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« Messaggio #76 MANIFESTAZIONE DEL 21 APRILE »

Post N° 77

Post n°77 pubblicato il 13 Aprile 2007 da frickpeace

Sequestro Pinna: appello Croce Rossa Italiana


Sassari 13-04-2007


 


“Perdurando l’estenuante silenzio sulla sorte di Giovanni Battista
(detto ‘Titti’) Pinna” l’imprenditore agricolo rapito il 19 settembre
2006 a Bonorva (Sassari) il Comitato Provinciale di Sassari della Croce
Rossa Italiana rivolge un appello “a chi ne ostacola il ritorno presso
la propria famiglia” chiedendo “un gesto umanitario e di cristiana
pietà”.

“Una macchina della CRI – fa sapere il  Commissario
Provinciale della CRI di Sassari,  Antioco Flumene -  è a disposizione
24 ore su 24 per ogni evenienza”.

Per eventuali
comunicazioni è possibile contattare i numeri telefonici: Croce Rossa
Italiana -  Comitato Provinciale di Sassari, tel. 079.239353
-079.235555    Fax   079.233121

 
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Commenti al Post:
StoriediMare0
StoriediMare0 il 13/04/07 alle 21:22 via WEB
Ho copiato il post anche nel mio blog. Nadia
(Rispondi)
Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 14/04/07 alle 20:08 via WEB
E' attivo un nuovo blog su Bonorva al seguente indirizzo: bonorva.blogspot.com
(Rispondi)
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 23/04/07 alle 21:49 via WEB
PREMESSA DELL’AUTORE “Per amore di Sion non mi terrò in silenzio, per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada” (Isaia 62,1). Uscire dal tunnel Nel mese scorso ho seguito attentamente su Videolina la puntata di “Col senno di poi” dedicata a don Graziano Muntoni, vicario parrocchiale in Orgosolo, barbaramente ucciso la vigilia del Natale 1998. Rivedendo quelle immagini e ascoltando le varie testimonianze che si sono susseguite nella trasmissione, ho rivissuto quei giorni quasi con angoscia: con ancora davanti agli occhi i suoi familiari distrutti dal dolore e – come avevo scritto allora – l’immagine del nostro Vescovo «affranto, che piange e parla e grida la tristezza di una terra offesa su quanto vi è di più sacro». Un’icona, quella del Vescovo, che nella settimana di Natale aveva dominato «immensa sullo schermo televisivo di ogni casa». Ma non sarei sincero se non ricordassi anche la solitudine di Graziano precedentemente alla sua tragica fine. Egli era un sacerdote che non amava vivere nel chiuso di un ufficio parrocchiale o di una sagrestia, ma tra la gente e con la gente e proprio per questo era più esposto di altri e, forse, più di altri si accorgeva dell’illegalità che c’era intorno. Con un confratello, qualche giorno prima della morte, lamentava che «purtroppo anche gente vicina a noi tutto scusa e su tutto chiude gli occhi, persino di fronte al marcio che è palese». E a me un giorno disse: «Ci sono notti che non possiamo dormire perché un gruppo di giovani schiamazza sistematicamente davanti alla porta di casa. Più volte ho invitato le forze dell’ordine ad intervenire, ma senza risultati; anzi una sera sono arrivate e anziché prendersela con quei ragazzi e inseguirli, erano seccate con me per averle disturbate». Perciò, con lo stesso senno di poi, mi sono chiesto se non ci sia stata, riguardo a questo degnissimo sacerdote, da parte della Chiesa qualche superficialità e, da parte degli organi inquirenti e di altre Istituzioni governative, una colpevole trascuratezza prima, ma soprattutto dopo la tragedia. Mi spiego. Tenendo conto del suo impegno laicale prima di essere sacerdote, nella scuola con i ragazzi e nell’impegno socio-politico, riconoscevo a don Graziano, rispetto a noi suoi confratelli, una marcia in più, e fu per questo che alla fine dell’ottobre precedente la sua morte gli avevo consegnato uno scritto perché mi desse poi un parere prima di pubblicarlo. Quando mi riconsegnò lo stampato, dopo avermi espresso il giudizio richiesto, nella lunga chiacchierata mi manifestò una certa amarezza e preoccupazione per una pastorale che forse gli stava un po’ stretta e che non corrispondeva a quell’idea più ampia che lui aveva del suo ministero sacerdotale, rivolto non solo a quella minoranza che ruotava attorno alla parrocchia, ma anche a quella che ne viveva ai margini e che doveva essere in qualche modo raggiunta. Credo che siano rimaste in noi confratelli e in chi lo ha conosciuto la sua grande ironia e la sua schiettezza; basta ricordare quel suo intervento nella chiesa di Orgosolo in occasione dell’insediamento come parroco di don Michele Casula quando, in presenza dei due Vescovi, mons. Meloni e mons. Sanguinetti, dava il benvenuto al nuovo parroco dicendo fra le altre cose: «In questa comunità ho cominciato il mio ministero come vice parroco di un santo sacerdote come don Columbu che ho considerato come un padre, morto tra le mie braccia mentre si preparava a celebrare la messa, poi sono stato vice parroco di don Sanguinetti che ho considerato fratello, ora sono vice parroco di don Michele che considero quasi figlio per averlo visto fare il chierichetto nella mia stessa comunità parrocchiale e poi giovane seminarista…». Ma se questo disse con un certo sorriso pieno di ironia, ad altri spettava cogliere il suo disagio. Quanto poi agli inquirenti e agli organi istituzionali, ricordo che alcuni mesi dopo il fattaccio ero andato dal Questore e dal Prefetto con la scusa di offrire loro il libro la cui introduzione era stata appunto annotata da Graziano prima della pubblicazione. In quell’incontro naturalmente si parlò della situazione difficile che si viveva nel Nuorese, ma poi il discorso cadde sulla tragica morte del nostro sacerdote. Ricordo che il Questore mi disse che c’era già un indagato fortemente indiziato, che da poco si trovava in carcere per un altro reato, e il Prefetto mi confermò che a quanto ne sapeva lui il caso stava per essere risolto. Certo non potevo andare oltre nella mia curiosità giornalistica e forse entrambi furono evasivi e lo capisco. Grave però fu la trascuratezza delle forze dell’ordine nel loro insieme: per Graziano si è fatto davvero poco, molto meno di quanto sia stato fatto per altri casi simili, se ancora oggi le tenebre non si sono squarciate, per cui aspettiamo inutilmente di sapere chi è stato l’uccisore… Tutto questo fu dovuto soprattutto al silenzio assordante di un paese ferito nei suoi sentimenti ma allo stesso tempo indisponibile ad accusare uno dei suoi abitanti. Diciamoci quindi la verità. Allora e ancora oggi, purtroppo, c’è stato e c’è un muro invalicabile di omertà. Un cerchio di protezione e una copertura indegna, come del resto è avvenuto e avviene in altri casi. La notte sarda, di cui aveva scritto Pietro Casu, continua e l’alba stenta ancora ad arrivare. Nella Barbagia e nel resto dell’Isola. Adesso più che mai. «Tenebre di odio, di violenza e di morte si addensano nel nostro cielo» – ha scritto il nostro Vescovo, mons. Pietro Meloni nell’accorato appello “Fratelli di Orune, basta con le vendette”. «La nostra terra di Barbagia piange per la morte dei fratelli Serafino e Nicola, giovani pacifici e laboriosi, barbaramente assassinati con spietata crudeltà». Un appello che vale per Orune come per tutti i paesi della Barbagia e della Sardegna. Porterà i suoi frutti? Ce lo auguriamo di cuore. Certo, la Barbagia ci è più vicina e la conosciamo bene: questa nostra terra la vediamo ancora sempre più martoriata da una crudele violenza che lascia a terra tante vittime, spesso del tutto innocenti, e sono quasi sempre vittime dimenticate che chiedono giustizia e interpellano ognuno di noi. L'errore più grave, però, che possiamo fare è quello di rassegnarci e di pensare che non ci sia più niente da fare, perché non sarebbe possibile stroncare una tale violenza, quasi che essa faccia parte del nostro DNA, avallando cosi la tesi di Alfredo Niceforo nel suo libro “La delinquenza in Sardegna” (1897). Questi, seguendo i dettami della scuola di sociologia criminale del Lombroso e del Ferri, aveva applicato alla Sardegna gli schemi delle teorie positivistiche: la tesi fondamentale del suo libro era infatti quella della “razza delinquente”. Una sorta di tara ereditaria, un carattere direttamente connesso alla struttura del corpo e del cervello, una specie di “malattia storica del sangue” che spingeva verso il delitto, anzi verso una particolare serie di delitti: furti, danneggiamenti, rapine, omicidi… Noi Sardi, soprattutto se Nuoresi, saremmo delinquenti perché segnati come tali da madre natura! Giustamente quelle teorie avevano fatto scandalo e da tutta la Sardegna “si levò in breve l’onda furiosa della ribellione” perché scrivendo quelle cose Niceforo aveva diffamato l’Isola. Comunque siano andate le cose all’inizio del secolo scorso, dobbiamo guardare con tanta lucidità, attenzione e lungimiranza, a costo di bruciarci gli occhi, qual è oggi la situazione della società sarda e verso dove siamo incamminati. Per uscire dal tunnel della violenza che ci circonda non ci si può più nascondere dietro il dito: nessuno infatti può dire "non mi riguarda", nessuno può pensare che le responsabilità siano solo individuali, che pure ci sono e di cui bisogna tener conto. Finché le nostre comunità non avranno la consapevolezza che, oltre alle responsabilità individuali, vi sono anche quelle collettive, della famiglia, della scuola, della Chiesa, delle istituzioni, di cui tutti a diverso titolo dobbiamo farci carico, finché continueremo a tacere, finché continueremo a coprire e spesso a giustificare, finché continueremo a vivere come se questi fatti non fossero mai accaduti, non aiuteremo i nostri ragazzi e i nostri giovani ad uscire dal tunnel in cui si sono infilati. Col silenzio ci rendiamo complici di questi orrendi delitti e mentre si va ripetendo da più parti "Chi sa parli", questa esortazione è sempre più disattesa, perché nelle nostre comunità "chi sa non parla". Bisogna invece gridare con forza la nostra indignazione, urlarla come aveva fatto papa Giovanni Paolo II nel 1993 nella valle dei templi di Agrigento contro la mafia: «Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!». Più che le parole, allora ci avevano colpito il gesto delle mani, il tono della voce, il viso corrucciato. Leggeva il discorso seduto, poi si alzò e sbottò in quell’urlo, che aveva impressionato tutti vedendolo in televisione. Peccato che non ci sia una foto di quel momento particolare. Ecco allora perché mi rivolgo alla Chiesa sarda, io un povero prete di campagna, perché non si accontenti di una pastorale di piccolo cabotaggio, ma si affrontino le vere necessità dell’Isola e della Chiesa. Questa Chiesa formata da tante Diocesi talora incomunicabili tra loro, ciascuna delle quali nella pastorale usa strategie diverse. A nulla sembra sia valso il Concilio plenario sardo. Ormai è cosa d’archivio. A ripercorrere gli interventi degli anni passati con i quali si chiedeva la scomunica per i sequestratori e loro complici – quando i sequestri di persona erano veramente tanti – sono stato espressamente e insistentemente invitato dall’Editore presso il quale era stato pubblicato il mio volume “Facciamo credito alla speranza /La Chiesa sarda e le sfide del 2000”, che li conteneva. Ne ho aggiunto pochi altri usciti in tempi diversi assieme alla Lettera aperta all’attuale Presidente della CES. Trattandosi di interventi scritti in tempi e in giornali diversi, certamente il lettore di questa piccola “raccolta” (faccio fatica a chiamarla libro) troverà qua e là concetti identici, persino espressi con le stese parole, non potevo però eliminarli. E di questo chiedo scusa. Nel nostro disagio per il malessere che ci circonda, ho cercato accuratamente di non compromettere alcun Vescovo. Si tratta perciò di un discorso che resta circoscritto a noi della Chiesa di base, ma sostenuto da uomini che conoscono bene i problemi, perché li toccano con mano ogni giorno con la propria esperienza. Parlo di padre Salvatore Morittu che ha scritto la prefazione e degli interventi di don Luigi Ciotti e dell’ex senatore Tore Cerchi attuale sindaco di Carbonia e Presidente dell’ANCI. In questa premessa non si insiste più sulla scomunica, anche perché i sequestri si sono rarefatti (benché Titti Pinna di Bonorva sia ancora in mano dei banditi, e dopo cinque mesi nulla si sappia di lui): si vorrebbe solo un intervento forte dei Pastori della Chiesa nel loro insieme, per svegliare le coscienze di un popolo e di una Chiesa apparentemente rassegnati. Quello che chiediamo è una piccola cosa, quasi da niente. Eppure è tanto! Nuoro, marzo 2007. s.b. -------------------------------------------- LA COMUNICA AI SEQUESRATORI, UNA SCOSSA SALUTARE di padre Salvatore Morittu La richiesta dell’amico Don Salvatore Bussu di scrivere la prefazione alla raccolta degli scritti sui sequestri di persona e sulla sua proposta di comminare la scomunica per coloro che sequestrano o favoriscono il sequestro, ha suscitato in me un terremoto di emozioni. Ho preso tempo per ordinarle e per capirne il senso. Dopo di che ho deciso di aderire alla proposta e scrivere. Perché? Intanto per l’ammirazione che provo per la persona di Salvatore Bussu. Percorrendo le coste della nostra Isola si possono ammirare oltre un centinaio di fari: strumenti indispensabili per percorrere con sicurezza i nostri mari, ma anche per arrivare al porto, la meta del viaggio. Non altrettanto possiamo dire di essere attrezzati di “sentinelle” che sanno conoscere la notte e scuotere le aurore della realtà degli uomini per progettare il nuovo giorno. Don Salvatore Bussu è certamente uno di questi: sacerdote della diocesi di Nuoro, intriso di spirito francescano, conosciutissimo in Sardegna ma anche nella Penisola (attualmente dirige una rivista nazionale “Ut unum sint” di spiritualità sacerdotale), da oltre trent’anni è in frontiera per scuotere l’indifferenza della nostra società facendo emergere fatti e sollecitando con proposte spesso provocatorie la nostra Chiesa. Il gesto più clamoroso fu certamente quello del Natale del 1983 quando prese posizione in favore dei terroristi delle Brigate Rosse reclusi nel carcere di Nuoro. Questi decisero lo sciopero della fame per denunciare il disumano regime di vita cui erano sottoposti: Don Bussu si autosospese dal suo servizio di cappellano rinunciano a celebrare la Messa di Natale. Tutta la stampa nazionale parlò di questo gesto, reso ancor più dirompente per il positivo coinvolgimento del suo vescovo, l’amatissimo Monsignor Giovanni Melis. Ma non fu solo un gesto: per 23 anni come direttore de “L’Ortobene”, e spesso dalle colonne de La Nuova Sardegna e dell’Unione Sarda e grazie a numerosi libri, Don Bussu ha preso posizione sulle vicende più significative della nostra società (“Il ventre della balena bianca: se una certa DC non muore”) e della Chiesa sarda (“Facciamo credito alla speranza: la Chiesa sarda e le sfide del 2000”). Con la sua “penetrante intelligenza “nuorese” e con la sua solida preparazione” (come ebbe a scrivere di Don Bussu il presidente Francesco Cossiga), ma specialmente per un indefesso amore per noi sardi e per la nostra Chiesa , Don Salvatore ha affrontato la piaga dei sequestri di persona. Non si è accontentato delle denunce né delle analisi, ma ha scosso tutti con una imprevedibile e provocatoria proposta: la scomunica dei sequestratori e dei loro fiancheggiatori. La serietà e la competenza del proponente è tale che non si può sfuggire alla provocazione con risposte superficiali o con silenzi imbarazzati. D’altra parte, di recente, la “scomunica” è stata proposta da un altro cristiano di frontiera, un vescovo che io stimo tantissimo e che è certamente il più sessantottino tra i vescovi italiani, Monsignor Brigantini, vescovo di Locri. Egli ha recentemente proposto la scomunica per i mafiosi dopo i reiterati attentati contro le attività delle cooperative giovanili, da lui stesso create, le quali fanno della legalità la chiave per lo sviluppo del loro territorio e la garanzia per il proprio futuro. Ma scrivo di sequestro di persona , io bonorvese, mentre proprio ora è in atto il sequestro di Titti Pinna di Bonorva. Certo il valore della persona non si pesa dal luogo in cui è nato: è un valore assoluto in sé. Ma non posso negare a me stesso o alla gente di Bonorva che questa “prossimità” di nascita e di affetti ci rende particolarmente sensibili alla drammatica situazione che vive Titti Pinna dal 19 settembre e all’angoscia della sua famiglia. Non possiamo negarci la sofferenza di vedere un nostro giovane, rubato e mercificato dai sequestratori, collocato cinicamente dalla opinione pubblica tra i sequestri di serie B, quelli da dimenticare subito perché troppo normali per fare notizia. Al contrario, sentire l’appello per Titti Pinna pronunciato dal Papa Benedetto XVI all’Angelus di Domenica 29 Ottobre, ha avuto la capacità non solo di inondare di consolazione e speranza la sua famiglia, ma ha fatto vivere alla nostra comunità cristiana un momento di vera comunione universale sentendosi confermata nella sua effettiva , e non solo teologica, appartenenza allo stesso Popolo di Dio. Sono orgoglioso di appartenere a questa Chiesa quando non si adegua alla mentalità dei potenti della terra; quando non si lascia imbavagliare da posizioni di comodo; quando, facendo verità sull’uomo, sa portare al centro ciò che gli altri vogliono rilegare in periferia. L’intervento del Papa, i cortei, gli appelli, i gesti di solidarietà sono stati benefici per ridarci speranza, ma non è finito il dramma di Titti Pinna, della sua famiglia e di chiunque ha cuore per la sorte dell’uomo. Sappiamo quanto può velocemente riprendere spazio quel male che è l’indifferenza. O quell’atteggiamento mentale altrettanto grave che è lasciarsi andare alla inelutabilità degli eventi: “non c’è niente da fare”. O il rimuovere ogni seria riflessione definendo un sequestro semplicemente “anomalo” e così tutti ne usciamo assolti, sequestratori compresi. In realtà il sequestro di Titti Pinna pone sul tappeto problemi molto gravi per la nostra società sarda. Noi che crediamo di essere giunti ad un livello tale di civiltà da schierarci tra le società capaci di esportare democrazia; noi paladini dei diritti-umani-innanzi- tutto, abbiamo sacche di arretratezza umana e culturale di cui dobbiamo solo vergognarci. Titti Pinna non è stato sequestrato per affermare un diritto umano calpestato o per richiamare l’attenzione su una realtà di ingiustizia sociale. No, è stato rubato in Sardegna e da sardi solo per denaro. Titti Pinna non è uomo di affari e di finanza, né figlio di magnati che fa sfoggio di sé dilapidando le risorse di famiglia: è un pastore, benestante certo, ma che fa la vita del pastore, ogni giorno in campagna, e benediva il cielo se poteva godersi un giorno di vacanza. La normalità della sua condizione e della sua vita rende ancor più odiabile il gesto dei sequestratori. Ma questi poi chi sono? È gente nostra, sardi che intingono il pane nel nostro piatto, probabilmente coetanei di Titti ma già invecchiati nella loro coscienza che rende indistinguibile la vita di un uomo da una mazzetta di euro. Questo sequestro riporta ancora una volta all’attenzione il mondo degli uomini di campagna. Son figlio di pastore; ho due comunità per il recupero dei tossicodipendenti entrambe in contesto agro pastorale; condivido le difficoltà e le precarietà della gente di campagna; ammiro la laboriosità e lo spirito di sacrificio dei nostri pastori. Ma nelle nostre campagne ci sono anche degli autentici criminali che spadroneggiano sulle cose e sulle persone. Da anni stiamo denunciando che anche gli ovili sono dentro l’organizzazione del commercio delle droghe con tutte le conseguenze che si possono ben immaginare. Detto questo non voglio implorare la militarizzazione delle campagne o un “basco blu” per ogni ovile: ma una presenza seria, discreta e intelligente che i nostri tutori dell’ordine debbono essere capaci di fare anche nel mondo degli uomini di campagna, senza lasciarli soli. Ma il sequestro di persona, sia nella sua forma canonica, sia nella sua versione “lampo”, non nasce come un corpo estraneo: vive e si alimenta in seno ad una comunità. E’ questa che mette le pre-condizioni per progettare e realizzare la mercificazione della persona. Se una comunità rifiuta l’idea di ridurre l’uomo a merce di scambio; se isola i possibili ladri di uomini; se sa esercitare un adeguato controllo sociale, un reato di questo genere non ha possibilità di essere realizzato. Su questa riflessione si innesta il ragionamento di Don Salvatore Bussu. Le nostre sono comunità cristiane: per esse è fondamentale il rispetto assoluto della persona, il vero e autentico “sacramento di Dio”. La Chiesa non si è mai tirata indietro, non ha mai taciuto circa la gravità del sequestro di persona, ritenendolo un mostruoso ed esecrando crimine. L’Arcivescovo di Sassari, il francescano Padre Paolo Atzei, ha levata alta la sua preghiera, la sua indignazione e la sua supplica ai sequestratori di Titti Pinna. Ma se questo non è sufficiente? se la comunità cristiana non si indigna? se non ha il coraggio di eliminare il proprio diretto o indiretto appoggio ai sequestratori? se non percepisce più la sacralità della vita umana? A questo punto, dice Don Bussu, la scomunica potrebbe essere quella scossa salutare che coscientizza il cristiano rispetto a una grave rottura del suo rapporto con Dio e con la comunità. Praticamente con la scomunica il cristiano si pone fuori della comunità cristiana e non può accedere ai sacramenti. L’assoluzione, cioè il nuovo reinserimento a pieno titolo nella comunità, la può dare solo il Vescovo o sacerdoti da lui designati; in alcuni casi interviene direttamente la sede apostolica. Nel passato i Vescovi sardi erano intervenuti scomunicando coloro che per vendetta sgarrettavano i buoi o i cavalli, oppure tagliavano le radici agli olivi o alle viti, compromettendo l’economia della famiglia. Potrebbe essere la scomunica un gesto di evangelizzazione efficace all’interno della comunità cristiana? Nessuno, neppure Don Bussu che la propone, crede che oggi la scomunica possa essere efficace nelle nostre comunità solo per il fatto che i Vescovi la comminano. Anche il loro “microfono” è talmente debole che non troverebbe orecchie capaci si sentire. Credo invece che sarebbe interessante se la scomunica diventasse un elemento forte e straordinario di convergenza per una capillare azione evangelizzatrice che partendo dai vescovi, coinvolge i sacerdoti e i laici di tutte le nostre parrocchie. Essa aiuterebbe a raggiungere tre significativi obiettivi: - ridefinire la grandezza della dignità della persona umana, la sua inviolabilità e il grande rispetto per la vita di ciascun uomo dalla nascita alla morte; - ridefinire il senso del male, del peccato e della giusta riparazione; - ridefinire l’identità della comunità cristiana all’interno della quale non ci può stare tutto e il contrario di tutto. Concludo: tra qualche giorno, il 26 gennaio, compio 27 anni da che convivo in comunità con i giovani drogati. Da essi ho avuto questo grande insegnamento: se vuoi che il “no ” di un intervento disciplinare porti frutto, devi affiancare molti “si” in termini di interesse, passione, amore per la persona. Se comminare la scomunica significa fare da parte dei nostri Vescovi un dotto e forbito documento e magari una bella conferenza stampa per presentarlo e poi non si condividono “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, sopratutto dei poveri e di tutti coloro che soffrono” (Gaudium et Spes,1) non solo sarebbe tutto vano, ma si allargherebbe il muro di incomunicabilità tra la Chiesa e la gente. Esattamente quello che Don Bussu ha sempre tenacemente combattuto. UNA PROPOSTA DIROMPENTE di Salvatore Cherchi Gli scritti raccolti in questo volume, riguardano la lotta ai sequestri di persona. E’ presentata e discussa una specifica proposta di Don Salvatore Bussu, sacerdote e studioso, impegnato in situazioni di frontiera sociale. L’edizione è preparata mentre è in atto un sequestro. Giovanni Battista Pinna, bonorvese, allevatore, è stato rapito il 19 settembre 2006. Il nuovo anno è iniziato. Pinna è ancora prigioniero. Familiari e amici, la comunità bonorvese e ogni altra persona civile, ne attendono il ritorno. Secondo le autorevoli valutazioni del Generale comandante dei carabinieri della Sardegna, quello di Pinna è un rapimento di forma usuale nella fase iniziale, anomalo nelle fasi successive. Sulla sua sorte grava un silenzio carico di angoscia. C’è però chi conosce tutto, chi conosce abbastanza e chi conosce qualcosa e cioè quel gruppo di persone costituito dalla vera e propria banda dei rapitori e dagli ausiliari, da parenti, da amici e da conoscenti che vedono e sentono ma non parlano: un gruppo numeroso, almeno qualche decina di persone! Molti gli appelli levatisi per la liberazione di Giovanni Battista Pinna; fra tutti spicca per la somma autorevolezza quello di Papa Benedetto XVI, che gli dedicato un Angelus domenicale. La sordità dei rapitori viene usata come argomento dimostrativo da quanti reputano pure perdite di tempo appelli, marce, condanne morali e ogni altra iniziativa di mobilitazione delle coscienze: al dunque conta solo la pura forza dell’azione di polizia! La realtà è fortunatamente diversa e mostra che la reazione morale e civile delle comunità ha avuto senso pratico e utilità effettiva contro questa forma efferata di delitti: non ha solo appagato la coscienza di chi ha solidarizzato, marciato o fatto appelli. Il sequestro di persona non è un delitto che connoti da sempre la criminalità sarda. Certo la storia conosciuta della Sardegna comprende rapimenti di persone anche in epoca molto remota, ma è solo nella seconda metà del secolo scorso che questo terribile fatto diventa frequente e si caratterizza come qualcosa di tipico della criminalità sarda, che ne mette a punto un vero e proprio know-how, come si direbbe per altri fatti di produzione, e lo esporta anche in altre regioni dell’Italia. La punta massima del numero di sequestri riusciti o tentati, si ha nel 1979 con ventiquattro casi. Il numero di casi è stato pari a centocinque negli anni settanta, e pari a sessanta negli anni ottanta. Sono “solo” dodici negli anni novanta; quello in corso è l’unico caso di sequestro registrato nel corso di questo decennio. Nel tempo la frequenza è stata ridotta drasticamente. Il declino di questa forma di criminalità ha, nelle valutazioni degli studiosi, due motivazioni che interagiscono fra loro. Una è riferita al rapporto rischio/beneficio, mutato a vantaggio di altre forme di delitti quali la rapina o il traffico di stupefacenti. L’altra è riferita alla crescente percezione della gravità del sequestro e della sua natura di strumento odioso di arricchimento personale e alla connessa reazione dell’opinione pubblica che ha reso più difficile lo svolgimento del delitto e la probabilità di impunità, agevolando l’azione di polizia. L’evoluzione del contesto ideologico e culturale nel quale si sviluppa il delitto, ha dunque avuto un effetto concreto nel determinare la forte riduzione del numero dei rapimenti a scopo estorsivo. Questo male tuttavia non è sconfitto una volta per tutte. Anche un solo caso è altamente drammatico. E’ bene dunque che si discuta dei numerosi temi, tuttora non risolti, correlati ai sequestri: temi oggettivamente controversi. Ci sono aspetti che riguardano la legislazione sulla gestione dei sequestri, della quale il Parlamento è sollecitato ad occuparsi di norma solo sull’onda dell’emozione suscitata da sequestri in atto, basti pensare alle questioni del blocco dei beni, al ruolo dei familiari e degli intermediari. E’ sotto osservazione anche il codice di comportamento effettivo delle pubbliche istituzioni, comunque denominate, che, secondo testimonianze autorevoli, hanno dato l’impressione o la certezza,di seguire atteggiamenti diversi a seconda dei casi. Altri rilevantissimi aspetti riguardano i presidi civili e morali preventivi e dissuasivi. Don Salvatore Bussu ci obbliga a confrontarci su questi temi, con una sua dirompente proposta, avanzata da parecchio tempo ma attuale sempre, al di là della dolorosa contingenza dell’oggi. A suo tempo rimasi molto colpito dalla richiesta di scomunicare rapitori e omertosi conniventi, fatta ai Vescovi sardi, da Don Bussu. Era il 1995, anno segnato da quattro sequestri. Il tempo non ha attenuato la forza di quella richiesta. Le motivazioni e gli obiettivi dell’iniziativa sono sviluppati negli scritti del Sacerdote, oggi ripubblicati insieme con altri interventi riferiti al tempo in corso, e con quelli di quanti hanno in vario modo espresso commenti od opinioni al riguardo. Don Bussu, inequivocabilmente riconoscendo e sottolineando il forte impegno della Chiesa nel condannare e combattere la piaga del sequestro, chiede il gesto risolutore di espulsione dalla Comunità Cattolica, di chi si macchi o si renda, in qualsiasi modo, complice di questo delitto. Non è mia intenzione addentrarmi in dibattiti per i quali non ho titolo alcuno di partecipazione: sarebbe semplicemente irrispettoso, oltre che azzardato. Tocca ai Vescovi, ai quali Don Bussu si rimette, valutare conclusivamente la proposta. Vorrei però dire che la proposta di Don Bussu non evoca né il Medioevo e neppure gli anni cinquanta di scomuniche ideologiche. In verità siamo colpiti dalle parole di Don Bussu perché contengono un messaggio forte all’insieme delle coscienze: invitando la Comunità dei Credenti a dichiarare, nel modo più forte, la fuoriuscita dal proprio seno di chi sequestra il proprio simile , chiede che sia dato l’esempio e sia compiuta sino in fondo la scelta radicale, quella stessa che, mutati contesti e condizioni, ogni comunità semplicemente civile, dovrebbe a sua volta fare. Il lago nel quale nuotano i rapitori, già notevolmente prosciugato, verrebbe essicato. Salvatore Cherchi ------------------------- IL SEQUESTRO DI LIBERTA’ di don Luigi Ciotti Le parole sono come pietre. Possono essere pronunciate per distruggere o per costruire, per dividere o per fare incontrare, per allontanare o per avvicinare. Come sempre quando si è alle prese col linguaggio ci si sperimenta bisognosi di approfondimento. Di serietà. Ma anche di chiarezza. “Scomunica”? Per molti significa allontanamento, isolamento, esclusione e sola condanna. In realtà la Chiesa cattolica si confronta con questo termine da duemila anni e da sempre lo intende come un richiamo all’individuo per risanare una ferita inferta alla comunità. Nel Vangelo di Matteo (cap.18), si trova una concreta pedagogia per permettere a chi sbaglia di riconoscere l’errore e cambiare. Al punto che richiamare e correggere è un preciso dovere della comunità cristiana e di tutta la società. Scomunica non è pertanto una pietra scagliata contro qualcuno per colpirlo, ferirlo, addirittura ucciderlo. E’ l’esatto opposto:
(Rispondi)
NeVerLiKeMe
NeVerLiKeMe il 23/04/07 alle 22:12 via WEB
Vi spiace smetterla?
Non vi giustificate perchè non siete stati alla manifestazione di Sassari.
Non vi arrampicate sugli specchi che non riuscite mai a tirare a lucido, scivolate sempre. Dove sono le lenzuola? Tolte perchè ingiallite dalla pioggia? Questo lo potete dire a chi non è di Bonorva, non a me. E le candele la notte di Pasqua chi le ha messe? Non vi giustificate per favore, nessuno mette in dubbio che sabato abbiate avuto altri impegni, ma non ditemi che a Bonorva fareste, perchè la verità è che non fareste assolutamente nulla. Vedi manifestazioni del 18 e 24 dicembre ampiamente pubblicizzate. C'eravamo solo noi ai cortei.
Avete levato le lenzuola perchè ingiallite dalla pioggia? Allora, LAVATELE E RIMETTETELE senza vergogna. Dimostrate che è vero quello che dite, che a Titti voi tenete, che siete stati lasciati soli a fare i conti con un dolore tanto grande. Mostratelo il segno del vostro dolore, rimettete fuori le lenzuola e non nascondetevi dietro a un dito.
Pietro vi ha fatto le sue scuse, mi sembra il caso di smetterla adesso. Ogni altro messaggio di insulto verrà eliminato.
(Rispondi)
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