Diario di Tig.

Post N° 8


L’oblio del bene Nelle epoche di crisi, transizione e confusione di elementi positivi e negativi, non si sa più – si lamentano tutti – “ cosa è bene e cosa è male”. Però chi ancora lo sa viene chiamato “vecchio”, e biasimato o ridicolizzato. In queste epoche si scambia il nuovo con il buono e l’antico con il cattivo, confondendo nuovo e attuale (= ciò che è valido sempre) antico e vecchio. Il bene diventa un “ cui prodest”, ciò che giova a qualcuno, e pochi si sognano di pensare che il vero bene, oltre che in profondità desiderabile e attraente, sia sempre meno impegnativo, faticoso e spesso anche doloroso. Il vero bene. Ciò accade perché, appunto, il bene si separa dal vero, e anche dal bello (ridotto a gusto individuale arbitrario), e perciò non traluce più, nel bene, l’essere. Il bene diventa erratico, vagabondo, compare, scompare qui, là, assume l’evanescenza di un miraggio, tanto più rabbiosamente inseguito quanto meno effettivamente posseduto. A queste purtroppo ben verificabili considerazioni, si deve aggiungere un corollario importantissimo. Il buono e il bello nell’esperienza umana di tutti i tempi (fino ad oggi), e nel linguaggio filosofico e artistico sono intimamente uniti, anche etimologicamente. Il biblico tòb (>), il bello-buono dei Greci (Kalos Kai agathos), lo testimoniano, come in latino la metamorfosi reciproca dei due valori (bonus-bonulus-benulus-benlus-bellus ). L’eclissi del bello, perciò, e quella del bene, non possono che implicarsi reciprocamente, e produrre risultati comuni. Poiché nelle epoche di crisi, più del solito, “tutti”, come dire la famosa battuta “ pensano a sé, e solo io penso a me”, il bene, diventato il “ mio” bene, perde letteralmente l’essere universale e integrale, non esiste più se non come illusione. Nella centrifugazione della concretezza dell’essere (vero-buono-bello) diventa non vero, cioè falso, e non bello, cioè brutto. Una cosa falsa e brutta e propriamente ripugnante, e tale purtroppo appare il “bene” sbandierato dalla pubblicità, dalla moda, dal costume prevalente e repressivamente dominante. Ripugnante perché individualizzato egoisticamente, deformato esteticamente, distorto moralmente. Anzitutto questo “bene” impone il primato della vita fisica, identificata senz’altro con la Vita (se qualcuno continua a vedere la differenza viene considerato un marziano): fitness, “qualità della vita”, culto di una bellezza-benessere meramente epidermica; che si rovesciano però, con logicissimo paradosso, nel loro contrario, cioè nella cultura della morte: favore di opinione nei confronti dell’aborto, dell’eutanasia, della manipolazione genetica senza regole, della denatalità, e persino spirito suicidario (se non riesco a vivere come voglio io, mi ammazzo) sono nient’altro che l’effetto rovesciato ma, costatiamolo, logicissimo, del primato della vita fisica. Poi ci sono gli effetti diretti: la pavidità, che è la mancanza del coraggio di rischiare, all’occorrenza, la vita fisica divenuta valore assoluto; e la pigrizia spirituale, un tempo chiamata ignavia o accidia, con parole che oggi non sono popolari, e che produce effetti disastrosi ma poco immediatamente visibili, tanto che gli interessati dal fenomeno sono definiti in genere “brave persone”. Pavidità e pigrizia formano il grosso di quello che gli psicologi giustamente definiscono il complesso di Peter Pan, cioè il rifiuto di crescere. Il quale a sua volta genera il rifiuto del matrimonio, o la fuga da esso, con le sue conseguenze (ultima la proposta involontariamente umoristica, ma ricca di futuro, del matrimonio a termine. Due anni, cinque anni, dieci – ma già son troppi). Come ulteriore conseguenza, la singleness (è un neologismo?), la scelta/moda di essere e fare il single, manna per psicoterapeuti e supermercati. Tutto ciò muove una potente spinta al consumismo, già tecnologicamente dominante, sull’ala di quella che il biblico libro della sapienza definisce “fascinatio nugacitatis”, seduzione della frivolezza e dei vizi che ne derivano. Ma un mondo in cui il bene, dissociato, si muove come una scheggia impazzita o se si preferisce una variabile indipendente (dal bene universale e comune), non che organizzarsi in base a una sola, selvaggia, legge: quella dell’ economicismo e del politicismo amorale: tutto è denaro, tutto è potere. Allora cadremo davvero nell’irrimediabile sconforto, sentiremmo con struggente sofferenza di essere minacciati alle radici stesse della vita, e non solo per non poter condividere il “nostro” bene con quelli altrui; ma proprio per non sapere più cosa è bene e cosa è male: per non potere neppure sbagliare, e correggerci…; se a questo punto ci rivolgessimo seriamente e intensamente a quel bene che nessun “bene” falso e brutto può sostituire, surrogare, simulare. Quel bene è l’essere di cui è autore l’Essere, Dio. Infatti il bene diventa male quando perde il suo rapporto con l’essere diventato un bene che non è, un falso bene. Come accade al pessimismo moderno su cui fonda l’ingratitudine disperata del costume materialista e consumista, che non riconosce il bene come dono di Dio. La scelta del bene è la più ardua e la più spiacevole al momento storico che viviamo, non dà ne vantaggi materiali né gratificazioni psicologiche di superficie, non garantisce né fama né onore, spesso il contrario. Ma, guidata dalle correlate vocazioni al bello e al vero, è l’unica che, pacificando la coscienza in tutta la sua profondità, dimostra, anche a chi ne farebbe a meno, di averne una.