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Hrant Dink


Io il suo nome non so neanche come si pronuncia. Ma in Turchia sì, dovevano saperlo bene. In quel posto lontano, così lontano da sfuggire alla nostra percezione dell'esistente. Da lì, tra le notizie sull'entrata nell'Unione Europea o sulla visita del papa, arriva anche quella sull'assassinio di un giornalista. L'ennesimo. Ucciso. Dopo Anna Politkovskaja.Stavolta non sulla porta di casa, ma su quella della redazione che Dink dirigeva, Argos. Io un articolo suo non l'ho mai letto. Non sapevo neanche chi fosse questo Dink. Quando ho letto la notizia ho messo nome e cognome su quell'enciclopedia sempre aperta che è Google e ho cercato per immagini. Così, per sapere che occhi aveva un giornalista coraggioso. Per avere una sua figura da ricordare. "Più volte perseguito dalla giustizia turca, il giornalista era considerato uno degli esponenti di maggior spicco della comunità armena ed era famoso per aver qualificato come genocidio il massacro degli armeni commesso sotto l'impero ottomano. Una posizione che gli aveva procurato l'ostilità dei nazionalisti turchi che rifiutano il termine genocidio". Questo è quanto riporta Repubblica.it. Ucciso per una parola. Per l'idea che stava dietro quella parola. Genocidio. Giusta o sbagliata, ma comunque un'idea. Vorrei non fosse così, che un giornalista viene ucciso perché ha un'idea diversa da quella di un gruppo politico. E' davvero assurdo. E mi chiedo quanto sia stata dolorosa la sua scelta di dirla, quell'idea, sapendo di parlare a molta gente. E infastidirne di più. Non credo che ora la sua penna dia meno fastidio di prima. Anzi.