? Neppure ai capi frega qualcosa!”).
Si salva quel minimo di apparenze, si sorride a denti stretti perché “bisogna”, ma si evita di comunicare, di confrontarsi, consapevoli che la situazione da cui tutto era partito è ancora lì, nascosta sotto il tappeto, in un angolino dove nessuno può o vuole arrivare.
E poi, siccome la vita deve andare avanti, ci si auto convince che, dopotutto, quel posto o quel gruppo non ci appartengono.
Noi siamo altro, siamo altrove.
La morale è che quella fetta di vita viene scartata e relegata in un angolo buio, eppure accettata come quelle cose che semplicemente sono così e non possono essere cambiate.
Penso a quanta gente vive in questo modo, sforzandosi di accettare ciò che non può cambiare, stanca di lottare contro mulini a vento, cercando di barcamenarsi in qualche modo e fuggendo ogni volta che può verso altri lidi.
Ma davvero la vita è tutta qui?
Inviato da: surfinia60
il 23/04/2024 alle 18:27
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