Taglia Trentotto

Working girl no more part 2


Il mio futuro è assai incerto. Non è un caso che le zingare mi rincorrano per strada per leggermi la mano. Spesso mi fanno notare come la linea della vita sia un po’ sconquassata e inconsistente, difficile da seguire con lo sguardo fino alla pensione. Il passato al contrario è un segno duro sul palmo, una cicatrice di stronzate che io tento di addolcire con della crema Nivea nella speranza di diventare saggia un giorno. In genere però cerco di non tornare mai adolescente per non farmi carico di quelle stronzate. A ben pensarci sono stata felice solo nel 1984, gli anni prima e gli anni dopo me li ricordo tutti corrosi e piuttosto heavy metal. Nel 1984 uscì Like a Virgin. Fui felice perché appresi che si può fare le vacche anche vestite da madonne. Sono certa però che negli anni Ottanta la felicità pervadeva completamente i nostri animi e tutti ne assaggiavamo almeno una fetta. Gli italiani si dichiaravano contenti nei sondaggi e il suicidio era un affare unicamente finlandese. L’evasione fiscale già allora sputava Suv figli di redditi che sulla carta non erano mai nati, ma che in realtà scoppiettavano in cassa di risparmio. Anche l’occupazione viaggiava stabile su un convoglio felice e le segretarie d’azienda fiorivano ovunque. Grazie al boom economico la gente si bruciava i propri anni migliori in lavoro straordinario, e dai capannoni all’orizzonte si levavano grandi fiammate di valore aggiunto a lembire il cielo dei distretti industriali. Nelle ore in eccesso se ne andava tutta la creatività, quella che forse oggi riserveremmo ad educare un Tamagotchi. Il vero hobby degli uomini italiani era quello di far crescere la busta paga e i risparmi di una vita. Ed erano uomini in pace con Dio e con la società. In fondo ci voleva poco per guadagnarsi il paradiso: bastavano un tornio meccanico e la santa messa. Tutto quello che avveniva dopo aver timbrato il cartellino alla fine di un turno erano distrazioni sentimentali. Le palestre accoglievano solo yuppies, nati anche loro da poco, forse coetanei delle migliori hit di Madonna. I lavoratori delle fabbriche venete invece si facevano crescere i muscoli sulla squadrabordatrice e assieme ai bicipiti aumentavano anche i fatturati delle aziende.  Nessuno allora distoglieva il pensiero dal lavoro svagandosi con del sesso inutile. L’Escort era solo un’utilitaria che potevi anche pagare a rate, non certo una puttana con una marcia in più. Negli anni Ottanta, quando eravamo tutti padroni di noi stessi e dominavamo le aziende, mia madre mi intimava di continuare a studiare. Non so perché lo faceva. Siamo unicamente quello che produciamo.Ora l’incantesimo dell’industria si è rotto. Dicono che stavolta non è colpa dell’inflazione, ma di evasione e corruzione, quelle che mi avevano reso felice nel 1986. Sul Veneto laborioso dove un tempo divampavano lavoro nero e lavoro straordinario è calata una cappa di sfiga e mancanza di commesse, e così il fuoco produttivo del Nordest si è spento. Siamo il fumo che vendiamo. Un call-center di troppo. Uno stage aziendale fregatura dell’ultima ora. Gli hobbies, i social network e tutto ciò che ci aiuta a costruire un’esistenza al di là del nostro centralino perduto,  ci danno la speranza di un’altra identità che nasce dalle ceneri di una carriera. Siamo costretti ad amare il giardinaggio, ed agitare il pollice verde al posto del vaffanculo col dito medio è ormai la nostra professione. Tanti hobbies servono a coprire un solo buco, neanche un buco nell’anima, che ci dia la sicurezza che le telenovelas e le corna fanno ancora parte delle nostre vite, un vero e proprio buco in agenda che dura da Carnevale  a Natale, dove non conosciamo più né innamoramenti nè fatture da stornare. Siamo tutti cassaintegrati. Siamo il nulla che ostentiamo. Meglio sarebbe mettere delle attività preferite dentro al vuoto, altrimenti la noia, il porno e il Grande Fratello si impossesseranno di noi impiegati dimenticati. Il découpage, l’uncinetto e la briscola occuperanno presto tutto il nostro calendario. Dovremo farcene una ragione di questa nuova occupazione. Ma vi dico una cosa. Una ex bulimica che viene improvvisamente privata delle sue bolle di vendita è doppiamente scornata. Il suo destino non è di farsi crescere il pollice verde o altra opzione di vaffanculo, ma di preparare una Torta della Nonna. Poi un’altra. E un’altra, fino a radere al suolo tutto l’albero genealogico di ingredienti parenti. Quando il dolce far nulla le si conficca nella carne come un pugnale, non è agli allegri scacchi che pensa ma ai fiocchi di mais. Fiocca il desiderio di overeating. Mangiare è il mio lavoro, l’occupazione dalla quale non mi licenzio mai. Ho tutto il tempo per cucinare.  Accendo il fuoco. Ma poi succede sempre che si sente quel terribile odore di centralino bruciato. Un curriculum sprecato. Un vitello tonnato. Le mie ore straordinarie sarebbero ancora più affascinanti se ci aggiungo cinque vasetti di Nutella. Volo alla Coop. La spesa non è più la stessa di quando ero bambina e lanciavo il carrello verso i carboidrati. Ora ho molta più paura di ingrassare. Oggi, fare la fila alla cassa del market è come fare la coda per il sussidio statale. Ho sempre quella faccia da veneta sconfitta, travolta dalla bulimia e dall’economia. Eppure mia mamma mi diceva di continuare a studiare se volevo sfondare. Di quegli studi che, se hai un po’ di fortuna e ti applichi abbastanza, ti fanno finire dritta dritta tra gli esuberi aziendali, sulla lista dei nomi da tagliare. Electrolux rigurgita impiegati per le strade. Quel vomito del capitale in crisi che pensavo fiottasse solo dai grandi complessi industriali, ora è tutto dietro a casa mia.  Montagne di impiegati che devono cambiare vita, così su due piedi. Dicono che qualche manager, a lungo andare, sia finito a dormire in macchina, declinazione moderna di clochard su un’ Audi. Siamo cibo spazzatura per le aziende.  Ma il cibo spazzatura da che mondo è mondo risolve ogni male. Ce lo portiamo frettolosamente alla bocca quando siamo tristi e mastichiamo più che possiamo. Purtroppo si tratta quasi sempre di assunzioni sfortunate. Torno al pane. Torno alla mio vecchio mestiere. Non mi considera di troppo neanche quando mi fotto venti brioches in pacchi famiglia. Di cui voglio solo essere figlia. Funziono come una fabbrica di paranoie che non stacca mai, neanche quando la felicità mi spacca le budella . La malattia è una carriera brillante. Corre liquida tra scenari di recessione e la morte dell’industria italiana. Mi infilo anche io nel tunnel della depressione come fanno certi operai congedati. Mi preparo un toast a sette piani. Ma all’improvviso mi contatta la Manpower di Treviso. Forse un’azienda mi desidera. Il mio lavoro non è mangiare. Il mio lavoro è fatturare.