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Perfidie di Stefano Torossi

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Messaggi di Luglio 2012

Non tutte le strade portano a Roma

 

  IL CAVALIER SERPENTE

    Perfidie di Stefano Torossi

       30 luglio 2012

        NON TUTTE LE STRADE PORTANO A ROMA


     Non tutte le strade portano a Roma. Un'antica strada romana è una fascia di grossi massi di pietra nera, i bàsoli, piantati uno accanto all'altro su un letto di sabbia. Abbiamo una domanda, da noi spesso girata ad amici architetti, che non ha mai avuto risposta. Come mai questi massi sono tutti di forme diverse, quando sarebbe tanto più razionale tagliarli tutti uguali, quadrati, rettangolari, non importa, ma tutti uguali (vedi i sampietrini delle strade ottocentesche di Roma, o i masegni di Venezia e Milano). Così da poterli installare rapidamente, in modo industriale (in fondo i Romani hanno costruito migliaia di miglia di strade: un'industria vera). Uno diverso dall'altro, come sono, la loro messa in opera diventa un complicato lavoro artigianale da reinventare a ogni colpo di scalpello.

     C'è un elemento che dà vita a queste pietre morte. I solchi delle ruote che per secoli hanno girato avanti e indietro sempre sugli stessi percorsi lasciando la loro cicatrice. Chi è stato a Pompei si sarà accorto che non c'è niente che faccia pensare alla vita improvvisamente sospesa di questa città come i solchi dei carri che segnano strade e vicoli. Se poi non vi va di fare il viaggio, basta affacciarsi sul Foro di Nerva a Roma (le colonnacce) e sotto si vede l'argiletum, un vicolo che lo collegava con la Suburra, pavimentato di tufo con i suoi bravi binari profondissimi (perché nel tufo che è più morbido del basolato le ruote sprofondavano di più).

     Bene, qualche giorno fa siamo andati a fare una passeggiata sull'Appia Antica. Sole a piombo, cicale, profumo di pini; naturalmente nessuno in circolazione tranne noi. Verso il quarto miglio, una squadra di operai, con il classico fazzoletto annodato in testa, e un piccolo escavatore meccanico. Cosa facevano? Un cartello ce lo ha spiegato: "Recupero e ricollocazione in quota del basolato romano originale". Nobile iniziativa, abbiamo pensato, e ci siamo fermati a guardare la squadra: braccianti sudati, perfetti per un film neorealista italiano, tranne che tutti parlavano rumeno.

    Forse un operaio dell'Est non è culturalmente portato a sottigliezze a proposito dei solchi sul basolato, forse nessun sovrintendente aveva pensato a dare le relative istruzioni, fatto sta che i pietroni venivano sì estratti dalla terra, ripuliti e ricollocati su un nuovo letto di sabbia, ma a caso. Nel tratto già sistemato le pietre c'erano tutte, bene accostate, ma il racconto dei solchi si era completamente perso; ci immaginiamo lo sconcerto del turista preparato nel vedere quei massi consumati dall'uso e segnati da fessure puntate in mille direzioni.

     "Allora non è vero - si sarà detto - che tutte le strade portano a Roma".


     Colonne. Una sola perfetta scanalatura rimasta su una colonna vale molto di più che se ci fossero tutte e ventiquattro intatte. Potere dell'immaginazione stimolata da un riferimento, anche minimo (la quale immaginazione neanche si mette in moto di fronte al Vittoriano che è tutto una colonna, un capitello, un richiamo a Roma antica, ma che non è stato ancora vitalizzato dalle mazzate del tempo).

     A Piazza di Pietra davanti alle undici magnifiche colonne di marmo bianco superstiti del tempio di Adriano, scopriamo che solo nell'ultima a destra è rimasta una scanalatura intatta. L'unica, ma che è più potente da sola che se fossero sopravvissute tutte.

      Poi, ovunque ci sono i segni dell'indifferenza per la bellezza di quei tempi scellerati. Quando si muore di fame non si bada all'arte. Si vedono i colpi stupidi dello scalpello medievale che, magari per far spazio a due maiali invece di uno o allargare l'ingresso della catapecchia, distruggeva senza neanche saperlo la perfezione classica.

 

     Spazi urbani. Sorprende la ristrettezza degli spazi fra un monumento e l'altro dell'antica Roma. Al Teatro di Marcello c'è un punto di altissima concentrazione architettonica ancora perfettamente leggibile: di fianco all'enorme teatro c'è l'angolo destro del Portico di Ottavia e due grandi templi contigui, quelli di Apollo e di Bellona separati da un vicolo minimo. Nel punto in cui i vertici di questi monumenti si incontrano ci sarà uno spazio di tre metri e mezzo al massimo. Chissà come mai si ignorava, pur avendola evidentemente teorizzata nella costruzione, la dimensione monumentale, che si perde se manca la distanza giusta da cui guardarla.

     Anche nel medio evo, tranne per le piazze davanti alle chiese o ai palazzi di città, tutto sorgeva in vicoli strettissimi, dove la maestà di una facciata si deformava all'occhio costretto a sbirciarla di traverso.

     Per arrivare al rispetto dello spazio intorno ai monumenti si è dovuto aspettare la moderna architettura di prestigio. Di famiglia: il grande quadrato davanti a Palazzo Farnese. Della chiesa: l'abbraccio ecumenico del colonnato di San Pietro. Del regime: gli immensi viali dell'EUR, o lo sterminato spazio intorno al ministero degli esteri.


                                       

 
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Allevi, nostro bersaglio preferito

 

  IL CAVALIER SERPENTE

    Perfidie di Stefano Torossi

    23 luglio 2012

    ALLEVI, NOSTRO BERSAGLIO PREFERITO


     Giovanni Boldini 1842-1931 è un magnifico e furbo illustratore dalla tecnica impeccabile, a cui bisogna riconoscere un'invenzione apparentemente banale, in realtà formidabile, che ha fatto la sua fortuna. Nei suoi ritratti (non ha dipinto altro tutta la vita) allunga le figure, un po' come El Greco, solo che quelle del Greco sono tragiche o mistiche, quelle di Boldini fatue ed eleganti. Ora, siccome desiderio supremo di tutte le dame e i dandy che si fanno fare il ritratto è sempre stato, allora come adesso, di apparire più magri e più alti, ecco che un quadro di Boldini diventava lo specchio delle loro brame.

     Furba, abbiamo definito la sua pittura; non brutta, tutt'altro. E' bellissima: colori lucidi, pennellate sapienti, somiglianze sicure. Ma furba. Non c'è una goccia di sudore, una punta di dubbio, un gemito di sofferenza.

   Arriviamo al dunque. Chi è il nostro contemporaneo, naturalmente di livello artistico infinitamente inferiore, ma gran furbacchione come lui, baciato dallo stesso successo e popolarità? Ma Giovanni Allevi, chiaro!

    Mancava da troppo tempo a insaporire le nostre uova avvelenate. Finalmente è arrivata l'occasione. Ce la da un video che gira su Facebook: "Beautiful Ladies". Il filmato è una sfilza di ritratti femminili di Boldini agganciati in sequenza con banali trucchetti di montaggio: zoom avanti e indietro, avvitamenti di immagini e simili. Roba casereccia. La colonna sonora è un brano di Allevi maliziosamente intitolato "Prendimi".

     Qui non c'è neanche la bellezza delle immagini ad aiutare. C'è solo la sua (di Allevi) banalità sconcertante (a nostro parere il brano è anche un po' accelerato per contrabbandarci un virtuosismo inesistente del pianista). Uno dei suoi soliti pezzi fatti di qualche arpeggio sdolcinato, di armonie da mozart de noantri, di temini naturalmente facilissimi. Un surrogato di musica.

     Insomma, se vogliamo perfidamente definire, come fa una parte della critica, Boldini un pittore sull'orlo del gusto, della ricerca, dell'impegno artistico, dobbiamo limitare questo giudizio a prima del suo incontro con Allevi. Dopo "Beautiful Ladies", i due sono rovinosamente precipitati insieme in fondo al canyon.

     Come Vil Coyote.


    PS. Sul Trovaroma di giovedì 12 luglio apprendiamo che Allevi è Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana; che proprio giovedì dirige un concerto sinfonico di musiche sue (purtroppo abbiamo un altro impegno; eh, eh!) e, sempre sulla stessa pubblicazione, ci viene offerto un significativo brano della sua autocelebrazione: "Travolto dalla musica abbandono ogni difesa, e, fragile ed emotivo, guardo il mondo col cuore di un bambino. La mia evoluzione giunge qui all'ingenuo e sublime incanto".

     Travolti anche noi da un irresistibile imbarazzo di fronte a questa sbrodolata di scemenze (non dimentichiamo che il nostro non è un teenager con turbe adolescenziali, ma uno scaltro ultraquarantenne), non possiamo però esimerci dal manifestare, come d'altra parte abbiamo sempre fatto, una grande ammirazione per il suo immenso intuito per il business.

     Non ne sbaglia una.


                                         

 
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Bacchette o forchette?

 

                                     IL CAVALIER SERPENTE

                                        Perfidie di Stefano Torossi

                                                16 luglio 2012

                                  BACCHETTE O FORCHETTE?


   Martedì dieci luglio, Parco della Musica, pomeriggio. Apertura del Japanese Musicfest con mostra di calligrafia giapponese contemporanea, concerto e spuntino sushi dopo i discorsi. Riassumiamo.

     La calligrafia: è una bellissima pittura che va letta, da chi ci riesce, naturalmente.  Ci dicono che ha anche significati più profondi di quelli esclusivamente decorativi che arrivano a noi. "Non ci sono correzioni. L'autore ripete la sua creazione cinquanta, cento volte finché non ne è soddisfatto. Di queste, una sola è l'opera che verrà mostrata al pubblico". Per noi è un altro mondo, anche se, nelle lapidi, il latino un po' ci aveva abituati a una bella presentazione estetica delle lettere dell'alfabeto. Ma le nostre sono troppo poche e semplici in confronto agli ideogrammi. Non c'è lotta. Noi riusciamo al massimo a notare quant'è elegante la codina della Q che si intrufola sotto la R di SPQR.

    La musica: ci hanno offerto un concertino di due suonatori di shamisen. Si tratta di strumenti a tre corde con la cassa di pelle, suonati con un grosso plettro. Voce fiacca e piuttosto fessa, estensione limitata. Percorso musicale dell'esecuzione, naturalmente incomprensibile. Nessuna armonia o contrappunto, è ovvio. E allora? Rimane poco. Forse la nostra mancanza di entusiasmo è dovuta a ignoranza, ma francamente crediamo che se fossimo dall'altra parte e qualcuno ci facesse ascoltare Mozart per la prima volta l'effetto sarebbe un po' diverso.

   Il sushi: anche qui, boh. Buono pezzetto di pesce crudo, buono riso colloso, buono alghe, ma tutto sa di soja; e poi quei bastoncini! Pittoreschi, però qualche tempo fa qualcuno ha inventato la forchetta. Non veniteci a raccontare che non è più comoda. Portare il cibo alla bocca è senz'altro un'operazione estetica, ma ci pare proprio che sia anche e soprattutto una faccenda pratica.


   Di corsa a San Giovanni in Laterano. C'è il Coro e l'Orchestra di Aquisgrana. Vivaldi, Bach e altri barocchi. Centosettanta musicisti impeccabili, tutti in nero. Davanti a loro, il pubblico; centocinquanta persone, sì e no, scalcinate e visibilmente stanche; naturalmente neanche un italiano. Fuori, sul sagrato si trascina uno dei tanti eventi romani, lettura della mano, birra e fritto misto. Esilarante il pieghevole del concerto, tradotto dal tedesco da qualche sconsiderato sacrestano o addirittura dal computer, costellato di "dirigenti d'orchestra" e di "componisti", che chiude con una frase di cui non vogliamo privarvi (non ci siamo inventati niente): "Il motivo principale degli esecutori è quello di far godere gli ascoltatori durante le messe e i concerti. Se in questa occasione si riuscirà a trasportare la fede cristiana questo è un effetto ben desiderato". Cantano e suonano benissimo. L'acustica dell'immensa chiesa amplifica e dà di magico all'orchestra e soprattutto al coro. Loro, un minestrone di ragazzi e vecchi, sono dentro una bolla divina, si vede. Trasportati in paradiso dalla musica. Anche noi siamo in un paradiso di aria condizionata naturale, suggestione sonora, bellezza per gli occhi, anche se di tanto in tanto importune risalite gastriche ci ricordano lo spuntino orientale di pochi minuti fa. In siffatta inappuntabile perfezione non ci è sfuggito un piccolo cedimento del "dirigente d'orchestra" che, prima di rientrare dopo l'applauso, nascosto dietro un pilastro, si arruffava il ciuffo, troppo composto.

     Abusivamente seduti nella primissima fila di poltroncine di velluto, di solito riservate ai prelati, inspiegabilmente assenti (non abbiamo visto una tonaca in tutta la basilica), viziati dalla musica, ci siamo dedicati a un esame approfondito del pavimento cosmatesco della chiesa. Labirinti, curve, triangoli composti di migliaia di pezzetti di marmi colorati e pregiatissimi, recuperati in epoca medievale fra le rovine dei monumenti romani. In quei tempi tutto era ridotto in frammenti dai crolli e dagli incendi, e ciò evidentemente ha suggerito questo stile geometrico e pittoresco, e soprattutto basato sul recupero, in un'epoca poverissima, di materiale ricchissimo, ma a pezzi. Elemento di raccordo fra queste geometrie sono dei tondi di marmo bianco, più o meno tutti della stessa misura. E qui ci è venuta l'illuminazione. Quei tondi sono fette di colonna. Siamo sempre in un'epoca povera, senza materiali, senza trasporti, senza utensili. Cosa ci può essere di più fortunato che trovare sotto terra una colonna romana, magari spezzata. Non è più intera, non è riutilizzabile; basta issarla su un cavalletto, tagliarla come un salame e, hoplà, ecco pronto il bellissimo pavimento.

                                  


 

 
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Mozart e lo scacciapensieri

 

           IL CAVALIER SERPENTE

           Perfidie di Stefano Torossi

           9  luglio 2012

           MOZART E LO SCACCIAPENSIERI


     Fantastico! Voi non avete neanche idea in quale angolo del mondo hanno piazzato il concorso internazionale di scacciapensieri. Perché una faccenda simile esiste davvero. A Cefalù, a Corleone? Neanche per sogno; a Jakutsk in Siberia. Notizia quanto meno stupefacente per noi che ci consideriamo gli inventori di questo giocattolo. Lo ha vinto l'anno scorso Albin Paulus, lo sconcertante solista che ha riempito da solo la prima parte della serata dedicata all'Austria dalla Filarmonica Romana nella rassegna "I Giardini di Luglio".

     Sorrisetto timido, aria per bene, qualche inciampo di italiano nelle garbate presentazioni, forse addirittura voluto, ha cominciato reggendo nelle due mani una batteria di cinque scacciapensieri, coi quali ha fatto qualche motivetto. Bah, il solito giocoliere, abbiamo pensato. Poi ha dato di piglio a flauti doppi, cornamuse, canto armonico e respirazione circolare, per chiudere di nuovo con il suo rastrello di scacciapensieri: Rossini e soprattutto Mozart. Continuiamo a trovarlo, come dire, più furbetto che musicale, anche perché, con tutta la buona volontà, da uno (o anche da cinque) scacciapensieri non è che si riesca a tirar fuori un gran che come musica, neanche andando a importunare Wolfgang Amadeus. Rimane il fatto che comunque lui è bravo e divertente, e lo spettacolo un giochino leggero, ben calibrato per un pomeriggio di luglio. Insomma un antipasto siberiano per il seguito della serata. 

     Che è andata avanti con una cena austriaca, chiusa da un ottimo strudel, e poi la Holstuonarmusicbigbandclub. Anche in questo caso: bah, i soliti caciaroni, abbiamo pensato di nuovo, che credono di cavarsela con un nome buffo. Infatti, all'inizio polke e marcette un po' da ridere finché si sono buttati sul funky. E qui, colpo di scena: solido ritmo e nostro stupore quando abbiamo sentito il solista al basso tuba (strumento che nel jazz tradizionale e nelle marce tirolesi si limita a dei zum e dei pa pa basici) buttarsi in un'efficacissima e tecnicamente impossibile impresa. Avete presente la velocità, lo stile e il virtuosismo di Jaco Pastorius al basso elettrico? La stessa identica cosa. Da non credere. Perché, a parte il fiato che serve, la mobilità delle dita e della lingua, c'è anche da considerare che il tuba, proprio per la massa di aria che mette in vibrazione nel suo canneggio è uno strumento lento di reazioni, un ippopotamo, per cui davvero non abbiamo capito come facesse quel pazzo a farlo galoppare come una gazzella. Eppure c'è riuscito, e più di una volta.

     Prima di portare la nostra attenzione altrove, un'ultima perfidia rilevata dal programma stampato. A proposito del concerto di duduk e dhol, musica popolare armena, al quale non siamo poi andati, le note dicono che "nel 2005 la musica per duduk è stata inserita dall'Unesco nella lista del patrimonio orale e immateriale dell'umanità". Ora, il nostro dubbio è: Anche quella brutta?


     Passiamo a un altro giardino, Villa Panfili. Apertura del Festival "I Concerti nel Parco", con un accorato annuncio dell'organizzatrice, Teresa Azzaro: "Quest'anno le autorità ci hanno dimezzato i fondi, ma il peggio è che ce lo hanno detto una settimana fa". Il solito rispetto nostrano per la cultura. "Ci manca Totò" è il titolo della serata gestita da Fausto Mesolella e Stefano Benni; tanto sobrio come presenza ed eccellente come virtuoso alla chitarra il primo, quanto ingombrante il secondo, come volume di capelli (a qualcuno dei meno giovani avrà di sicuro ricordato il Sor Pampurio) e soprattutto come abbigliamento: un pantalone più sfondato che sformato e una camicetta da fruttivendola. Anche se intelligente e irriverente nei contenuti, un anziano (65 anni, da lui stesso dichiarati al microfono) quando sale quei gradini un pensierino sul look dovrebbe farlo. E' una nostra fissazione, lo sappiamo, ma ci pare sacrosanta. Poi, dato che il posto è splendido e il talento c'era, la serata è filata benissimo e ci siamo divertiti, però...


     Bebop Jazz Club, cinque luglio. Qui andiamo sul personale, ma sempre di musica si tratta. Un divertente incontro fra amici (terza età) organizzato da Cicci Santucci, tromba e flicorno, ora residente in Massachussetts, a Roma solo per pochi giorni. Riunione di vecchie glorie, alcune non più performanti, altre invece sì, e con immutate capacità ed energia. Enzo Scoppa, Gianni Oddi, Michele Pavese, Sandro Brugnolini, il superdecano Carlo Loffredo, e altri. Supremi come solisti. Poi tutti insieme appassionatamente (e senza ritegno), in una jam session. A questo punto saetta la lingua biforcuta del Cav. Serpente. Jam session: "Riunione di musicisti che suonano brani famosi composti e registrati da altri musicisti famosi, eseguendoli molto peggio degli originali, ma divertendosi molto di più".

     Segue buffet. E qui, prima di chiudere, vorremmo farci ancora una volta la solita domanda, che sappiamo destinata a restare senza risposta. Ma perché nei locali dove si fa musica si deve mangiare così male?



                                      

 
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Va', vecchio John!

 

        IL CAVALIER SERPENTE

         Perfidie di Stefano Torossi

     2 luglio 2012

      VA', VECCHIO JOHN!


     La rassegna della Filarmonica Romana si chiama "I giardini di luglio", e lo slogan del titolo, lanciato naturalmente a John Cage, è un po' la bandiera anticonformista di tutta la faccenda (con sconfinamenti nel bizzarro e nell'esotico, e anche nel temibile, di cui parleremo). Diamo un'occhiata al libretto, che merita, perché pieno di spunti di ironia, qualche volta perfino involontaria, ci pare (se invece è voluta, tanto di cappello, ammesso che i serpenti lo portino). Il 25 giugno gli spettacoli iniziano alle 16.93 (ora di Cage), oppure alle 20.105 (anche) e uno dei concerti si intitola "Open the Cage" (Apri la gabbia). Il 26, a fine spettacolo ci offrono un drink Cage creato con la combinazione randomizzata di 46 liquidi diversi. Il 6 luglio proiettano il film "Le vent des amoureux", girato con la tecnica helivision, inventata dal regista Albert Lamorisse per riprese dall'elicottero. "Proprio mentre effettuava questo tipo di ripresa - testuale dal libretto - Lamorisse è deceduto in un incidente di elicottero". Forse il sistema aveva ancora bisogno di rodaggio e lui doveva andarci un po' più cauto? L'esotico si affaccia il 4 luglio in una giornata dedicata all'Armenia con un buffet tipico. Col bizzarro abbiamo a che fare il 3, perché ci propongono un signore austriaco che suona Mozart allo scacciapensieri, e l'Holstuonarmusicbigbandclub (?). Temibile, e la eviteremo, è la giornata norvegese, il 2, dedicata (oltre che a una cena scandinava, forse non proprio indicata per le temperature di questo periodo) a lieder per soprano, mezzosoprano e pianoforte. Il lied, specialmente quello nordeuropeo, è un fatto che a noi provoca letargia, imbarazzo per la inevitabile pesantezza quando invece vuole essere umoristico, e pena per la povertà di colore della combinazione voce-pianoforte. Opinione personale e contestabile, naturalmente.

     Il posto è una meraviglia. Un giardino con allori che sembrano baobab, un asciutto profumo di estate, e il vantaggio di essere appena fuori porta: quattro minuti e mezzo a piedi da Piazza del Popolo. Alle 21.45 (ora normale) del 26 giugno: "Spazio Curvo", musica e strumenti inventati da Michelangelo Lupone. Più che un'esecuzione la definiremmo un'istallazione. Tre immensi tamburi microfonati piazzati sul palco e illuminati di colori che cambiano con i suoni; percossi o accarezzati da Philippe Spiesser, con grandi gesti pittoreschi, intercalando le pelli con tromba, campanaccio e varie sonagliere. All'inizio la suggestione è assoluta; quello che esce dai tre pentoloni è inaspettato e bello, poi comincia ad arrivare una qualche assuefazione, che a un certo punto tende a trasformarsi in "basta!". E' che non c'è un disegno ritmico, dei ritorni, qualcosa che uno riesca a seguire come si segue una melodia, e allora la musica, o meglio il suono perde la presa sull'ascoltatore. Come mai? Probabilmente perché questa suggestione sonora è solo il condimento, e manca il piatto base, il racconto. Ci sono venuti in mente, mentre ascoltavamo Spiesser, sempre più insofferenti man mano che scorrevano i 29 minuti del brano, i Tamburi di Kotò, quel gruppo giapponese (quasi una fratellanza mistica) di decine di percussioni di ogni dimensione, capaci di tramortire il pubblico per serate intere. Loro il discorso lo fanno e, trattandosi di tamburi, il linguaggio non può che essere ritmico. Qui alla Filarmonica ci è sembrato che Lupone al discorso non ci avesse pensato proprio. Da cui, secondo noi, la perdita di tensione e di attenzione.


     Cambio scena! Mondanità e sangue blu. Capitiamo la sera del 27 alla consegna del Premio Via Condotti 2012. Palazzo Torlonia a Bocca di Leone, una meraviglia (qui a Roma, dovunque si capita è una meraviglia), ottimo cocktail; raramente visto in contemporanea un così alto numero di nobili chiappe adagiate sulle sedie nel giardino. Cicaleccio di principi e politici, di commercianti e gente di spettacolo. Conduzione very casual (non diremo casereccia come sarebbe più giusto, per rispetto alla regale ambientazione). Interventi spesso zoppicanti, puntualmente tamponati con garbo e presenza di spirito da Gianni Letta, un misto tra Paolo Limiti e Mike Buongiorno, sempre sul palco, pronto e generoso nelle emergenze. Filmato, dolorosamente lungo, per raccontare la carriera del premiato numero uno, Dante Ferretti; oltretutto inquinato da un difetto del lettore DVD che ogni tot salta fastidiosamente diversi fotogrammi. Che diamine, non siamo mica in Germania dove tutto funziona perfettamente. Eh eh! (*) Poi toccherebbe a Mariangela Melato, assente per malattia e sostituita da Arbore; e finalmente, Cocciante. Il quale, uomo di scena fino in fondo, prima finge, ammiccando, di stupirsi perché proprio lì accanto a lui c'è un pianoforte che, guarda un po', ha già i microfoni aperti, poi cerca di impadronirsi dello show per dargli un passo professionale. Difficile, molto difficile, con gente che vaga e si urta sul palco e l'astuccio del premio che passa di mano in mano, senza mai arrivare a quella giusta, la sua. Finalmente caccia tutti, canta benissimo un paio di pezzi, e poi (anche qui umorismo involontario?) conclude la serata, mentre le cariatidi del pubblico si accalcano zoppicando verso l'uscita, con una sua canzone che fa: "Morire con la voglia di vivere..."


     (*) Scritto all'indomani della partita Italia - Germania.



                                   

 
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