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Perfidie di Stefano Torossi

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Messaggi di Dicembre 2011

Chiudiamo in bellezza

 IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

 27 dicembre 201

  CHIUDIAMO IN BELLEZZA


     Cioè, con gli ultimi morsi velenosi del 2011.


     Lo stimolo a questa prima punzecchiata ci è guizzato in testa all'incontro con un brano tra il pomposo e il grottesco che gira su FB. Claudio Baglioni che canta "L'Italia è", la sua versione musicale della Costituzione Italiana. Arrangiamento rimbombante di ottoni e timpani, voce impastata, nessuna melodia identificabile, un indigesto pappone. Lui lo presenta come il suo regalo agli Italiani. Cercatelo in rete perché davvero non è il Baglioni che conosciamo. Ricordiamo la prima e l'ultima riga della Costituzione (non servirebbe perché la sappiamo tutti a memoria, vero? però...): "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro (...) la bandiera è il tricolore a bande verticali, verde, bianco e rosso, di dimensioni uguali". Ecco, se non siete Giuseppe Verdi, provate a musicare questo testo senza rendervi ridicoli.


     Passiamo alla stampa. Il Venerdì di Repubblica del 23 dicembre. Una lettera alla redazione piena di virtuosa indignazione, che zampilla anche dal titolo: "Mozart ridotto a spot pubblicitario". Impossibile non percepire l'ira che squassa l'autore della lettera per l'abbinamento del Requiem a, pensate un po', un profumo femminile: "...blasfemo accostamento", "...operazione mercantile che sporca..." eccetera. E' proprio ridicolo che ci siano ancora questi savonarola che tuonano per salvaguardare la santità dell'opera d'arte, perché solo i cretini non sanno che se l'arte è buona rimane buona e non c'è nulla che possa sporcarla; se invece è mediocre e non regge, dov'è il danno? La carta igienica con sopra la Gioconda non mette certo in pericolo la reputazione di Leonardo.


     Franca Valeri e Luciana Littizzetto a Che Tempo Che Fa il 24 dicembre. Abbiamo quasi perso il fiato a cercare di afferrare le battute brillanti e puntuali che la viva intelligenza della Valeri continua a produrre, ma che escono strazianti e straziate dal passaggio attraverso le sue corde vocali ingarbugliate dal Parkinson. Avete presente quanto si fa affannosa la nostra respirazione quando ascoltiamo qualcuno che balbetta o ha difficoltà a parlare? Lo si vorrebbe aiutare con il nostro stesso respiro, e non si può. E' quello che cercava di fare con evidente imbarazzo e reticenza anche Fazio. Ecco, con tutto il rispetto per la retorica dell'attore che recita fino alla fine, di Moliere che muore in scena, con tutta la tenerezza che fa una menomazione che impedisce all'intelligenza ancora viva di manifestarsi; ma non sarebbe meglio, più dignitoso, invece di esporsi al pubblico, rinunciare alla strada sbarrata e prenderne un'altra. Cioè, se non riesci più a parlare, magari scrivi.


     Le Feste sono una magnifica occasione per riscaldare la stessa sbobba dell'anno scorso. Si tratta, in questo periodo, del riaffiorare di vecchi video dei Tre Tenori che cantano il repertorio di Natale. Di solito è Carreras che comincia. Le parole, lo sappiamo, sono sempre le stesse, infantili, rassicuranti; da famiglia, insomma. Niente. Questi tenori, con le loro vocione, e nessuna leggerezza, gridano come se fossero Mosè che spezza le tavole delle leggi sul Sinai, mentre il testo dice banalità che richiedono al massimo un sottotono, tipo "un altro anno è passato, e fra poco comincia quello nuovo". Dopo Carreras attacca Pavarotti, con il candido gilet che si allarga sui metri quadrati del suo stomacone; e anche lui strepita, con una voce stupenda d'accordo, ma strepita, mentre noi con l'immaginazione siamo sempre sotto l'albero o davanti al caminetto. Per fortuna poi arriva Domingo, l'unico che sembra avere il cervello collegato all'ugola, e azzarda una qualche sfumatura nell'interpretazione. Intanto sullo sfondo: orchestrona, coro di cherubini, campane, e inevitabile acuto finale. Per non dire di quando tentano di fare quei pezzi brillanti così tipici del natale anglosassone, per esempio Jingle Bells. Qui ascoltarli diventa davvero faticoso. Nessuno swing, non un sorriso, neanche un po' di gioco. Niente, sempre Mosè sul Sinai. E intanto il direttore e l'orchestra che faticano per trascinarli quando frenano, o frenarli quando scivolano sul tempo. E anche se piacciono tanto al pubblico, per noi loro tre sono la peggiore creatura partorita dal mondo della lirica (sempre dopo Bocelli, naturalmente). E tutto questo pur avendo a disposizioni tre voci stupende. Per fortuna che poi, per consolarci, c'è sempre Sinatra o Ray Conniff.


     PS. Questo è l'ultimo PS a conclusione dell'ultimo articolo del 2011, e vogliamo la vostra attenzione. L'argomento è la vecchiaia, un tema che interessa noi, e certo una parte di voi lettori; ma che prima o poi coinvolgerà anche tutti gli altri. E' una riflessione di Fellini, riportata in un bel libro di Moraldo Rossi che parla di lui e dei suoi sogni. Federico dice: "a volte mi chiedo cosa c'entro io con la vecchiaia". Che è il modo più preciso e nello stesso tempo poetico di raccontare lo stupore che ci prende quando ci accorgiamo che, con una velocità impressionante e senza preavviso, è successo quello che pensavamo potesse accadere solo agli altri: siamo diventati vecchi anche noi!



                                       

 
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Una serata dimenticabile

 IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

 16 dicembre 2011

 UNA SERATA DIMENTICABILE


     Che peccato! Non si sa se essere arrabbiati o offesi. Una cosa sembra certa. In Italia forse, a Roma di sicuro, non si riesce a fare niente di dignitoso. Ok, va bene, non esageriamo; di serio. Forse è ancora troppo. Diciamo di professionale. Ce la passate almeno questa?

     Intanto, l'unico taxi presente al posteggio ci molla. "Io là nun ve ce porto. Co' quer traffico!" Primo punto per Roma. "Là" è la Casa del Cinema, una bella struttura con due sale di proiezione e un simpatico bar, a Villa Borghese, oltre la cima di Via Veneto (Dolce Vita, ricordate?) che ospita oggi la Serata d'Onore per Franco Zeffirelli con consegna del Premio Roma Film Festival. Venerdì 16 dicembre, ore 19 precise, inviti difficilissimi da ottenere.

     Naturalmente stiamo già lì alle 18,45 (quando impareremo? Siamo a Roma, non a Zurigo). Ancora quasi nessuno presente. Alle 19.30 tutti al piano di sopra dove ci sarà la premiazione. Alle 19,45 arrivano tre bottiglie di prosecco, buono, bisogna ammetterlo, siamo riusciti ad assaggiarlo, e qualche vassoio di pizzette. Un lampo e sono sparite.

     Alle 20,10 si va in sala. Prima fila di ospiti famosi: Rosi, Wertmuller, Fracci, Verdone, Albertazzi. Gli altri a macchia di leopardo, un sacco di poltrone vuote, che così rimarranno per tutta la serata. Una visione inutilmente desolante. Nessuno che abbia pensato di riempirle con i tanti rimasti in piedi ai lati, forse non invitati, ma comunque presenze umane, anzi chiamiamoli comparse, data la natura della serata, utilizzabili da un buon capogruppo.

     Arriva Zeffirelli, in sedia a rotelle, e qui l'organizzazione ci serve un'altra chicca. C'è un microfono solo, che naturalmente passando di mano tremula in mano malferma (data l'età media) ci spezza i messaggi:" ...festare il nostro omaggio al maestr...", "...tti qui per offr...". Ci sembra di ricordare che da queste parti, in simili eventi del passato i microfoni erano tanti quanti gli artisti, che, notoriamente loquaci, qualcosa di interessante da dire ce l'hanno sempre. Sono finiti i soldi anche qui, si vede.

     Va bene. Due parole di presentazione del nuovo direttore Caterina D'Amico, poi l'autore del bel documentario che vedremo dopo, Adriano Pintaldi, nel presentarlo si esibisce in una crediamo involontaria gag con microfono che gli scivola, fogli che gli cadono di mano, bambino in prima fila che corre a raccoglierli, e applausi a quest'ultimo (chi è?). La Presidente Polverini, con la brevità e buona scelta delle parole che dobbiamo riconoscerle, fa per consegnare il premio a Zeffirelli, al posto dell'annunciata Fanny Ardant, assente come d'altra parte l'annunciatissimo Placido Domingo, ma l'oggetto non si trova. Dove sarà? Qualche attimo di panico, poi salta fuori. E così via di gag in gag, altro che Hollywood Party. Momenti di pura delizia quando il microfono tocca a Zeffirelli, e ci rimanda le sue parole dirette e come sempre poco diplomatiche (delizia ancor più intensa quando nell'intervista filmata gli sentiamo dare dello stronzo (testuale) all'attore William Hurt responsabile dell'atmosfera infelicissima (testuale) delle riprese di Jane Eyre). Naturalmente avevamo già letto la dichiarazione del premiato di averlo dato a destra e a manca in passato, pur di fare carriera. Ce ne importa qualcosa? Diremmo di no.

     Fine del documentario, ripetiamo, molto ben fatto, ed ecco che maleducatamente ma seguendo una simpatica abitudine locale tutti si alzano per tagliare la corda, i cellulari ricominciano a squillare, chi si accalca intorno al festeggiato e chi svicola, mentre, forse credendosi non visto, ma stagliato in un nitido controluce sullo schermo bianco, Carlo Verdone, rivolto a qualcuno in platea, fa il gesto della mano a pendolo, ormai diventato di comprensione comune, che significa "Annàmosene!". Beccato, è costretto a fare un discorsetto (piuttosto goffo) di saluto a Zeffirelli. Microfono ad Albertazzi che indicando il maestro esclama: "Abbiamo qui un genio, anzi Eugenio!" Era dalle elementari che non sentivamo questa battuta. E' proprio vero che la senilità, specialmente quella incontrollata riporta all'infanzia.

     In uscita, omaggio ai presenti: un lussuosissimo catalogo intitolato: "Franco Zeffirelli - L'arte della mise in scène". La nostra modesta conoscenza del francese ci ha sempre fatto credere che si dicesse "en scène" e non "in scène", specialmente sulla copertina di un lussuosissimo catalogo. I casi sono due, anzi tre: o la nostra maestra di lingue ci ha imbrogliati fin da piccoli o loro (quelli del catalogo) hanno fatto finta di non accorgersene, o non se ne sono accorti davvero.


     PS. Riassumiamo le motivazioni dell'immaginario Premio "Cialtrone d'Oro" conquistato anche questa sera dalla nostra capitale. Eccole. Numero uno: il servizio taxi. Due: la puntualità. Tre: l'organizzazione. Quattro: la linguistica. Cinque: il pressapochismo. Sei: la maleducazione. Vittoria piena e indiscutibile.


                                      

 

 
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Quell'ultimo gradino

Post n°144 pubblicato il 11 Dicembre 2011 da torossis
 

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

  8 dicembre 2011

  QUELL'ULTIMO GRADINO


     Cent'anni dalla nascita di Nino Rota. E' un'occasione (anche se non siamo certo gli unici a occuparci di questo argomento) per farci una perplessa domanda su quell'ultimo gradino che è mancato a un dignitosissimo musicista come Nino Rota per arrivare in cima alla scala e diventare una star, tipo, da una parte, Puccini o Lloyd Webber, e dall'altra, per dire, Henry Mancini.

     Perché è chiaro che qualcosa è mancato. L'accoppiata con un regista come Fellini, avrebbe dovuto essere più che sufficiente per innalzare questo suo collaboratore sulle vette, invece non è successo (magari, come dice qualcuno, è proprio colpa di Fellini). Certo, tutti si ricordano la marcetta di Otto e mezzo, o la filastrocca di Gian Burrasca ma a nessuno viene da togliersi il cappello davanti a queste trovate, per carità, perfettamente funzionali alle immagini, come dev'essere una musica di commento per il cinema. Mentre invece ci piacerebbe incontrare una sola persona che non sia caduta nell'incantesimo ascoltando un tema, scritto anche questo per un film, ma evidentemente di un altro livello, come Moon River.

     Con la musica seria (non condividiamo la definizione, ma tanto per capirci) poi, l'ultimo scalino risulta ancora più ripido. Nell'opera buffa di Rota "Il cappello di paglia di Firenze", naturalmente ben congegnata e orchestrata impeccabilmente non c'è neanche una romanza, un'aria, insomma qualcosa che inchiodi la musica alle orecchie e al cuore del pubblico. Non crediamo che ci sia bisogno di tirare fuori Un bel dì vedremo, o Don't cry for me Argentina per far capire cosa intendiamo. Questa opera è come una di quelle commedie brillanti francesi fine ottocento, o anche un Goldoni, costruita su uno schema super collaudato, ma puramente meccanico, senza un tocco di genio. Anche Paisiello o Rossini scrivevano opere brillanti, ma dentro c'erano fior di arie e ouverture, o colpi di scena così azzeccati da essere ancora oggi assolutamente moderni.

     E il suo concerto per archi, per citare l'altra sua composizione conosciuta, ha lo stesso sapore. Una veste formalmente brillante, una realizzazione tecnicamente perfetta, un uso corretto degli strumenti e come risultato, poco più di un "è tutto qui?".

     E' il solito problema. Se la storia seppellisce un'opera, un quadro, un libro (per esempio il libro-fenomeno "Orcynus Orca" di qualche anno fa, o i quadri di Guttuso) vorrà pur dire qualcosa. Il genio vero poteva rimanere misconosciuto per qualche tempo quando non c'era ancora un'informazione vasta, veloce e completa come oggi. Per uscire Van Gogh ci ha messo meno di mezzo secolo, Bach, più indietro nel tempo, quasi due, ma nel Duemila se qualcosa scompare è perché non funziona e basta.


     E invece, guarda un po', proprio il pomeriggio di giovedì 8 dicembre, festa dell'Immacolata, attraversato il formicaio brulicante di maniaci dello shopping, siamo capitati a S. Giacomo in Augusta per una messa con organo e coro. E qui siamo stati testimoni del sobrio, eccellente lavoro pieno di fede di una coppia di amici musicisti, Flavio e Silvia Colusso, i quali da anni animano con la loro formazione corale-strumentale (immaginiamo senza essere contaminati dal vil denaro, ma di sicuro con una sincera energia spirituale) una ricca serie di funzioni religiose in varie chiese della città.

     Abbiamo assistito all'intera messa, cosa che non ci capitava da tempo, condita di letture di discutibili e fantasiosi episodi delle scritture, come la storia della mela nel paradiso terrestre. Con Dio che chiede ad Adamo se ha assaggiato il frutto proibito. Si, risponde lui, ma è la donna che me l'ha offerto. E alla donna? Lo ha suggerito il serpente. Conclusione: il serpente sia maledetto per l'eternità e condannato a strisciare sul ventre e a essere calpestato. La donna, si sa, è tentatrice, quindi la colpa è anche, anzi quasi del tutto sua, mentre quel bambacione di Adamo se la cava meglio perché in fondo ha solo ceduto alla tentazione.

     Per fortuna questa messa (in scena) ha avuto molti intermezzi soprattutto corali. Musica che si srotola suggestiva, sobria, pensosa, spesso malinconica. Finché arriva il Maggiore! Che naturalmente non è un militare. Gli amici musicisti hanno di sicuro capito a cosa mi riferisco. Per gli altri, spiegazione terra terra. Quando un brano di musica trasmette una sensazione di malinconia, tristezza, costrizione, vuol dire che è scritto nel modo minore, una scala in cui le sette note sono separate da distanze particolari che danno per l'appunto la sensazione di malinconia. Senonchè, e crediamo che questo sia un saggio trucco che Santa Madre Chiesa ha imposto ai suoi compositori per rallegrare gli animi dei fedeli, dopo averli ben bene spaventati, molte musiche liturgiche, nell'amen finale, passano al modo maggiore. La terza nota della scala va su di un semitono (ovvero, cambia l'ordine degli intervalli che separano le note) e in un attimo tutto è diverso: si aprono i cuori, la malinconia scompare, e con lei le miserie terrene.


     PS. perplesso. Venti milioni di spettatori, picco storico di audience, mezza Italia televisiva a guardare due bambinoni, Benigni e Fiorello, in giacca di lamé e chitarra i quali, sul palcoscenico con licenza di dire cacca e culo cantano insieme il famoso inno del corpo sciolto: "Ci si pulisce il culo dopo aver cacato", "Noi siamo quelli che han cacato di sicuro", e ancora "Viva la merda e chi ha voglia di cacare".

       Quaranta milioni di orecchie, share alle stelle, mezza Italia che ride. Proprio non capiamo...


                                         

 
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Ma quanto eravamo stupidi

Post n°143 pubblicato il 01 Dicembre 2011 da torossis
 

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

    1 dicembre 2011

   MA QUANTO ERAVAMO STUPIDI


     A proposito di crisi economica, che in questi giorni è argomento da prima pagina, una delle immagini più frequenti in TV, ogni volta che si comincia a parlare dell'imminente apocalisse finanziaria, è la facciata della borsa di Wall Street a New York, che ci appare coperta da un'immensa bandiera a stelle e strisce. E' la bandiera americana che in USA è dappertutto, dal distributore di benzina al tribunale. C'è sempre stata, ma dopo l'11 settembre è diventata una presenza capillare e rassicurante.

     Il titolo di questo articolo ci fa tornare al tempo in cui per noi italiani esibire la bandiera era una vera e propria confessione di provincialismo, un'ammissione di nazionalismo assolutamente sacrilega perché la nostra sinistra politica, alla quale tutti (o quasi) noi facevamo riferimento, predicava l'internazionalismo, e il rifiuto di ogni pensiero di campanile. Troppo piccola e insignificante l'Italia rispetto alla grande patria socialista. Ma quanto eravamo stupidi! Per fortuna la vergogna della bandiera è passata, e si comincia a rivederla un po' in giro, vicina a quella dell'Europa. Non vogliamo azzardare l'ipotesi che siamo diventati più intelligenti, ma forse un poco più maturi, sì. E soprattutto più liberi di pensiero. Era il conformismo dell'anticonformismo. Un po' come quegli intellettuali che nelle interviste dichiarano orgogliosi di non avere la TV in casa, perché non la guarderebbero mai. Se qualcuno ci intervistasse, noi preferiremmo dire: Io ho la TV, che è un apparecchio come tutti gli altri, e la accendo solo quando voglio io.


     A proposito di bandiera, quella della Serenissima sventola da sempre sul pennone centrale di Piazza S. Marco a Venezia. E' bella, con quel gran leone con la faccia buona, e le frange in fondo. E a proposito di Piazza S. Marco, passateci questa considerazione frivola ma artistica. Proprio lì di fronte, sulla facciata della Basilica, peraltro fotografatissima da tutti, mentre a noi non piace neanche tanto, si affollano in fila gruppi di sei, dodici, diciotto colonne di marmi pregiati e colorati, come se la struttura architettonica del monumento non fosse sicura della propria armonia. E avesse bisogno di chiasso estetico, di confusione architettonica. E allora, giù colonne, pilastri, bassorilievi accostati a caso. Con il sospetto, anzi, lo sappiamo dalla storia, con la certezza che si tratta di roba rapinata in casa d'altri. Perché se il disegno di un edificio è semplice e armonioso (classico o modernissimo non conta) basta una mano d'intonaco. Altrimenti, bisogna abbondare con gli orpelli. Evidentemente è la bulimia di una città costruita sul fango, prima con il legno, poi, quando la Repubblica Veneta si accorse che continuare a usare quel materiale era un suicidio, con qualcosa di più resistente e meno combustibile, la pietra.


     A proposito di suicidio, assistito o no, quello di Magri ci è piaciuto perché ci è sembrato una decisione coerente con la nostra convinzione, ed evidentemente con la sua, che ognuno è il solo padrone della propria vita, altro che preti, parenti addolorati e mamme in lacrime. Però l'evento ci è parso un tantino troppo esibito, probabilmente non per scelta del protagonista, ma della sua tribù. Chissà. Non conoscendo personalmente né l'uno né l'altra, niente possiamo dire. Mentre forse possiamo permetterci di ammirare la scelta di Monicelli, che conoscevamo, compiuta coerentemente, senza nessuna regia, e con molto coraggio.


     PS. Torniamo al primo argomento. Dai giornali del 20 novembre: In Arabia Saudita, proibiti gli occhi troppo sexy (trucco o espressione, questo non è specificato). Minaccia di velo integrale obbligatorio per le donne che potrebbero turbare gli uomini con il loro sguardo assassino. Ecco che riappare la stupidità. Con tutte le mortificazioni che da quelle parti impongono alla donna, le norme di comportamento, naturalmente pensate e applicate dagli uomini, non fanno altro che confermare quanto segue: noi uomini siamo così immaturi e incapaci di controllare le nostre voglie che serve qualcosa (la legge, la religione) che ci protegga dalle tentazioni perché da soli non siamo in grado di resistere.

     E comunque, tanto per stare tranquilli, è chiaro e dimostrato: la colpa di tutto è sempre loro, delle donne.



                                      

 
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