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OPERE PUBBLICHE E MODELLO LOW-COST 

Post n°7 pubblicato il 20 Luglio 2008 da claudiofondelli
Foto di claudiofondelli

Appunti per la gestione e la programmazione del patrimonio pubblico

Che relazione ci può mai essere, a parte l’apparente provocazione, tra una filosofia commerciale e la gestione dello spazio pubblico?

Apparentemente nessuna, dato che lo spazio pubblico, l’insieme di strutture fisiche che consentono lo svolgimento delle funzioni fisiologiche di relazione e soddisfacimento dei bisogni, appartengono alla collettività e sono esclusi dal regime di mercato (anche se esistono, almeno per l’esercizio di alcune delle funzioni che su di esso si svolgono, forme di sussidiarità pubblico-privato).

In realtà, dato che la realizzazione e la manutenzione delle strutture che lo compongono richiede l'impiego rilevante di risorse (prevalentemente economiche), riveste una particolare importanza la modalità di definizione delle azioni da intraprendere in fase di programmazione amministrativa ed in tal senso qualsiasi contributo - anche mutuato da discipline diverse, come quelle economiche - in direzione dell'ottimizzazione e della "capitalizzazione" di esse è indubbiamente importante.

In particolare quando si attraversa un periodo storico di recessione come quello attuale, le relazioni che intercorrono tra disponibilità delle risorse e scelte amministrative – dal momento che mai le risorse disponibili si presentano, neanche nelle fasi espansive, come eccedenti rispetto al fabbisogno – assumono una particolare centralità stante il concreto rischio di arretramento rispetto al livello quantitativo e qualitativo delle “opportunità” offerte dalla fruizione degli stessi.

E dunque, porsi l’interrogativo di come conseguire – attraverso la selezione delle opzioni di scelta – il miglior rapporto costi/benefici nella definizione della programmazione delle Opere pubbliche e della manutenzione di quelle esistenti rappresenta non soltanto un approccio corretto sotto il profilo del corretto utilizzo di fondi pubblici ma soprattutto l’opportunità –una delle poche disponibili – per riuscire a conseguire un avanzamento verso nella direzione di politiche inclusive delle diverse componenti, sempre più eterogenee e multiculturali, che caratterizzano la realtà sociale ed economica nella quale viviamo.

In questa prospettiva, contaminare le politiche amministrative con la filosofia commerciale low-cost – essenzialmente finalizzata a consentire l’accesso a beni e servizi ad una platea vasta di consumatori stabilendo una gerarchia dei bisogni (rendendo opzionali e dunque non direttamente concorrenti alla determinazione del costo del servizio, quelli non essenziali) - può rappresentare un’occasione da non trascurare.

Provando una prima ed incompleta trasposizione di tale contaminazione si potrebbe affermare che la programmazione in materia di Opere pubbliche dovrebbe orientarsi, anziché nella definizione degli interventi da effettuarsi per il conseguimento di standard qualitativi programmatici (che tra l’altro nella maggior parte dei casi partono dall’assunto – errato – che gli standard esistenti siano in grado, per il semplice fatto di esistere, di soddisfare efficacemente il bisogno ad essi relativo) nella definizione di una griglia ed una gerarchia dei bisogni che si manifestano all’interno dello specifico ambito amministrativo di riferimento da un lato e nella definizione delle criticità delle strutture esistenti dall’altro.

Si potrebbe cosi definire le priorità degli interventi necessari al mantenimento di un livello adeguato di funzionalità delle strutture esistenti (evitando così processi contraddittori che comportano, a fronte anche di progressi settoriali, un arretramento del livello complessivo della quantità e della qualità dei servizi) da mettere in relazione – dunque essere sottoposto a condizionamento – con le maggiori carenze emerse nella definizione della griglia dei bisogni.

I parole semplici, partendo da un quadro complessivo (da elaborarsi appunto con il medesimo rigore comune in ambito economico) di conoscenza della realtà presente nell’ambito amministrativo di riferimento, si dovrebbe concentrare le risorse in proporzioni progressivamente decrescenti da quegli interventi in grado di coniugare mantenimento e/o implementazione delle funzioni necessarie ad assolvere i bisogni prioritari a quelli interventi che, pur necessari, sono ascrivibili al soddisfacimento di bisogni progressivamente marginali.

Una sorta di piramide rovesciata in cui alla sommità sta la base (rappresentata dai bisogni primari ascrivibili alla maggioranza dei soggetti interessati) ed alla base il vertice (rappresentato dai bisogni marginali ascrivibili alla minoranza dei soggetti interessati).

Probabilmente si tratta di semplice buon senso, di applicazione metodologia di volontà largamente – almeno a livello intuitivo – condivise. Tuttavia un maggior rigore, un maggior coinvolgimento di saperi specialistici e complementari nella definizione dei programmi in materia di Opere Pubbliche e nella manutenzione del patrimonio esistente rappresenta – con particolare riferimento al contesto socio-economico attuale – un punto ineludibile per chiunque si proponga di attuare politiche, se non inclusive, almeno eque.

 
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APPUNTI PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO [3]

Post n°6 pubblicato il 05 Maggio 2008 da claudiofondelli

[estratto dalla relazione alla conferenza degli eletti 2007 della Federazione di Arezzo del PRC]

L’edificazione del suolo

Non c’è dubbio che la forte spinta edificatoria che ha caratterizzato e continua a caratterizzare anche la nostra provincia rappresenta uno dei maggiori fattori di depauperamento delle risorse (a partire dal suolo), di crisi ambientale (per l’eccessiva impermeabilizzazione di vaste aree di suolo, per la concentrazione di elementi inquinanti, congestione del traffico, etc.) e soprattutto di disuguaglianza, in quanto se da un lato le plusvalenze derivate dal processo edificatorio risultano quasi esclusivamente ad appannaggio dei soggetti economici promotori e dei proprietari delle aree edificabili è altrettanto vero che dall’altro i costi di gestione della città (proporzionali alla sua crescita e dunque in costante incremento) risultano a carico dell’intera collettività alla quale, ogni volta che la città incrementa la sua dimensione non proporzionalmente al fabbisogno (leggasi investimenti immobiliari e immobili sotto utilizzati o non utilizzati affatto), viene sottratta una quota significativa di risorse che vengono impiegate per la gestione e la manutenzione delle infrastrutture e delle reti, anziché ridistribuite sotto forma di servizi ed agevolazioni per le fasce sociali più deboli. La “cementificazione”  dunque, se non effettivamente connessa al soddisfacimento di un bisogno, rappresenta soltanto un costo che la comunità si assume per la crescita economica di pochi.

 Tuttavia tale processo si è così fortemente manifestato e consolidato non soltanto per una cultura amministrativa e politica superficiale (quando non illegittimamente interessata) che ha visto la cementificazione del suolo come motore di sviluppo e crescita economica, ma anche per le sempre crescenti difficoltà economiche in cui gli enti locali si sono trovati e che hanno visto negli introiti degli oneri di urbanizzazione derivanti dall’edificazione del suolo un’entrata in grado di controbilanciare l’aumento dei costi e dunque di consentire il mantenimento dei servizi e delle attività amministrative, a partire dalle opere pubbliche, indicate nei mandati elettorali.

 Se è certo che tale processo, di fatto, rappresenta soltanto una posticipazione ad alto tasso d’interesse delle risorse oggi incamerate con gli oneri (in incremento dei costi manutentivi e gestionali futuri) che deve dunque essere superata, è altrettanto evidente che occorre procedere con un’azione progressiva, non traumatica, che consenta comunque all’ente di invertire tale tendenza senza però  dover rinunciare alla qualità ed alla quantità dei servizi erogati ed ai soggetti economici privati di orientarsi sulla trasformazione e riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, rispetto alla nuova edificazione del suolo come avviene attualmente.

 Tale obbiettivo potrebbe essere raggiunto agendo su due distinti fronti; da un lato riducendo le quote di nuova edificazione degli strumenti urbanistici e conseguentemente la quota di oneri da destinare alle spese correnti di bilancio ed introducendo in essi il principio della perequazione (di seguito trattata) e dall’altro operando con scelte di indirizzo che consentano il reperimento di risorse diverse da quelle derivanti dagli oneri di urbanizzazione, anche attraverso azioni come quelle indicate nel successivo paragrafo (la politica abitativa e dei servizi).

Inoltre, nei casi dove risulta complessa e difficoltosa la limitazione delle nuove quote edificatorie (come in presenza di strumenti urbanistici già vigenti o  in mancanza di una larga condivisione di tale obiettivo), per limitare un eccessivo scostamento tra fabbisogno abitativo e patrimonio edilizio edificato o in corso di edificazione (che come prima evidenziavo rappresenta un costo per la comunità in termine di gestione e manutenzione delle reti e delle infrastrutture) potrebbe essere opportuno introdurre negli strumenti urbanistici (Regolamento urbanistico in particolare) il principio dell’attuazione delle previsioni edificatorie per fasi successive, ovvero subordinate al conseguimento di determinati livelli di soddisfacimento da monitorare attraverso verifiche ex-post periodiche (introducendo un limite minimo di utilizzo effettivo del patrimonio edilizio - a titolo esemplificativo si può ipotizzare non inferiore all’80% - da conseguirsi quale presupposto per prevedere l’attuazione di una nuova quota edificatoria - sempre a titolo esemplificativo ipotizzabile nell’ordine del 20-30% della previsione complessiva).

In merito ai criteri da adottare  per l’individuazione delle aree soggette a trasformazione urbanistica da inserire nel Regolamento Urbanistico, potrebbe essere opportuno ricorrere alla metodologia dell’Analisi di Soglia (ideata da j. Kozlowski e sperimentata in Italia da F. Forte ed altri) o di altra metodologia analoga che dia priorità a quelle previsioni il cui costo di attuazione risulta complessivamente meno oneroso, rispetto alle altre opzioni possibili, per la collettività (in sintesi che sia dato priorità alla trasformazione delle aree libere prossime a quelle attualmente urbanizzate ed in particolare a quelle contigue agli ambiti il cui ampliamento risulta possibile senza interventi significativi sulla rete viaria e sulle reti dei servizi).

Merita inoltre un approfondimento il principio della perequazione urbanistica, recentemente introdotto dalla legislazione regionale (ma già presente e praticato da un decennio in altre regioni, quali l’Emilia Romagna), la cui peculiarità principale è quella di ridistribuire la rendita tra tutti i soggetti interessati dalla trasformazione urbana e non soltanto tra i proprietari delle aree edificabili, oltre che – più utilmente – ottenere come contropartita ai diritti edificatori concessi la cessione non onerosa delle aree necessarie per attuare le previsioni urbanistiche di interesse pubblico, quando non addirittura la realizzazione stessa delle infrastrutture e delle reti.

Anche se risulta evidente che far dipendere l’acquisizione delle aree e la realizzazione di infrastrutture e reti dall’attuazione di quote di nuova edificazione significa correre il rischio, concreto, di innescare una spirale di crescita urbana incontrollata, assolutamente deleteria  (occorre dunque prestare particolare attenzione all’applicazione di tale principio) la sua applicazione resta tuttavia necessaria, nel quadro normativo esistente, per evitare di incorrere in alcuni rischi quali l’indennizzo ai proprietari delle aree per mancata attuazione della previsione pubblica (vedi paragrafo successivo la politica abitativa e dei servizi) e perchè, se utilizzato intelligentemente, può invece rappresentare un effettivo strumento di redistribuzione indiretta di parte del plusvalore derivante dalla rendita fondiaria a tutta la collettività.

In sintesi, se il principio perequativo generalmente si attua attribuendo una parte della quota edificatoria alle aree di piano destinate ad usi pubblico e compensando il proprietario che le cede con una parte del plusvalore derivante dalla loro vendita, estendendo la distribuzione dei diritti edificatori proporzionalmente su l’intera area omogenea (Utoe) di piano, interessando anche le aree pubbliche esistenti (verde, impianti sportivi, scuole, etc.) l’Amministrazione Comunale sarà detentrice di una determinata quantità di quote edificatorie che potrà successivamente cedere (attraverso l’espletamento di una gara di evidenza pubblica) capitalizzando in termini monetari il valore delle medesime (azione legittima in quanto tali aree concorrono a formare gli standard urbanistici per l’edificazione del suolo), ovvero incamerando direttamente parte del plusvalore derivante dalla rendita fondiaria senza aggravio per l’acquirente finale (in quanto il prezzo di vendita è fissato dal mercato e dunque indipendente dai costi sostenuti dall’imprenditore).

 
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APPUNTI PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO [2]

Post n°5 pubblicato il 12 Aprile 2007 da claudiofondelli

[estratto della relazione alla conferenza degli eletti 2007 della Federazione di Arezzo del PRC]    

La politica abitativa e dei servizi

Una politica abitativa, così come dei servizi, attenta ai bisogni delle fasce sociali più deboli, in grado di superare o quantomeno mitigare le sempre più marcate differenze, in sintesi inclusiva, rappresenta uno dei principali obbiettivi che una forza politica come la nostra deve porsi.

Un obbiettivo il cui conseguimento non può però prescindere dalla disponibilità delle risorse economiche degli enti locali, oggi largamente insufficienti anche al mero mantenimento quantitativo e qualitativo delle infrastrutture  e dei servizi esistenti.

Efficaci politiche abitative e dei servizi non si conseguono semplicemente inserendo negli strumenti urbanistici specifiche previsione come i comparti di edilizia economica e popolare (che comunque rischierebbero di trasformarsi in una sorta di “ghetto”, come molti casi di Peep realizzati testimoniano) o nuove strutture per servizi culturali e sociali pubblici se non in presenza di risorse economiche certe, perchè quelle previsioni rischierebbero non soltanto di rimanere esclusivamente su carta, ma rappresenterebbero un costo certo per l’amministrazione pubblica nel breve periodo (dunque un depauperamento di risorse) in quanto le previsioni urbanistiche che prevedono una destinazione pubblica di un’area, se non attuate nei cinque anni successivi dalla loro approvazione (leggasi acquisizione delle aree), comporteranno un indennizzo a favore della proprietà interessata per l’inutilizzo a cui è stata sottoposta (cfr. Sentenza della Corte di Costituzionale 20 maggio 1999 n. 179 e art. 39 del T.U. in materia di espropriazioni).

Porsi dunque l’obbiettivo di conseguire un miglioramento della qualità abitativa e dei servizi, con particolare riferimento alle fasce di popolazione svantaggiate, significa innanzitutto porsi il problema del reperimento delle risorse che non ritengo possano, al momento attuale, derivare da un innalzamento del livello di pressione fiscale o tributaria.

Di seguito proverò ad indicare alcune possibili opzioni praticabili, nessuna delle quali è in grado da sola di incidere significativamente sul versante delle risorse, ma assieme, in un mix diversamente dosato sulla base delle specificità che caratterizzano l’ambito di riferimento, possono rappresentare un valido supporto, in termini di risorse acquisite o liberate, a sostegno di politiche abitative e sociali inclusive e redistributive.

Differenziare il trattamento tributario (ICI) tra il patrimonio immobiliare destinato alla residenza stabile (prima casa) e quello per altri usi od investimenti (contenendo l’aliquota della prima ed innalzando ai valori prossimi al limite massimo previsto dalla legge per gli altri casi) e soprattutto istituendo ed  aggiornando un catasto dei fabbricati e delle aree edificabili, al fine di recuperare il mancato gettito derivante da evasione o elusione fiscale (spesso diffusa, con particolare riferimento alle aree edificabili).

Introdurre il principio della perequazione urbanistica (vedi paragrafo precedente, l’edificazione del suolo)

Attivare politiche di marketing territoriale ed urbano tese a promuovere e valorizzare le specificità del proprio territorio e le produzioni locali, attirando così risorse esterne che potranno essere investite con benefici economici diretti, per singoli soggetti o imprese, ed indiretti in termini occupazionali e di gettito fiscale e tributario.

Nei comuni di ridotte dimensioni passare progressivamente da un modello di servizi (scolastici, sportivi, socio-sanitari, culturali, ricreativi, etc.) su base locale ad un modello sovraccomunale o di area, differenziando l’offerta dei medesimi e compartecipando alla loro gestione, ottimizzando così, a parità di risorse impiegate, le spese gestionali e manutentive, dunque liberando risorse da destinare al loro potenziamento.

Coordinare ed integrare le politiche di governo del territorio con la programmazione delle opere pubbliche in particolare superando il concetto di manutenzione passiva (finalizzata al ripristino delle originali funzioni dell’infrastruttura o della rete) a favore di una manutenzione attiva (capace al tempo stesso, oltre a ripristinare la funzionalità originale, di implementare gli usi e qualificare lo spazio urbano).

Favorire, per soddisfare il fabbisogno abitativo accertato, la trasformazione del patrimonio edilizio esistente, la sua implementazione e l’edificazione dei vuoti urbani (aree di saturazione e completamento – zone B ai sensi del DM 1444/68) rispetto alla nuova edificazione, che consente di liberare risorse (oneri di urbanizzazione) da impegnare per la manutenzione ed il potenziamento delle reti infrastrutturali, degli spazi urbani e dei servizi. Risorse che, nel caso di un piano urbanistico che privilegia la nuova edificazione, verrebbero in larga misura assorbiti per la realizzazione di nuove reti ed infrastrutture a servizio delle aree di espansione (zone C ai sensi del DM 1444/68), con l’ulteriore incognita di portare al collasso il sistema infrastrutturale e delle reti esistente (con ulteriori e successivi costi da sostenere). Processo che può essere favorito anche attraverso politiche di governo del territorio che, pur tutelando il patrimonio di valore storico ed artistico, evitino una rigida ripartizione degli usi e delle funzioni consentite all’interno del patrimonio immobiliare.

Consentire la trasformazione del patrimonio edilizio pubblico (spesso collocato in aree semi-centrali di pregevole valore), anche prevedendo il suo ampliamento, non escludendo la sinergia con risorse economiche ed operatori privati (da compensare con la parziale cessione del patrimonio) e consentendo al suo interno l’introduzione di funzioni diverse da quelle residenziali. Tale azione consentirebbe, oltre alla qualificazione del patrimonio, di soddisfare parte del fabbisogno abitativo (frequentemente tale patrimonio risulta fortemente sotto utilizzato in quanto progettato e realizzato per nuclei familiari di composizione sensibilmente diversa da quella attuale, dove prevale la coppia senza figli o con un figlio, la coppia o l’anziano singolo, etc.), consentendo così un utilizzo più efficace e razionale, oltre che funzionalmente e socialmente più integrato.

Procedere con una mirata dismissione di aree pubbliche non utilizzate o difficilmente utilizzabili, palesemente non funzionali rispetto agli usi a cui sono destinati, come nel caso di micro-aree marginali presenti in numerose aree lottizzate tra gli anni ’60 e ’90. Aree che potrebbero, prima della dismissione, essere riconvertite in micro-lotti edificabili (senza dunque incidere, date le ridotte dimensioni, significativamente sul carico urbanistico dell’area) che consentirebbero di conseguire a costo zero la riqualificazione di spazi spesso degradati quando non abbandonati e di introitare a favore dell’ente il plus-valore derivante dall’edificabilità del suolo.

 
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APPUNTI PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO [1]

Post n°4 pubblicato il 12 Aprile 2007 da claudiofondelli

[estratto della relazione alla conferenza degli eletti 2007 della Federazione di Arezzo del PRC]

La struttura amministrativa

L’insufficienza delle strutture tecnico-amministrative degli enti locali (in particolare nei comuni con popolazione inferiore a 10.000 ab.) rappresenta uno dei principali limiti ad un’efficace azione di governo del territorio. Tale carenza, strutturale e non contingente (ovvero non determinata dal nuovo quadro normativo regionale in materia – LRT 1/2005), si è particolarmente acuita nell’ultimo decennio in conseguenza della frammentazione e della proliferazione degli adempimenti in materia edilizia ed urbanistica, nonché dall’introduzione delle procedure edilizie semplificate (DIA) che se da un lato hanno ridotto i tempi di rilascio delle autorizzazioni inerenti l’attività edilizia hanno dall’altro aumentato gli adempimenti della pubblica amministrazione in termini di azioni di accertamento preventivo sottoposti a tempi prestabiliti non posticipabili (15 gg. dalla presentazione dell’istanza è il tempo massimo per effettuare le verifiche di legge da parte del responsabile del procedimento) che determinano un ordine di priorità non dipendente dal programma amministrativo ma dalla consistenza delle istanze edilizie presentate.

La mancanza di un’adeguata struttura tecnico-amministrativa inoltre non comporta solamente ritardi o inadempienze nell’espletamento dell’iter amministrativo di formazione degli strumenti urbanistici, ma soprattutto non consente un’adeguata azione di controllo e gestione nell’attuazione delle previsioni degli strumenti urbanistici, compromettendo spesso il raggiungimento degli obbiettivi fissati e dunque l’efficacia dell’azione amministrativa.

Si può portare ad esempio esplicativo l’iter di approvazione di un piano particolareggiato, Piano di Lottizzazione o altro, di iniziativa privata; sensibilmente diversi saranno i risultati ottenuti nel caso in cui la struttura tecnico-amministrativa si limiti, per mancanza di risorse e personale, ad una mera verifica formale del rispetto delle norme e della legislazione in materia, oppure svolga un ruolo di carattere compartecipativo nella definizione dei contenuti del medesimo (contrattazione delle caratteristiche formali e tipologiche degli spazi pubblici, definizione dei materiali da impiegare, etc.).

Considerando i limiti di spesa ai quali la pubblica amministrazione è sottoposta è palese che difficilmente si potrà sopperire alle carenze presenti nelle attuali strutture tecniche-amministrative, come difficilmente sarà possibile colmare tali deficit attraverso la sola esternalizzazione della redazione degli strumenti urbanistici, sia perché la fase di elaborazione del piano è soltanto una delle componenti del processo di gestione del territorio, sia perché la mancanza di raccordo tra le strutture di gestione e quelle di elaborazione degli strumenti urbanistici può comportare difficoltà e contraddizioni nella fase gestionale.

Se un piano urbanistico di mediocre o pessima qualità può comunque produrre dei buoni risultati a fronte di una gestione accorta del medesimo è altrettanto vero che un piano urbanistico, per quanto di alto profilo, non produrrà alcun risultato positivo se gestito in maniera inadeguata.

Una prima risposta che consenta di qualificare l’azione della pubblica amministrazione può consistere nel cercare di implementare la struttura tecnico-amministrativa dell’area tecnica e se possibile dividerla in due settori, il primo che si occupi dell’attività edilizia ed il secondo di quella urbanistica (anche attraverso la formazione di strutture di carattere sovraccomunale, in particolare nel caso dei piccoli comuni), con personale e strumentazione distinta e, possibilmente con locali separati. L’obbiettivo da conseguire sarebbe quello di strutturare un settore che operi come un “ufficio di piano”, ovvero svolga direttamente sia la fase di elaborazione che quella di gestione degli strumenti urbanistici, affidando esternamente la funzione di coordinamento della fase elaborativa (attraverso il ricorso a profili professionali specializzati) raggiungendo così il duplice obbiettivo di garantire un adeguato livello qualitativo del piano e di qualificare/formare e coinvolgere il personale interno motivandolo e preparandolo adeguatamente a svolgere la fase gestionale.

Se indubbiamente il personale degli enti locali rappresenta un’importante risorsa spesso sotto utilizzata, quando non demotivata, è altrettanto vero che, in particolare nei comuni di medie e piccole dimensioni, non è possibile demandare interamente alla struttura interna tutte le responsabilità e gli adempimenti tecnici ed amministrativi e conseguire contestualmente un innalzamento dell’efficienza e della qualità della loro azione (sia in ambito Edilizio - Urbanistico che dei Lavori Pubblici). Occorre necessariamente procedere con la loro qualificazione attraverso mirate occasioni di formazione ed aggiornamento professionale e con l’interazione con professionalità di rilievo (a cui affidare compiti di coordinamento) che favoriscano lo scambio di metodologie e conoscenze, come dotarsi di “strutture di service” (rapporto a carattere convenzionale con tecnici esterni) temporanee, che instaurando un rapporto di carattere non continuativo non comportano una spesa significativa (non si tratta, tra l’altro, di lavoro precario, essendo rivolto a categorie economiche – i professionisti – che operano per obbiettivi) che si occupino di redigere materialmente la documentazione tecnica necessaria o quantomeno di contribuire significativamente ad elaborarla integrando, senza sostituire, il personale dipendente.

Nel merito della tempestività e dunque dell’efficacia di un processo di riorganizzazione, sul modello di quella sopra indicato, in una fase in cui buona parte delle amministrazioni comunali si sono già dotate del Piano Strutturale, quando non anche del Regolamento Urbanistico, credo sia  importante rilevare che la suddivisione del Piano Regolatore Generale in due strumenti distinti, il primo di programmazione – il Piano Strutturale – ed il secondo di attuazione – il Regolamento Urbanistico – consente di incidere in misura qualitativamente rilevante anche in presenza del primo (che comunque può essere sempre sottoposto a variante), agendo sul secondo e sugli altri atti di governo del territorio quali i piani complessi d’intervento, i piani e programmi di settore, gli accordi di programma, etc. (tutti atti di esclusiva competenza dell’amministrazione comunale e dunque facilmente modificabili), in quanto la mera previsione urbanistica non produce effetti concreti se non all’atto della sua attuazione.

Relativamente al rischio di essere ancor più sottoposti alle pressioni di interessi particolari, a seguito della maggiore autonomia locale introdotta dalla legislazione regionale, credo che questi siano connessi alla alta redditività prodotta dalla trasformazione del suolo a prescindere dalle competenze riservate ai diversi livelli amministrativi (comuni, province o regione). Una maggiore centralità ed autonomia degli enti locali, rispetto ai livelli amministrativi di secondo livello, se può rappresentare un fattore potenziale di rischio per il minor controllo esercitabile da parte di essi (controllo, ad onor del vero, mai efficacemente ed omogeneamente esercitato fino ad oggi), può rappresentare anche l’opportunità di un governo del territorio meno eterodiretto (in fondo il controllo delegato agli enti superiori era pur sempre un controllo politicamente molto influenzato) e più consapevole da parte della comunità amministrata, a condizione che si promuovano significative azioni partecipative in fase di formazione degli strumenti urbanistici ed, in ogni caso, in occasione delle principali scelte di carattere amministrativo dell’ente.

 
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MINIMO COMUNE DENOMINATORE

Post n°3 pubblicato il 10 Settembre 2006 da claudiofondelli
Foto di claudiofondelli

[appunti per la programmazione urbanistica]

Nel processo di formazione di uno strumento urbanistico (Piano Strutturale e Regolamento Urbanistico) il dimensionamento (qui inteso come la stima del fabbisogno insediativo per l’arco temporale di efficacia dello stesso) rappresenta indubbiamente uno degli aspetti più complessi e discutibili della sua formazione.

Complesso perché ad oggi nessun procedimento di stima è stato univocamente adottato dalla comunità tecnico-scientifica; discutibile perché dipendente anche dalle aspettative della comunità locale di riferimento e delle istituzioni che la rappresentano come, è utile ricordarlo, da interessi economici, talvolta particolari.

Non è un caso se ad oggi nessuna legislazione vigente in materia, nazionale o regionale, sia mai entrata nel merito – disciplinandola – alla modalità di stima del fabbisogno insediativo limitandosi, nei casi più avanzati, all’introduzione del rispetto di una soglia di sostenibilità, attraverso la valutazione ex-ante degli effetti ambientali delle trasformazioni previste.

Certo è che la materia risulta particolarmente complessa e non può rappresentare una soluzione al problema né il rispetto della soglia di sostenibilità da un lato (perché indipendentemente dalla sostenibilità dei nuovi insediamenti, l'antropizzazione del territorio è costosa, sia in fase di realizzazione che nella gestione e manutenzione) e neppure la rinuncia aprioristica di nuove antropizzazioni dall’altra (perché i bisogni mutano nel tempo, influenzati dal modificarsi del contesto socio-economico e culturale - basti pensare a come negli ultimi cinquant’anni è mutata la composizione dei nuclei familiari - e non soddisfarli può portare ad un declino di quell’ambito territoriale).

Se dunque si può concordare sulla necessità di prevedere, nella redazione di un nuovo strumento urbanistico, un fabbisogno insediativo non soddisfabile con l’utilizzo o la trasformazione del patrimonio edilizio esistente (anche perchè, almeno fino a quando saranno facilmente reperibili aree libere da edificare in ambiti territoriali contigui, in molti casi non è sostenibile economicamente – ovvero non competitivo sul mercato – adeguare ai nuovi usi tale patrimonio o procedere alla sua demolizione e ricostruzione) e che per la sua quantificazione di tale fabbisogno non è possibile utilizzare un procedimento o un metodo puramente analitico, ritengo altresì concordabile che una trasformazione antropica (qui intesa come l’attuazione di una previsione edificatoria o di parte di essa) è necessaria soltanto quando questa soddisfa un bisogno effettivo e adeguata soltanto quando questa lo soddisfa sostenendo il minore dei costi possibili tra le diverse opzioni di scelta.

Quello sopra esposto, ritengo,  può rappresentare un principio, minimo comune denominatore, da applicare alla formazione di ogni strumento urbanistico affinché questi sia riconoscibile - a larga maggioranza - come efficace ed adeguato al contesto ed all’ambito territoriale al quale si riferisce;  si tratterà casomai di capire come questi trovi cittadinanza nei suoi contenuti.

Per ad uscire dal piano teorico, provo ad avanzare una possibile metodologia, più che perfettibile.

Assodato che, per le ragioni precedentemente espresse, non è il processo di formulazione delle previsioni (qui inteso come il dimensionamento del Regolamento Urbanistico) l’ambito sul quale agire, ritengo invece sia possibile intervenire sull’impianto normativo (Norme Tecniche), introduciendo dei processi di verifica ex-post ai quali subordinare le azioni di trasformazione (più esattamente parte di esse) previste dallo strumento stesso (del resto non vi è dubbio che a produrre effetti, positivi o negativi a seconda dei casi, non sono tanto le previsioni, benché ne rappresentino il presupposto indispensabile, ma la loro attuazione).

In estrema sintesi si tratterebbe di procedere all’attuazione delle previsioni per soglie progressive subordinando l’attuazione di quelle successive alla prima al conseguimento di parametri fissati.

Basterebbe infatti non consentire l’attuazione contemporanea di tutte le previsioni edificatorie del Regolamento Urbanistico ma soltanto una quota di esse (quantificabili, in ipotesi, in una frazione corrispondete all’incremento di un punto percentuale della popolazione residente o delle attività produttive o commerciali insediate, comunque riferita a comparti edilizi) e subordinare l’attuazione di  successive quote di eguale entità al conseguimento dell’utilizzo effettivo minimo (da monitorarsi dunque incrociando i dati sulla residenza ed iscrizione a ruolo delle imprese) dell’80% (considerando la quota del 20%, più che abbondante, come inutilizzo fisiologico per rotazione o utilizzo parziale) ed alla verifica della sussistenza dei corrispettivi standard urbanistici fissati dal piano (ovvero all’effettiva realizzazione, collaudo ed acquisizione delle opere di urbanizzazione, primaria e secondaria, relative).

Sul piano giusurbanistico si tratterebbe semplicemente di introdurre, a livello di Regolamento Urbanistico, una specifica norma di attuazione di carattere generale senza la necessità, dunque, di dover escludere da esso parte delle previsioni contenute nel Piano Strutturale e dunque senza la necessità di procedere con successive modifiche allo strumento stesso per inserire quelle aree escluse, in prima istanza, da processi edificatori.

 Relativamente alla scelta dei criteri con cui stabilire l’ordine di trasformazione delle diverse aree (prendendo quale unità di rifermiento il comparto edificatorio) previste dallo strumento urbanistico, considerando che è comunque necessario consentire più opzioni di scelta (sia per limitare fattori di influenza esterni sull’attuazione del piano, come la difficoltà di attuazione di un comparto a causa della non volontà dei proprietari - che costringerebbero ad un frequente ricorso a procedure espropriative - che per evitare il crearsi di ingiustificate posizioni di monopolio) si potrebbe ipotizzare il raggruppamento dei comparti edificatori in macrogruppi sulla base dei costi necessari alla loro attuazione mutuando, in forme semplificate, la metodologia dell’analisi di soglia ideata da J. Kozlowski e sperimentata in Italia da F. Forte ed altri.

In tal modo risulterebbe possibile soddisfare tutti i bisogni insediativi effettivi (al momento del loro manifestarsi) senza ritardi o nuovi e costosi procedimenti amministrativi (già nel primo Regolamento Urbanistico sarebbero contenute le norme e le procedure per l’attuazione differita delle previsioni, senza dover dunque ricorrere a successive varianti) evitando al contempo il manifestarsi di fenomeni di squilibrio nell’uso del suolo (come nel caso in cui, per eccesso di “offerta” edificatoria, si manifesta un marcato sottoutilizzo - edificazione parziale - delle aree interessate dalla trasformazione, a fronte dell’intera realizzazione delle infrastrutture previste e dimensionate sulla base del massimo carico urbanistico) che comporterebbero, oltre allo “spreco” di suolo (in termini di rapporto abitanti/territorio antropizzato), alti costi per la comunità (per gli evidenti squilibri tra risorse – in termini di oneri e contribuenti – e costi di realizzazione, gestione e manutenzione del patrimonio e delle infrastrutture pubbliche).

E’ evidente che una edificazione non equilibrata (qui intesa come scorretto rapporto tra suolo utilizzato e fabbisogno effettivamente soddisfatto) rappresenta, al di là degli apparenti vantaggi derivanti dall’incameramento degli oneri di urbanizzazione, un debito economico e sociale che le amministrazioni successive (considerando il già precario equilibrio finanziario degli enti locali è ipotizzabile che gli effetti negativi si manifestino già dopo 5-6 anni) saranno ineluttabilmente chiamate a saldare.

 
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