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La mia città piange ancora una volta ...

Post n°1125 pubblicato il 14 Ottobre 2014 da paolotta661

 sta ricominciando a piovere. Dalla finestra vedo il vento che piega i rami degli alberi, vedo il mare feroce, vedo il cielo gonfio. E su internet vedo le immagini che i miei amici stanno pubblicando da casa loro: sta arrivando. Era poco fa a ponente, ora è in centro, tra poco sarà qui a levante.
Ci avvisiamo tra noi, abbiamo creato gruppi su whatsapp, aggiorniamo i socialnet, cerchiamo di sapere che stiamo tutti bene, che siamo al sicuro.
Ora, mentre scrivo, so che sta arrivando. Di nuovo.

Questa cosa che non è più solo pioggia, non è più solo una forte perturbazione, non è più solo burrasca, ma è diventata il nemico, la paura, il Mostro.
Niente di ciò che fa è normale, per noi. Non è normale questo caldo, più di venti gradi a metà ottobre, non è normale tutta quest’acqua che ci affoga, non è normale il rumore che fa quando arriva e ci divora l’aria, la terra, le case. Non è normale vederla arrivare dai monti, e poi dal mare, e poi da levante, e poi da ponente, e ti rendi conto di essere piccolo, impotente e al centro di tutto questo.
Lo scirocco, gomito puntato sulla costa, fa braccio di ferro con la tramontana, gomito puntato sui monti. Questo mi ha spiegato un’amica. E nessuno dei due molla. Da giorni.
E’ un mostro autorigenerante.
E sta arrivando. Di nuovo.

Dentro casa, odore di umido e di fango. La roba indossata ieri e l’altro ieri è stesa ad asciugare ma, nonostante centrifughe e detersivi,  la puzza rimane. E’ un odore che mi ricorderà a lungo questi giorni.
Giorni spaventosi, ma anche bellissimi.

Nei momenti di tregua, in tanti hanno indossato una vecchia tuta, un paio di stivali di gomma e sono andati nelle zone più colpite della nostra città. L’ho fatto anch’io, perché era semplicemente la cosa giusta, eranaturale. Perché mi riusciva impossibile restare a casa sapendo quello che c’era da fare altrove.
In questi giorni di grandi polemiche, mentre in migliaia spalavamo via il fango dalle strade e dai negozi, qualcuno – coi vestiti asciutti e puliti – ha urlato a gran voce che quello che stavamo facendo noi dovevano farlo i militari, le forze dell’ordine, le Istituzioni.
Ma quello che stavamo facendo noi era giusto che lo facessimo (anche) noi. Non era obbligatorio, però era giusto. Dovevamo farlo. Perché è la nostra città, è la nostra terra, è la nostra gente, e perché servivano migliaia di persone per fare quello che siamo riusciti a fare in pochi giorni. I militari, le forze dell’ordine e le istituzioni sono arrivate, ma senza di noi non ce l’avrebbero fatta.

noi eravamo tantissimi.
Noi eravamo le cinque ragazze che si stavano iscrivendo come volontarie nel Municipio e che hanno dovuto chiamare la mamme e passarla all’impiegata, perché erano minorenni.
Noi eravamo i due con la pala che guardavano sbigottiti il signore col pullover azzurro che si risciacquava l’auto con la canna da giardino mentre una pompa idrovora gli svuotava il garage.
Noi eravamo la catena di persone che ha svuotato un magazzino in un’ora e mezza, coprendo trecento metri di passaggi, pezzo per pezzo, fino al container da riempire.
Noi eravamo la piccola rosticceria di via della Libertà che per tutto il giorno ha offerto polli arrosto e patate al forno ai ragazzi che aiutavano nella zona.
Noi eravamo la signora della farinata che ha prestato il bidone aspira-acqua alla parrucchiera della strada a fianco, e Le dica di tenerlo finché le serve, passo a prenderlo poi io domattina.
Noi eravamo la signora col bimbo di cinque anni, che siccome non poteva spalare, ha comprato bottigliette d’acqua e girava con suo figlio per le strade, offrendole a chi aveva sete. Lei le stappava, lui le consegnava.
Noi eravamo quelli che Ragazzi, qui ci sono i panini, dateli solo a chi è sporco di fango; quelli che Ho trovato nel frigo una bottiglia di spumante, beviamocelo, all’una, sul marciapiede, con le pale in una mano e un negozio distrutto davanti agli occhi; quelli che a un certo punto, stanchi e con le ossa rotte, cominciavano a ridere per nessun motivo, con persone sconosciute, sporche e sudate come loro.
Noi eravamo le ragazzine che cercavano di spostare i secchi pieni fango e i ragazzini che correvano a farlo loro, perché è un lavoro da maschi.
Noi eravamo la signora che ha chiesto, nel negozio di colori che stava aiutando a pulire da un’ora, se avevano un paio di guanti Ma li pago, che la borsa non si vede ma ce l’ho! e la discussione surreale tra il negoziante che non voleva i soldi e lei che glieli voleva dare, per poter continuare a pulirgli le pareti.
Noi eravamo i bambini di dieci anni a cui dovevi dare qualcosa da fare perché volevano essere d’aiuto, e lo sono stati.
Noi eravamo la commerciante che piange perché non riuscirà mai a ringraziare tutti quelli che l’hanno aiutata a pulire il negozio, a togliere acqua e fango, e lei nemmeno sa i loro nomi.
Noi eravamo quelli che se trovavano una pala libera si sentivano fortunati perché finalmente potevano spalare da qualche parte.
Noi eravamo quel ragazzo che ha scritto col pennarello verde, sulla maglietta, Non ci meritate, a cui avrei voluto dire che no, non è vero, noi li meritiamo eccome, quei ragazzi. Li merita la città, li merita tutta la gente che è scesa in strada con loro, li merito io e si meritano loro. Ma che, per dimostrare che ce li meritiamo davvero, dovremmo aiutare offrendogli un futuro decente nella terra dove si sono infangati.
Noi eravamo di tutte le età, di tutti i quartieri, di tutti i colori.

Questi giorni sono stati una via di mezzo tra un lutto e una festa, perché noi eravamo parte di qualcosa che, unito, si sentiva invincibile e bellissimo. Lo era, lo è ancora.
Ma adesso non possiamo stare nelle strade ad aiutare, perché sta arrivando. Di nuovo.

Eccolo, lo sento, è qui.

Barbara Fiorio 

 

 
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