Si parla di ricerca dell’Islam moderato. Col lanternino, perché dove sia non si sa. Che il corpo delle donne fosse il campo di battaglia dello scontro tra civiltà sembrava un’idea paradossale, ma oggi ormai è una cosa scontata, dati i noti episodi di violenza e abusi sulle donne, soprattutto musulmane. Hina, 21 anni, pachistana, è stata decapitata l’11 agosto dell’anno scorso da suo padre, aiutato dallo zio e da due cognati. Il fattaccio è accaduto a Sarezzo (Brescia) e la ragazza è stata uccisa perché “colpevole” di comportarsi da occidentale. Il padre, Mohammed Saleem, ha ammesso d’averla sgozzata dopo aver ricevuto il rifiuto da parte della figlia che non voleva cambiare vita e lui non voleva che diventasse come quelle altre. “Quelle altre”? Ah, già: le ragazze occidentali, un’altra ovvietà. Eppure, a guardare una foto di Hina, si vede una bella ragazza mora, occhi grandi scuri, fisico snello, jeans chiari, maglietta corta viola, si vede la pancia, unghie lunghe, sorriso luminoso, capelli sulle spalle ondulati: occidentale, integrata, desiderosa di riscatto sociale. “Che male c’è?”, sembra chiedere dalla foto che la ritrae con una mano sul fianco sinistro e l’altra lungo il corpo leggermente piegato. Che male c’era a voler vivere la sua via come e con chi voleva? Hina da anni era in rotta con la sua famiglia che non sopportava la sua indipendenza, dato che lei lavorava di sera in un bar di Brescia, frequentava italiani, era fidanzata con un giovane italiano di 33 anni, opponendosi al matrimonio combinato dal padre. Giovedì c’è stata la prima udienza a Brescia per l’omicidio della ragazza pachistana e il giudice per l’udienza preliminare, Silvia Milesi, ha concesso uno sconto di pena che porterà al rito abbreviato. I quattro imputati rischiano come minimo 30 anni di carcere: sempre troppo pochi perché dietro a ciò che è successo a Hina ci sta molto altro. Viene in mente un film, “Submission” del regista Theo Van Gogh, ucciso ad Amsterdam da un fanatico islamista e colpevole di essere troppo vicino a personaggi come Ayaan Hirsi Ali, sceneggiatrice del film e musulmana, parlamentare in Olanda, una donna che ancora oggi vive sotto scorta perché esprime la più radicale e coraggiosa posizione per la libertà della donna nell’Islam. Il film ritenuto blasfemo dura undici minuti e ha un linguaggio “estremo”. C’è una giovane donna avvolta in un sudario nero che prega. Sul suo dorso nudo spiccano i segni delle frustate. Una voce femminile cita il verdetto dei giudici: “All’uomo e alla donna colpevoli di adulterio siano imposte cento frustate”. La donna racconta l’incontro segreto con un giovane, ma i loro familiari li tengono sotto controllo. Poi piange. A 16 anni il padre le dice che sposerà un altro uomo, lei ricorda il disgusto della prima notte con un estraneo, l’odore triste della sua pelle anche se si era appena lavato. È inquadrato un velo da sposa. Una donna lo indossa, la schiena è scoperta. La ragazza sopporta tutto, ma desidera morire per porre fine alla sua vergogna. Un’altra inquadratura: inginocchiata sul tappeto, dice le sue preghiere in arabo. Questo il film blasfemo: mah! Il fattaccio di Sarezzo dell’anno scorso nasconde tante sfaccettature della stessa triste realtà e la cronaca di quanto accaduto l’anno scorso e degli effetti dell’udienza di giovedì sono sotto gli occhi e nelle bocche di tutti. La riflessione porta lontano. La morale sessuale dell’Islam è una morale tipica delle società tribali premoderne, santificata dal Corano. In molti musulmani questa morale si traduce nell’ossessione per la verginità e nell’imposizione del matrimonio combinato. Accade che una donna sia condannata a morte e braccata da giudici e boia privati che la sgozzano e ne nascondono il corpo in giardino, sotto lo sguardo di una madre sottomessa come quella di Hina. In Pakistan una media di due donne al giorno muore per “omicidi d’onore” in cui, spesso, l’assassino uccide invocando il nome di Allah. In Arabia Saudita la carta d’identità è ancora un tabù: le donne sono picchiate e finiscono in ospedale per aver osato scoprire la faccia davanti al fotografo. A Stoccolma nel 2004 una padre curdo ha ammazzato la figlia perché fidanzata con uno svedese. In Inghilterra un anglopachistano ha ucciso la figlia perché aveva cambiato religione. Secondo l’Onu, la vendetta per l’onore infangato uccide ufficialmente 13 figlie al giorno. In Pakistan si contano 1250 vittime nel 2004. Una coppia di immigrati pachistani in provincia di Mantova è stata indagata per la morte della figlia di 15 anni, incinta al quinto mese, morta avvelenata e soffocata. A Cittadella (PD) una diciannovenne marocchina è stata ammazzata a legnate dal padre perché voleva scegliere il proprio uomo. E l’elenco potrebbe continuare... I panni sporchi si lavano in famiglia, e i panni sporchi musulmani nelle famiglie musulmane. Non è infamante “essere occidentali”, ma è segno di integrazione e multiculturalismo che può nascere e crescere, senza perdere le proprie tradizioni religiose. Le battaglie del velo e del crocifisso in classe sono solo esempi della “presa di coscienza della tolleranza”, dove tolleranza bacia solidarietà, dove c’è spazio per tutti e per tutte le religioni, dove non esiste nessuna discriminazione velata, ma ogni uomo convive con altri uomini nel rispetto di tutte le diversità, ogni donna può essere donna, sentirsi donna, vivere la sua femminilità e maternità nel modo più bello possibile che è quello naturale e intimamente “femminile singolare”. La morale sessuale scopre un pentolone che bolle da tempo e che avverte di stare attenti a non scottarsi nell’averci a che fare. L’Imam di Torino, Abdellah Mechnoune, ha condannato il gesto del padre di Hina. Lei non è vittima dell’Islam, ma del genitore, una persona chiusa condizionata dagli insegnamenti di fanatici integralisti. Per l’Imam torinese avere costumi occidentali non viola nessuna norma del Corano: una presa di posizione chiara, ma dal sapore del correre ai ripari, tappare una falla, mettere le mani avanti, mentre il problema resta e necessita di autoanalisi e verità, non solo di ritirate strategiche. Nel marzo 2004 Amnesty International ha lanciato la campagna mondiale “Mai più violenza sulle donne”, riportando dei dati impressionanti, tra cui: 70% le donne che sono state uccise dal partner, 70% gli stupri sul totale delle violenze compiute nelle famiglie italiane, una donna su tre nel mondo è stata picchiata, costretta al sesso o abusata in altri modi. La vita della donne viene devastata fin dalla loro felicità rubata da bambine: la questione si allargherebbe anche ad altri aspetti come la pedofilia, quindi è facile capire come davvero quel pentolone sia grosso e pieno di “troppe cose” perché la “pietanza cattiva” abbonda. Da un lato l’Islam che così moderato non è, dall’altro la religione cristiana che della verginità femminile fa il gran pregio che sappiamo. Anche i nostri costumi hanno conosciuto fino a poco fa l’esibizione delle lenzuola insanguinate dopo la prima notte nuziale, bandiera d’ordinanza di onore virile, mentre per le giovani donne musulmane il prezzo pagato prevede (non schifiamoci nel saperlo) grandi e piccole labbra tagliate e cucite, ricucite dopo un rapporto violento o non ammesso perché la donna musulmana deve arrivare al matrimonio “intatta” per il marito, poi non importa se non c’è amore ma solo botte, intanto l’onore maschile è salvo... Il diritto d’onore, lo sconto scritto di un terzo della pena a chi ammazzasse la moglie o la figlia per difendere l’onore della famiglia è uscito dal nostro codice solo nel 1981. Accostare i costumi italiani a quelli musulmani non è una posizione azzardata: serve solo a sottolineare che a casa nostra, in Europa, è infame che le donne siano vittime di abusi privati e non denunciati, compiuti tra le mura domestiche o per strada, in nome di Allah o per un qualsiasi fanatismo religioso, che la verginità femminile sia vista dalla Chiesa cristiana come “la questione” da risolvere con moniti, prediche, divieti. Musulmani o no, Hina o me stessa, il padre pachistano o italiano: credo che Papa Ratzy dovrebbe preoccuparsi di “tirare le orecchie” a quanti nel mondo offendono le donne (immagine di Maria, no?) e, magari, andare in visita in India e dire alla folla ammassata sotto il sole che la grandezza di Dio, che si chiami Allah o in qualsiasi altro modo, risiede nell’uguaglianza e nella giustizia, che la violenza sulle donne non piace a nessun Dio e porta all’inferno. Si sa che non può accadere tutto ciò: la burocrazia della Chiesa cristiana, la formalità papale, le regole del ciò che si può fare e si può dire sono logiche invalicabili e ultimamente si parla di donna solo per la sua verginità da conservare fino al matrimonio, come se l’unità di misura della purezza dell’animo femminile fosse in mezzo alle gambe. Papa Ratzy annuncerà l’ok al ritorno delle messe in latino, mentre altre donne sparse nel mondo, ma anche in Italia, non riescono a denunciare le violenze subite, schiacciate dalla solitudine. Le radici dell’Europa stanno nell’amore cortese, cavalleresco e romantico, e il cuore dell’Occidente nel matrimonio d’amore (riveduto dal divorzio, dalle coppie di fatto, dalla libera scelta sessuale, dall’esistenza singolare, ecc.), mentre in una parte del terzo mondo vige la negazione dell’amore. La mutilazione genitale femminile e il matrimonio combinato sono la denuncia della violazione della libera scelta ispirata all’amore. Non è ammesso, per i cristiani o per i musulmani, che la gelosia e la paura maschile, camuffate come proprietà del marito sulla moglie, si traducano nella negazione dell’amore. Non si dovrebbero fare figli se non si è in grado di amarli: questo lo insegna Dio. Tutto fa parte di una catena: si incontra una donna (non si “combina”), la si frequenta, nasce il sentimento e il cuore cambia i battiti in entrambi, ci si sposa (per amore, quindi), si fa l’amore (piacere di entrambi), nascono i figli e si amano, rispettando la loro libertà di esseri umani. Perché è vita civile in un mondo civile tra persone civili. E la catena continua. Schifatevi donne che state leggendo e protestate. L’incapacità d’amore e l’amore negato sono forme di cannibalismo moralista che può fare gravi danni: ciò che è accaduto a Hina ne è la prova. Non si deve perdere tempo a cercare l’Islam moderato o le motivazioni delle violenze sulle donne. Si sa benissimo come stanno le cose. Souad Sbai, presidentessa dell’Acmid (associazione delle donne marocchine in Italia), si batte da anni per i diritti delle musulmane: papa Ratzy (scusa il tu) le hai mai parlato? Magari insieme al nostro Presidente del Consiglio... Nausica Zocco