C'era stato un'imprevisto quell'anno, Angela, la notte di Pasqua avevo perso mio padre.Senza dolore, non lo vedevo quasi mai.Dopo la morte di mia madre i nostri incontri si erano molto diradati.Sapevo che viveva in un residence, ma non conoscevo nemmeno il suo indirizzo.Mi dava appuntamento in un bar di legno galleggiante sul fiume, accanto a un campo da tennis.Sempre al tramonto, nell'ora più morbida.A lui piacevano gli aperitivi, lo zucchero intorno al bicchiere, il piattino con le olive.Teneva in dentro la pancia, si sedeva dalla parte del suo profilo migliore.Gli piaceva sentirsi ragazzo.Di quei rari incontri ricordo solo il rumore della palla da tennis che rimbalzava schiacciata dalle racchette nel campo di polvere rossa.Il giorno del funerale avevo assistito all'omelia del prete in piedi.Elsa era accanto a me, un velo nero, ricamato, le spioveva sulla fronte, piangeva.Non so bene per cosa.Soltanto perchè le sembrava giusto farlo.un uomo atticciato con i capelli bianchi sbucò da una colonna e mi passò accanto.La cravatta di rasone nero scucita, con l'etichetta interna che fuoriusciva sulla camicia.S'accostò al microfono e lesse una paginetta scritta di suo pugno.Parole retoriche, inutili, che sarebbero piaciute a mio padre.Doveva essere un suo grande amico, leggeva con una voce zuppa di dolore autentico, un fazzoletto lercio di muco stretto in una mano.Aveva un'aria stravagante, bonaria e laida insieme, tutta la sua figura, dai capelli agli abiti, era ingiallita dalla nicotina.Sul sagrato fumava.Mi strinse la mano, cercando un abbraccio al quale mi sottrassi.Nessuno di famiglia sembrava conoscerlo.Si allontanò, saltellando con il suo corpiciattolo strizzato nella giacca cangiante lungo la scalinata.In quell'uomo sconosciuto, dall'impronta promiscua, mi parve di riconoscere l'unica eredità di mio padre.E a lui pensavo, guidando verso il mare, verso tua madre.Questa morte senza dolore, a sorpresa, nei mesi successivi mi aveva tormentato più del previsto.Di notte mi ero svegliato, scoprendomi orfano in cucina, tra il frigorifero e il tavolo, non di lui, ma del desiderio di un padre, di una remota possibilità che forse lui conservava e che io per orgoglio avevo sempre ignorato.Il rimpianto si era cristallizzato dentro di me, cupo e silenzioso.Era estate e ancora vegliavo in quello strano sconforto.Forse il freddo mi avrebbe rimesso in moto.Guidavo verso il mare e adesso pensavo di andarmene in Norvegia con Elsa per le vacanze di ferragosto.Avevo voglia di camminare sul ciglio di immense fosse tettoniche, di risalire i fiordi, attraversare il Vestfjord e raggiungere le isole Lofoten.E poi star lì con la pelle arrossata dal vento a pescare merluzzi più grandi di me nel mare cobalto.Una donna di mezza età guidava l'auto davanti alla mia, già da un pezzo le ero dietro.Potevo mettere la freccia, dare un colpo di clacson, e svincolare via sulla sinistra accelerando.Invece, appeso al volante, temporeggiavo.I capelli corti lasciavano scoperta la nuca pensierosa di una donna ferma su un crinale.Una donna che resiste con la sua schiena da ragazza, però ha perso il senso dell'orientamento.Basta, ora spingo il clacson, lo faccio stridere dentro le ossa della sua schiena.Ma già penso a mia madre.Aveva preso la patente tardi lei, si era fatta quel regalo.Saliva sulla sua piccola utilitaira che odorava di cera da mobili e andava, chissà dove.Il cappotto a spina di pesce piegato bene sul sedile accanto.Giudava proprio così, come questa donna che sta davanti, troppo attaccata al volante, con il timore che qualcuno le pugnalasse la schiena con un colpo di clacson.Angela, perchè la vita si riduce a così poco?E dov'è la clemenza?Dov'è il rumore del cuore di mia madre?Dov'è il rumore di tutti i cuori che ho amato?Dammi un cesto, figlia mia, il cestino con cui andavi all'asilo.Voglio metterci dentro, come lucciole nel buio, i bagliori che hanno attraversato la mia vita.
Post N° 27
C'era stato un'imprevisto quell'anno, Angela, la notte di Pasqua avevo perso mio padre.Senza dolore, non lo vedevo quasi mai.Dopo la morte di mia madre i nostri incontri si erano molto diradati.Sapevo che viveva in un residence, ma non conoscevo nemmeno il suo indirizzo.Mi dava appuntamento in un bar di legno galleggiante sul fiume, accanto a un campo da tennis.Sempre al tramonto, nell'ora più morbida.A lui piacevano gli aperitivi, lo zucchero intorno al bicchiere, il piattino con le olive.Teneva in dentro la pancia, si sedeva dalla parte del suo profilo migliore.Gli piaceva sentirsi ragazzo.Di quei rari incontri ricordo solo il rumore della palla da tennis che rimbalzava schiacciata dalle racchette nel campo di polvere rossa.Il giorno del funerale avevo assistito all'omelia del prete in piedi.Elsa era accanto a me, un velo nero, ricamato, le spioveva sulla fronte, piangeva.Non so bene per cosa.Soltanto perchè le sembrava giusto farlo.un uomo atticciato con i capelli bianchi sbucò da una colonna e mi passò accanto.La cravatta di rasone nero scucita, con l'etichetta interna che fuoriusciva sulla camicia.S'accostò al microfono e lesse una paginetta scritta di suo pugno.Parole retoriche, inutili, che sarebbero piaciute a mio padre.Doveva essere un suo grande amico, leggeva con una voce zuppa di dolore autentico, un fazzoletto lercio di muco stretto in una mano.Aveva un'aria stravagante, bonaria e laida insieme, tutta la sua figura, dai capelli agli abiti, era ingiallita dalla nicotina.Sul sagrato fumava.Mi strinse la mano, cercando un abbraccio al quale mi sottrassi.Nessuno di famiglia sembrava conoscerlo.Si allontanò, saltellando con il suo corpiciattolo strizzato nella giacca cangiante lungo la scalinata.In quell'uomo sconosciuto, dall'impronta promiscua, mi parve di riconoscere l'unica eredità di mio padre.E a lui pensavo, guidando verso il mare, verso tua madre.Questa morte senza dolore, a sorpresa, nei mesi successivi mi aveva tormentato più del previsto.Di notte mi ero svegliato, scoprendomi orfano in cucina, tra il frigorifero e il tavolo, non di lui, ma del desiderio di un padre, di una remota possibilità che forse lui conservava e che io per orgoglio avevo sempre ignorato.Il rimpianto si era cristallizzato dentro di me, cupo e silenzioso.Era estate e ancora vegliavo in quello strano sconforto.Forse il freddo mi avrebbe rimesso in moto.Guidavo verso il mare e adesso pensavo di andarmene in Norvegia con Elsa per le vacanze di ferragosto.Avevo voglia di camminare sul ciglio di immense fosse tettoniche, di risalire i fiordi, attraversare il Vestfjord e raggiungere le isole Lofoten.E poi star lì con la pelle arrossata dal vento a pescare merluzzi più grandi di me nel mare cobalto.Una donna di mezza età guidava l'auto davanti alla mia, già da un pezzo le ero dietro.Potevo mettere la freccia, dare un colpo di clacson, e svincolare via sulla sinistra accelerando.Invece, appeso al volante, temporeggiavo.I capelli corti lasciavano scoperta la nuca pensierosa di una donna ferma su un crinale.Una donna che resiste con la sua schiena da ragazza, però ha perso il senso dell'orientamento.Basta, ora spingo il clacson, lo faccio stridere dentro le ossa della sua schiena.Ma già penso a mia madre.Aveva preso la patente tardi lei, si era fatta quel regalo.Saliva sulla sua piccola utilitaira che odorava di cera da mobili e andava, chissà dove.Il cappotto a spina di pesce piegato bene sul sedile accanto.Giudava proprio così, come questa donna che sta davanti, troppo attaccata al volante, con il timore che qualcuno le pugnalasse la schiena con un colpo di clacson.Angela, perchè la vita si riduce a così poco?E dov'è la clemenza?Dov'è il rumore del cuore di mia madre?Dov'è il rumore di tutti i cuori che ho amato?Dammi un cesto, figlia mia, il cestino con cui andavi all'asilo.Voglio metterci dentro, come lucciole nel buio, i bagliori che hanno attraversato la mia vita.