IL CAVALIER SERPENTE

Jazzisti, anziani e non


   IL CAVALIER SERPENTE     Perfidie di Stefano Torossi      20 maggio 2013    JAZZISTI, ANZIANI E NON Immaginate un distinto signore sugli ottanta, faccia ironica, erre moscia da piemontese, che suona compassato e benissimo, ma nei momenti di estremo virtuosismo esibisce una mimica concentrata nelle labbra che sembrano mormorare una silenziosa preghiera, mentre invece noi sappiamo che sta canticchiando fra sé e sé le improvvisazioni sul tema. Repertorio anni '20 / '40, con un inconfondibile tocco ragtime, uno stile nato sugli scassati pianoforti verticali dei bordelli di New Orleans. Questa sera l'ascolto è favorito dall'uso di una tastiera elettronica di qualità piuttosto scadente con il difetto, ma per noi il pregio, di esaltare i bassi, la mano sinistra del pianista insomma, di grande importanza per quel genere, ma normalmente un po' trascurata. Si tratta di Ettore Zeppegno, già direttore artistico della gloriosa e ora defunta RCA. Lo abbiamo ascoltato lunedì 13 al Fonclea di Roma, mentre ci regalava garbati aneddoti sui grandi autori americani d'anteguerra, alternandoli ad altrettanto garbate esecuzioni del repertorio degli stessi, insieme alla voce d'epoca di Giò Giò Rapattoni. Con amici musicisti, Mazzoletti, Podio, Reverberi ad ascoltarlo, eravamo anche noi un tavolo d'epoca. Atmosfera purtroppo funestata da una malandata amplificazione che non faceva sentire bene le voci dal palco. Mentre si sentivano anche troppo quelle della gente maleducata (anch'essa d'epoca), un po' similgita aziendale, rumorosa e distratta. Tanto è vero che il romantico brano scelto per chiudere il concerto "Every time we say good bye" è caduto nella confusione provocata, ci si perdoni il bisticcio, dalla caduta vera e propria in mezzo al locale di una delle chiassose vecchiette del pubblico. Il giorno dopo, martedì, apre al Parco della Musica il Festival del Sassofono con metà concerto a Javier Girotto e il suo Atem Quartet (di sassofoni, naturalmente: soprano, alto, tenore e baritono). Entrano tutti in fila, in una mano lo strumento, nell'altra la solita bottiglietta di plastica. Buttar giù molta acqua è senz'altro sano, e per i fiati probabilmente indispensabile. Ma se ripensiamo agli anni passati, ci viene da chiedere: come facevamo allora, quando nessuno beveva in scena? Brani scritti benissimo, arrangiati ancora meglio ed eseguiti in maniera superlativa, ma così strapieni di note da poter ipotizzare una diagnosi di bulimia musicale. E poi tutte note puntate, saltellanti, secche. E' chiaro che non essendoci una ritmica tradizionale, è necessario sostituirne la percussività, appunto con tante note ribattute e accentate. Però l'effetto ricorda una riunione di uccellacci e uccellini che pigolano tutti insieme. Per non parlare degli assoli di Girotto, forse più propriamente cadenze, in cui quell'eccellente strumentista che è Javier ci travolge con la sua eruzione di note, numerose come i capelli della sua coda di cavallo. Ma questo è solo pettegolezzo. Ripetiamo: la musica è splendida. L'altra metà della serata è di Rosario Giuliani e il suo gruppo. Ottimi anche loro. Più classica come formazione (sax, piano, basso, batteria). Bellissime composizioni di Giuliani, che, mentre ci appagano musicalmente, ci fanno trasecolare per il carattere dell'ispirazione. Ma come? Siamo cresciuti convinti di vedere in ogni jazzista un demonio di talento, dedito all'alcol, alla droga, al vizio in tutte le sue forme; invece Giuliani ci presenta un programma composto da:  un brano che descrive un idilliaco laghetto siberiano, poi un altro che evoca con nostalgia la sua città natale, Terracina, e addirittura uno dedicato alla sua mamma "Angel at my side". Non c'è più religione! La rassegna prosegue, ma, siccome abbiamo voglia di commuoverci, e dobbiamo ammettere che il jazz ci entusiasma, ci fa battere il tempo, ma a commuoverci proprio non ci riesce, giovedì sera deviamo verso la chiesa di S. Luigi dei Francesi (per intenderci quella dei famosi Caravaggio), dove ci attira l'esecuzione del commoventissimo Requiem di Fauré, diretto da Eduardo Notrica per il festival Suona Francese, con l'orchestra Nuova Amadeus e i cori Carocoro e Decanter. Folla enorme e inconsueta per il genere (efficienza dell'ufficio stampa?). Ottima esecuzione. Molto oro in chiesa, molto marmo, molte figure barocche che escono dalle cornici del soffitto e prendono il volo. Come il nostro spirito, trasportata da questa musica morbida, emozionale, ogni tanto grandiosa, ma mai terribile come nel Dies irae di Verdi, né inquieta come nel War requiem di Britten. Non composta, secondo l'ammissione di Faurè, per onorare un morto famoso, ma solo per il piacere di scriverla. Ci siamo commossi, come avevamo previsto, durante il "Libera me", il momento in cui nella funzione funebre l'anima invoca la libertà dall'eterno castigo. Per nostra fortuna l'umanità convive, da quando se n'è resa conto, con la consapevolezza della propria morte. Un pensiero che non solo spinge gli artisti a creare queste belle cose per sopravvivere nel tempo, ma è anche l'unica certezza che dà un qualche significato alla vita. Se noi non sapessimo che dobbiamo morire, non saremmo altro che sette miliardi di babbuini senza criterio. Piantiamola qui e registriamo la finale, sabato, del Festival del Sassofono. Non abbiamo più spazio se non per dire che si è concluso con onore. Alla prossima.