Mattone dopo mattone

Post N°96


Sto guardando con mortificazione il selciato d’una stradina di paese in salita, qualche bancarella sulla destra scivola di lato dai miei occhi senza alcun peso, sono concentrato sul mio passo lento e sto cercando di trattenere le mie parole di ghiaccio. Con tutta sincerità, non posso più muovere un passo. Tu ti giri, sto farfugliando qualcosa di maledettamente stupido e disperato, riderei di me se fossi sveglio. Quando mi baci le tue guance sono umide e salate, rigate dalle lacrime. Quel coglione d’un capellone ti guarda imbalsamato, come uno scoiattolo esposto sulla mensola di una baita di montagna. Ma ha la tua stima e mi dovrà bastare. Ci stiamo dicendo addio, sto singhiozzando come un bimbo che ha preso una sberla dal padre. Dio, le tue labbra, non le voglio lasciare. Scappo lontano da te a gambe levate, corro nel vento, il selciato sembra un tapis roulant. In stazione non c’è un treno che mi porti via da questa città morta, i cartelloni sono scritti in un alfabeto alieno e io sembro una talpa. Le lacrime dolci che non ho versato in tempo di pace e quelle amare che non ho versato in tempo di guerra stanno annegando i miei sogni, e mi scopro più addolorato di quello che il mio ego mi possa concedere di sapere. Il mio cazzo non ha più risposto presente agli appelli di qualche sfortunata maestra, riderei di me se stessi sognando. Ti dico addio nello strazio più oscuro ogni fottutissima notte gelata, ma né il mio corpo intirizzito né la mia mente distratta intendono obbedire alla lezione dell’amore più doloroso ed estremo, quello che si consacra nella perdita.