"Siamo arrivati" gridò.E in effetti c'era una costruzione dietro di lei, un muro rosa, vecchio, che non sembrava appartenere a una casa ancora in piedi.Si girò verso quel muro.Era un'abitazione autonoma, una sorta di minuscolo villino diroccato, proprio sotto i piloni del viadotto.Scendemmo tra la sterpaglia polverosa, poi risalimmo due gradini fino a una porta a doghe, verde come la sua gonna.Tese un braccio nello specchio di mattoni sopra la porta, e stacò una chiave incollata lassù con un pezzo di gomma americana.Aprì la porta, poi si tolse dalla bocca la cicca che stava masticando, e riappiccicò la chiave in alto con una pressione delle dita.Mentre si allungava, guardai le sue ascelle spalancate, non erano depilate, ma non erano folte.Giusto un ciuffo di peli sottili e lunghi, rappresi di sudore.Dentro c'era una strada trasversale di sole che tagliava l'aria.Fu la prima cosa che mi arrivò addosso insieme all'odore di fuliggine, di casa di paese, soffocato da un fortore di varichina e di veleno, il veleno che si usa per uccidere i topi.Era una stanza squadrata con un impiantito di grès color caffè, sulla parete di fondo c'era un caminetto, una grande bocca nera e triste.Un interno dignitoso, ordinato, solo un pò guercio perchè la luce arrivava da un'unica finestra.Dalle ante accostate spuntava un pilastro dal viadotto.Tre sedie tipo svedese erano infilate sotto un tavolo ricoperto da una tovaglia di tela cerata.Accanto, si apriva una porta.S'intravedeva un pensile da cucina impiallacciato di formica a guisa di sughero.Lei s'infilò lì dentro."Metto il latte in frigorifero."Aveva detto di possedere un telefono.Lo cercai senza trovarlo, su un tavolino basso con un posacenere a forma di conchiglia, su una cassettiera laccata invasa di ninnoli, su un vecchio divano ravvivato da un telo a fiorami.Appeso al muro, scoprii il poster di una scimmia con una cuffia da neonato in testa e un biberon tra le zampe, immortalata nella luce fasulla, dei flash e degli ombrellini di polietilene, di uno studio di posa.Lei tornò subito."Il telefono è di là, in camera" disse, indicando una tenda di lingue di plastica proprio dietro alle mie spalle."Grazie" sussurrai verso quella tenda da bar, e di nuovo temetti un agguato.Sorrise, snudando una riga di piccoli denti imperfetti.
Post N° 13
"Siamo arrivati" gridò.E in effetti c'era una costruzione dietro di lei, un muro rosa, vecchio, che non sembrava appartenere a una casa ancora in piedi.Si girò verso quel muro.Era un'abitazione autonoma, una sorta di minuscolo villino diroccato, proprio sotto i piloni del viadotto.Scendemmo tra la sterpaglia polverosa, poi risalimmo due gradini fino a una porta a doghe, verde come la sua gonna.Tese un braccio nello specchio di mattoni sopra la porta, e stacò una chiave incollata lassù con un pezzo di gomma americana.Aprì la porta, poi si tolse dalla bocca la cicca che stava masticando, e riappiccicò la chiave in alto con una pressione delle dita.Mentre si allungava, guardai le sue ascelle spalancate, non erano depilate, ma non erano folte.Giusto un ciuffo di peli sottili e lunghi, rappresi di sudore.Dentro c'era una strada trasversale di sole che tagliava l'aria.Fu la prima cosa che mi arrivò addosso insieme all'odore di fuliggine, di casa di paese, soffocato da un fortore di varichina e di veleno, il veleno che si usa per uccidere i topi.Era una stanza squadrata con un impiantito di grès color caffè, sulla parete di fondo c'era un caminetto, una grande bocca nera e triste.Un interno dignitoso, ordinato, solo un pò guercio perchè la luce arrivava da un'unica finestra.Dalle ante accostate spuntava un pilastro dal viadotto.Tre sedie tipo svedese erano infilate sotto un tavolo ricoperto da una tovaglia di tela cerata.Accanto, si apriva una porta.S'intravedeva un pensile da cucina impiallacciato di formica a guisa di sughero.Lei s'infilò lì dentro."Metto il latte in frigorifero."Aveva detto di possedere un telefono.Lo cercai senza trovarlo, su un tavolino basso con un posacenere a forma di conchiglia, su una cassettiera laccata invasa di ninnoli, su un vecchio divano ravvivato da un telo a fiorami.Appeso al muro, scoprii il poster di una scimmia con una cuffia da neonato in testa e un biberon tra le zampe, immortalata nella luce fasulla, dei flash e degli ombrellini di polietilene, di uno studio di posa.Lei tornò subito."Il telefono è di là, in camera" disse, indicando una tenda di lingue di plastica proprio dietro alle mie spalle."Grazie" sussurrai verso quella tenda da bar, e di nuovo temetti un agguato.Sorrise, snudando una riga di piccoli denti imperfetti.