IL CAVALIER SERPENTE

Salvagente


   IL CAVALIER SERPENTE  Perfidie di Stefano Torossi     17 marzo 2014     SALVAGENTE Siamo d'accordo sul fatto che autocitarsi è un po' sbrodolarsi addosso, però... Siccome nel corso della settimana non c'è stato un solo evento che abbia stimolato le ghiandole velenifere del Cavalier Serpente, e siccome lui non vuole lasciare i suoi lettori senza una conferma  della sua esistenza in vita, abbiamo deciso di recuperare e usare come salvagente il primissimo uovo avvelenato deposto in questa covata ormai pluriennale. E' roba di quasi quattro anni fa, e precisamente del 2 settembre 2010. E' passato tanto tempo, ma già i morsi del nostro erano letali. Ci pare che l'uovo non sia andato a male. Eccolo:         JAZZ, ABBIGLIAMENTO E BUONA EDUCAZIONE Che dire? Non c'è dubbio che Gino Paoli sia l'autore di tre o quattro canzoni fra le più belle della nostra generazione. Lo abbiamo verificato ancora una volta al suo "Un incontro in Jazz" del 25 agosto 2010 nel Festival "Odio l'Estate" a Roma. E certamente di livello altrettanto alto era l'accompagnamento: un formidabile quartetto composto da Danilo Rea piano, Flavio Boltro tromba, Rosario Bonaccorso contrabbasso e Roberto Gatto batteria, il meglio del jazz in Italia. Bene, sulla qualità della musica niente da obiettare. Applausi. E' sul modo in cui questa ottima pietanza ci è stata servita che abbiamo qualcosa da dire. Il concerto di cui vi parliamo lo usiamo unicamente come esempio. Solo per generalizzare a tanti, troppi eventi jazz. Non ci sembra giusto che la star della serata (come del resto qualunque accompagnatore) entri in scena con l'espressione di chi magari vorrebbe essere altrove, non accenni neanche un minimo saluto verso il pubblico, confabuli con i colleghi musicisti voltandoci la schiena, attacchi la sfilza delle canzoni senza una parola, una presentazione, un aneddoto, sempre con un atteggiamento di noia. Forse è timidezza, forse è la faccia di tutti i giorni, ma dal momento che uno sale sul palco, un minimo di obblighi ci sono: tra cui mettere su proprio una faccia di scena. Certo, ci sono i rockettari violenti che sputano sul pubblico, o gli tirano le chitarre, ma è un comportamento prevedibile, anzi previsto, anzi addirittura pregustato, e soprattutto è viva azione scenica. Quello che invece stronca le esibizioni di molti jazzisti è proprio questa aria di distacco, di noia (snob?), di chissenefrega. Ma perché? Come mai non hanno l'aria di divertirsi, visto che fanno una cosa che il resto della gente gli invidia? Che ci vuole a prepararsi una battuta, quattro movimenti coordinati, evitare le stupide pause in cui il bassista, mentre infila un qualche jack in qualche buco, chiede al pianista la tonalità del pezzo, perché alla gente non basta ascoltare; al concerto si è portata anche gli occhi e vuole usarli. I salti di Lionel Hampton? E le camicie di Miles Davis? A proposito: ma come si vestono i jazzisti! Non ci si può presentare con jeans sformati e sporchi, camiciole di brutti colori, magliette di quel tono indefinibile, ma con suggestioni di sporco, fra il marroncino, il viola scuro e il nero, soprattutto quando si hanno superato i sessant'anni, o gli ottanta chili, e madre natura, generosa con il talento musicale, non lo è stata altrettanto con la presenza. Non diciamo che i componenti di un gruppo dovrebbero essere tutti in smoking (anche se ci piacerebbe - non erano eleganti quelli del Modern Jazz Quartet?), però un minimo di decenza, un pantalone con la piega, una giacca che copra i rotoli, le panze, i seni penduli degli anziani, forse, estrema audacia, perfino una cravatta. Oppure anche una follia di lustrini, ma scelti dentro un progetto di spettacolo, perché suonare è anche spettacolo. Sempre per il rispetto, a nostro parere dovuto al pubblico, che, lui sì può essere malvestito, ma la sua parte l'ha fatta perché ha pagato. Insomma, stare su un palcoscenico a fare una cosa ben precisa, la musica, e di solito farla anche bene, non basta. Bisogna, assolutamente bisogna, dedicare un minimo pensiero a quello che ci si mette addosso. Proprio così: che il vestito racconti al pubblico che l'artista lo ha scelto dopo averci pensato, e anche parecchio, e non come se fosse sceso di casa a portare fuori la spazzatura.