Parole messe lì...

Di quella volta che il Gladiatore salì sull'Apollo 13.


Come spesso ti ho detto, i numeri mi hanno sempre creato diversi casini. A scuola, intendo. Oddio..anche ora, quelli sull’estratto conto, non è che mi facciano essere troppo felice, per la verità, ma insomma. E’ che proprio io e i numeri non ci stiamo simpatici. I numeri non sono come le parole, i numeri hanno forme strane, simboli strani. I numeri li scrivi e poi comandano loro. Ricordo alle superiori, la mia professoressa di matematica, persona squisita e di una simpatia travolgente, anche se aveva scelto di insegnare una materia infame. Ricordo che durante le lezioni, mi guardava sempre mentre spiegava. Lei lo sapeva che non capivo un cazzo, nonostante fingessi una attenzione che in realà ero ben lungi dall’avere. Ogni tanto, durante il compito, passava tra i banchi e quando arrivava a me, mi dava due pacche nel collo come si fa con un buon cane da caccia, che per quanto intelligente possa essere, a certe cose proprio non ci arriva. Alle elementari invece, credevo di aver capito tutto. Credevo che i numeri fossero la cosa più semplice del mondo. E quello che mi aveva fatto credere ciò, era: sei per sei trentasei e sei per otto quarantotto. Capisci? Era semplice. Era tutto in rima. Per cui, mi inventavo risultati improbabili, convinto che bastasse fare la rima. Tipo: nove per otto? Sessantotto. Cinque per due? Ventidue. Sette per quattro? Trentaquattro. Ci volle un po’ per farmi capire che non era esattamente così. Era giugno. Una di quelle mattine di giugno che ti viene da pensare che forse Dio esiste veramente. Una di quelle mattine quando il sole si infila dappertutto, quando ovunque volgi lo sguardo, vedi riflessi arancioni. Mi ero alzato con quella sensazione che oggi si chiama “farfalle nello stomaco”…a quei tempi non aveva un nome e forse era meglio così. Certe sensazioni non vanno spiegate, non gli si deve trovare un nome. Certe sensazioni vanno solo vissute.  Il corridoio sembrava più lungo e più stretto del solito. Neanche i riflessi arancioni lo facevano sembrare meno austero. Andai subito con lo sguardo verso la parte alta del foglio, che se hai un cognome che inizia per “c” la tua vita scolastica sarà sempre nella parte alta del foglio. Presi fiato e misi a fuoco. Maturo. Ero maturo. Maturo come un’albicocca arancione, arancione come i riflessi del sole. Tornai indietro, lasciando le farfalle al loro destino e assaporando una contentezza che in futuro difficilmente avrei provato di nuovo. A metà corridoio incontrai la professoressa di matematica. “Sei contento, Giannino?” “Tanto, professoressa. Grazie”. “Ed ora che farai?” “Ora basta. Smetto. Ci sarà da fare un po’ di guerra con i miei, ma smetto”. Lei sorrise: “l’importante è che io non ti trovi a lavorare in banca dove ho i risparmi”. Arrivato a casa, i miei chiesero: “allora? Com’è andata?” “Bene” dissi io. Mio babbo guardò mia mamma e le disse: “al mio segnale scateniamo l’inferno”. Io pensai: “Houston, abbiamo un problema”. Il resto è storia relativamente recente.