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Perfidie di Stefano Torossi

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Il tempo che passa

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

   23 gennaio 2012

  IL TEMPO CHE PASSA


     Abbiamo letto con grande dispiacere sui giornali (non più di due righe, un'elemosina) della morte di Gustav Leonhardt, il grande clavicembalista. Vivo fino all'11 gennaio, il 12 se n'è andato. Vorremmo riproporre quello che avevamo scritto per lui il 21 ottobre del 2010.

     "Roma, Associazione l'Architasto, concerto per clavicembalo. Alla tastiera il vecchio Gustav Leonhardt, massimo solista al mondo. Un nordeuropeo fisicamente sobrio al limite del funereo. All'applauso immancabile, perché lui è davvero perfetto, il maestro china il capo di un quarto di pollice, e su uno zigomo si intravede un guizzo che potrebbe anche essere un sorriso dal Polo Nord. Un amico, che lo è andato a prendere alla stazione, aveva preparato in macchina un CD di Beethoven. Appena l'ha messo su, il maestro ha fatto una faccia, poi ha chiesto di spegnere quella roba. Troppo moderna. Quando suona, con la mano destra avvolta in un mezzo guanto di lana nera, dalla tastiera promana un torpore sublime. Ma non per la musica o per come lui la suona (benissimo), è solo perché il clavicembalo è uno strumento che parla senza mai cambiare umore. Il piano e il forte verranno dopo; noi ora lo sappiamo, ma loro, all'epoca, no. Mozart aveva cominciato a scrivere i suoi concerti per cembalo, poi è passato al fortepiano, ma quando finalmente gli hanno portato a casa il primo pianoforte, ci si è buttato sopra e non l'ha più mollato; e i risultati li conosciamo". 

     Dalla stessa pagina del giornale si affaccia un altro trafiletto, nel quale, invece, il cronista riferisce, pervaso da sentimenti di profonda preoccupazione, la litigata in corso fra Ligabue e Vasco Rossi. Si risolverà, e quando? Evidentemente il pettegolezzo tira più del necrologio. Dovremmo preoccuparci anche noi, se fanno la pace o no?


     La morte è un perfetto marcatore del tempo che passa. Rimaniamo sull'argomento (il tempo, non l'altro). E' in corso al Parco della Musica l'annuale Festival delle Scienze, e quest'anno il tema è proprio il Tempo. Eravamo curiosi di seguire l'evento più strano del festival: l'esecuzione ininterrotta, dalle 18 di sabato alle 18 di domenica, del brano di Erik Satie "Vexations", un titolo molto esplicito sulle maliziose intenzioni dell'autore. Avevamo in programma di passare da quelle parti in tarda serata di sabato per vedere come se la cavavano di notte i pianisti (e il pubblico), ma purtroppo siamo stati boicottati da un piatto di bucatini all'amatriciana che ci hanno prima sedotti a cena, e poi inchiodati alla digestione, costringendoci a rimandare i propositi intellettuali all'indomani.


     Quindi eccoci qui, domenica mattina, 22 gennaio, ultimo giorno del festival.

     Il Parco della Musica, non smetteremo mai di ripeterlo, è uno dei più inaspettati successi della città: tre grandi sale da concerto, due minori, bar, ristorante, sale da esposizione, un piccolo museo archeologico, perché naturalmente durante la sua costruzione si è trovata una villa romana, e una infinita serie di eventi che finalmente attirano le famiglie, e gli scapoli, fuori di casa a tutte le ore, tutti i giorni.


     Abbiamo deciso di saltare le conferenze, ma c'è un paio di cose che hanno attratto la nostra attenzione. Prima di parlarne, scartiamo anche i video con le ovvie riprese velocizzate o rallentate  (l'immagine trattata in questo modo non fa davvero più notizia, anche perché è roba stravista alle varie Biennali d'Arte e simili). Obbligatorio riconoscere che le opere che usano questa tecnica, anche se vecchie di appena cinque anni, sono improponibili. Una constatazione ci colpisce: il tempo vero è un'altra cosa rispetto a quello dello spettacolo. Quei noiosissimi filmati degli artisti concettuali che riprendono in tempo reale fatti quotidiani ci dicono quanto sia necessario alterare le durate sulla pellicola, dove per descrivere un'azione di un'ora devono bastare pochi secondi. E la bravura del regista, dell'autore-operatore, del montatore sta proprio nel far valere agli occhi del pubblico quei pochi secondi come un'intera, lunghissima ora.


     All'ingresso della Sala Petrassi un folto pubblico in religioso silenzio e con telecamere accese osserva l'installazione di Gyorgy Ligeti intitolata "Poéme Symphonique". Una serie di mensole su cui un centinaio di metronomi (quelli antichi, a piramide) ticchettano tutti insieme, con tempi diversi naturalmente. Benissimo, l'effetto è un piacevole ronzio, e comunque quando mai capita di vedere cento metronomi al lavoro tutti insieme? E' un'occasione anche questa. Ma è il silenzio religioso insieme alle telecamere puntate che ci sorprende. C'è perfino chi sgomita per la prima fila. Per vedere e filmare cento metronomi!? Nessuno che ride o chiacchiera. Eppure è chiara, almeno a noi, l'intenzione provocatoria dell'artista. Cento apparecchi che fanno tutti insieme un lavoro (fra l'altro inutile in quel contesto) per cui ne basterebbe uno, sono una provocazione, no? E dovremmo esserci abituati, fin dall'orinatoio di Duchamp, o dalla Gioconda coi baffi; roba di ottant'anni fa. Eppure, non un sorriso, o un occhiolino di complicità. Forse siamo noi che ci riteniamo troppo intelligenti, o forse sono loro obiettivamente un po' stupidi.


     Veniamo a Satie, il bizzarro compositore di pezzi semplici e famosi, e di burle musicali. Come questa del 1893. Un brano, detto fra noi, bruttino, di 35 battute in tempo lento per pianoforte solo, da ripetersi per ventiquattrore in un'ininterrotta esecuzione dal vivo affidata a novanta pianisti. Cos'è una proposta del genere se non una presa per i fondelli?

     Anche qui, un pubblico compreso, attento e serioso. Silenzio di tomba. I pianisti giovanissimi che si alternano hanno, a dir la verità, un'aria piuttosto scanzonata. Però, quando ci siamo permessi l'audace iniziativa di applaudire a un cambio di tastiera, siamo stati guardati con un misto di rimprovero e incomprensione dal pubblico, ma anche, si vede che non se lo aspettava, dal pianista uscente.


     In contrasto con questa diffusa dabbenaggine fateci chiudere seriamente con una frase di Sant'Agostino che copiamo dal programma del Festival (noi non siamo tanto colti da averla in repertorio). "Che cos'è il tempo?" si chiede il santo. E si risponde così: "Se nessuno me lo chiede, lo so bene; ma se volessi darne spiegazione a chi me lo chiede, non lo so".


                        

 
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