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Perfidie di Stefano Torossi

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Messaggi di Maggio 2013

Era una notte buia e tempestosa

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

    27 maggio 2013

  ERA UNA NOTTE BUIA E TEMPESTOSA


Snoopy non c'entra, è solo un richiamo che speriamo tutti riconoscano. Noi vogliamo parlare della traduzione, non dalle altre lingue in italiano, ma dall'italiano all'inglese. Siamo una provincia dell'impero, e la lingua ufficiale di questo impero è l'inglese, come duemila anni fa lo era il latino, quindi, se vogliamo farci leggere, ci tocca tradurre. And here falls the donkey, qui casca l'asino!

Il problema si è riproposto ancora una volta alla conferenza stampa di Naturarte, l'associazione dei parchi lucani, mercoledì 22, alla Casa del Cinema. Ricca cartella stampa, con un DVD sul pino loricato (che ovviamente tutti siamo interessati a conoscere, no?), più mappe, volumetti, guide, su bella carta lucida, con ottime fotografie e testi; insomma tutto molto professionale e di gusto. E poi purtroppo, di quei testi c'è anche la traduzione. Nell'inglese di casa nostra (vedi proverbio e sua traduzione casereccia qualche riga qui sopra). Il termine vuole proprio essere offensivo perché, come confermato anche in questa occasione, ogni volta che ci si prova, il risultato non è una buona comunicazione, ma una risata alle nostre spalle. Impossibile citare esempi, ma è chiaro che al lettore di madrelingua inglese a cui è destinato, il messaggio tradotto senza vergogna (da qualche cugina di un assessore locale appena tornata da una vacanza a Londra?) farà la stessa impressione che a noi possono fare i "macaroni" o il sempre più frequente "that's amore".

Quanto è importante, invece, azzeccare una frase come quella del titolo, oppure quel gioiello di fantasia che è il "bacarospo" (Bart Simpson); che non sono traduzioni letterali, sarebbe impossibile, ma brillanti invenzioni (del traduttore, per l'appunto, sempre e soprattutto nel rispetto della lingua, sia quella di partenza che quella di arrivo) per trasferire un'immagine, una sensazione, da una parte all'altra della barriera linguistica.


Sabato 18 assistiamo a una bella prova di vivacità culturale da parte del pubblico romano. Ore 19, primo evento della Notte dei Musei, alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna, nel meraviglioso salone dell'Ercole di Canova, fantastica montagna di candido marmo creata dall'ultimo scultore classico italiano. Si presenta il catalogo delle opere di Giulio Paolini, "Sulla Soglia". Nel grande spazio sono allineate centocinquanta sedie (le abbiamo contate); di fronte, proprio sotto l'immensa ma non pesante massa dell'Ercole, il tavolo dei relatori.

Che sono sei. Il pubblico, dodici. Tutti a ripeterci volenterosamente "pochi ma buoni", ma sempre sei più dodici rimaniamo. Che imbarazzo.


Avanti con la fiera della pochezza. Due titoli sui giornali di questi giorni: "Senza velo sull'Everest" e "Il Papa esorcista". Fa notizia un'insensata, anche se per molti valorosa, impresa sportiva: la scalata del monte più alto del mondo da parte di una donna che non porta il velo. Cioè, l'eccezionalità del fatto non è che una signora o signorina si arrampichi per ottomila metri in verticale, ma che lo faccia senza il fazzolettone in testa. Si può essere più infantili? Anno 2013, e la regola imprescindibile per una buona porzione dell'umanità è ancora che la metà di loro, le donne, siano vestite, anzi coperte, anzi mortificate da uno straccio sui capelli, sul corpo, addirittura sulla faccia.

Ma è altrettanto sciocco che un'altra buona porzione, sempre nel 2013, attribuisca a un signore vestito di bianco, importante ma sostituibile ogni pochi anni, il magico potere di cacciare dal corpo di un suo simile uno spirito cattivo, variamente identificato, descritto e soprattutto usato come spauracchio nei secoli: il diavolo.


Ciliegina su questa amara torta e momento di commozione e di nostalgia per tutti noi della generazione in via di estinzione: la Storia della RCA a cura di Mario Cantini, trasmessa da Raistoria domenica scorsa. Un'ora di interviste ai pochi ancora in circolazione, con molti documenti in bianco e nero in cui abbiamo riconosciuto artisti poi diventati famosi, ma anche assistenti musicali, fonici, e perfino i due mitici gestori dell'altrettanto mitico bar, Gino e Mario, uno coi baffi e l'altro senza. Commozione e nostalgia, dicevamo, e anche dispiacere nello scoprire che invece di diventare il museo di mezzo secolo di musica italiana, come sarebbe stato logico (volevamo dire intelligente, ma poi ci è sembrato di esagerare), gli stabilimenti di Via Tiburtina si sono convertiti in un deposito di scarpe.  



                                        

 

 
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Jazzisti, anziani e non

 

  IL CAVALIER SERPENTE

    Perfidie di Stefano Torossi

     20 maggio 2013

   JAZZISTI, ANZIANI E NON


Immaginate un distinto signore sugli ottanta, faccia ironica, erre moscia da piemontese, che suona compassato e benissimo, ma nei momenti di estremo virtuosismo esibisce una mimica concentrata nelle labbra che sembrano mormorare una silenziosa preghiera, mentre invece noi sappiamo che sta canticchiando fra sé e sé le improvvisazioni sul tema. Repertorio anni '20 / '40, con un inconfondibile tocco ragtime, uno stile nato sugli scassati pianoforti verticali dei bordelli di New Orleans. Questa sera l'ascolto è favorito dall'uso di una tastiera elettronica di qualità piuttosto scadente con il difetto, ma per noi il pregio, di esaltare i bassi, la mano sinistra del pianista insomma, di grande importanza per quel genere, ma normalmente un po' trascurata.

Si tratta di Ettore Zeppegno, già direttore artistico della gloriosa e ora defunta RCA. Lo abbiamo ascoltato lunedì 13 al Fonclea di Roma, mentre ci regalava garbati aneddoti sui grandi autori americani d'anteguerra, alternandoli ad altrettanto garbate esecuzioni del repertorio degli stessi, insieme alla voce d'epoca di Giò Giò Rapattoni. Con amici musicisti, Mazzoletti, Podio, Reverberi ad ascoltarlo, eravamo anche noi un tavolo d'epoca. Atmosfera purtroppo funestata da una malandata amplificazione che non faceva sentire bene le voci dal palco. Mentre si sentivano anche troppo quelle della gente maleducata (anch'essa d'epoca), un po' similgita aziendale, rumorosa e distratta. Tanto è vero che il romantico brano scelto per chiudere il concerto "Every time we say good bye" è caduto nella confusione provocata, ci si perdoni il bisticcio, dalla caduta vera e propria in mezzo al locale di una delle chiassose vecchiette del pubblico.


Il giorno dopo, martedì, apre al Parco della Musica il Festival del Sassofono con metà concerto a Javier Girotto e il suo Atem Quartet (di sassofoni, naturalmente: soprano, alto, tenore e baritono). Entrano tutti in fila, in una mano lo strumento, nell'altra la solita bottiglietta di plastica. Buttar giù molta acqua è senz'altro sano, e per i fiati probabilmente indispensabile. Ma se ripensiamo agli anni passati, ci viene da chiedere: come facevamo allora, quando nessuno beveva in scena?

Brani scritti benissimo, arrangiati ancora meglio ed eseguiti in maniera superlativa, ma così strapieni di note da poter ipotizzare una diagnosi di bulimia musicale. E poi tutte note puntate, saltellanti, secche. E' chiaro che non essendoci una ritmica tradizionale, è necessario sostituirne la percussività, appunto con tante note ribattute e accentate. Però l'effetto ricorda una riunione di uccellacci e uccellini che pigolano tutti insieme. Per non parlare degli assoli di Girotto, forse più propriamente cadenze, in cui quell'eccellente strumentista che è Javier ci travolge con la sua eruzione di note, numerose come i capelli della sua coda di cavallo. Ma questo è solo pettegolezzo. Ripetiamo: la musica è splendida.

L'altra metà della serata è di Rosario Giuliani e il suo gruppo. Ottimi anche loro. Più classica come formazione (sax, piano, basso, batteria). Bellissime composizioni di Giuliani, che, mentre ci appagano musicalmente, ci fanno trasecolare per il carattere dell'ispirazione. Ma come? Siamo cresciuti convinti di vedere in ogni jazzista un demonio di talento, dedito all'alcol, alla droga, al vizio in tutte le sue forme; invece Giuliani ci presenta un programma composto da:  un brano che descrive un idilliaco laghetto siberiano, poi un altro che evoca con nostalgia la sua città natale, Terracina, e addirittura uno dedicato alla sua mamma "Angel at my side". Non c'è più religione!


La rassegna prosegue, ma, siccome abbiamo voglia di commuoverci, e dobbiamo ammettere che il jazz ci entusiasma, ci fa battere il tempo, ma a commuoverci proprio non ci riesce, giovedì sera deviamo verso la chiesa di S. Luigi dei Francesi (per intenderci quella dei famosi Caravaggio), dove ci attira l'esecuzione del commoventissimo Requiem di Fauré, diretto da Eduardo Notrica per il festival Suona Francese, con l'orchestra Nuova Amadeus e i cori Carocoro e Decanter. Folla enorme e inconsueta per il genere (efficienza dell'ufficio stampa?). Ottima esecuzione. Molto oro in chiesa, molto marmo, molte figure barocche che escono dalle cornici del soffitto e prendono il volo. Come il nostro spirito, trasportata da questa musica morbida, emozionale, ogni tanto grandiosa, ma mai terribile come nel Dies irae di Verdi, né inquieta come nel War requiem di Britten. Non composta, secondo l'ammissione di Faurè, per onorare un morto famoso, ma solo per il piacere di scriverla. Ci siamo commossi, come avevamo previsto, durante il "Libera me", il momento in cui nella funzione funebre l'anima invoca la libertà dall'eterno castigo.

Per nostra fortuna l'umanità convive, da quando se n'è resa conto, con la consapevolezza della propria morte. Un pensiero che non solo spinge gli artisti a creare queste belle cose per sopravvivere nel tempo, ma è anche l'unica certezza che dà un qualche significato alla vita. Se noi non sapessimo che dobbiamo morire, non saremmo altro che sette miliardi di babbuini senza criterio.


Piantiamola qui e registriamo la finale, sabato, del Festival del Sassofono. Non abbiamo più spazio se non per dire che si è concluso con onore. Alla prossima.


 

                                         

 
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Stavolta qualcuno si arrabbia

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

   13 maggio 2013

   STAVOLTA QUALCUNO SI ARRABBIA


La Sala Accademica. Conservatorio di Santa Cecilia. Sabato 11 maggio. Concerto di organo, marimbe e vibrafono, programma interessante e inconsueto. Però prima due parole sul luogo. E' una grande bellissima sala tutta bianca che pare fatta di meringa. Stucco sulle balconate, i cornicioni e il soffitto, molto alto, ornato al centro da un grande stemma sabaudo. Comode poltroncine rosse, ed elegante pavimento di parquet. Quindi, confort, ma...Già qualche settimana fa ci siamo lamentati della batteria di diciotto fari disposti ai lati del palcoscenico per illuminare i leggii dei musicisti, che sparano anche negli occhi degli spettatori con effetto molto sgradevole. Oggi siamo colpiti anche dalle lucette guida lungo il pavimento e sotto i gradini delle scale che salgono al palco, di un blu intensissimo e luminosissimo. Per funzionare, soprattutto in considerazione dell'età media del pubblico, ovviamente devono rimanere sempre accese, insieme alle segnalazioni delle uscite (per intenderci, quei quadratini verdi con l'omino che corre), che nella sala sono una dozzina.  C'è anche una fila di violenti neon sulla balconata. Insomma, massima sicurezza, ma anche una luminaria parecchio fastidiosa.

Veniamo alla musica. Interessante combinazione di organo, vibrafono e marimbe. E' la prima volta che sentiamo insieme questi tre strumenti. Ottima l'idea dei promotori del concerto, Giorgio Carnini, Sandro Cappelletto ed Edda Silvestri, e ottima l'esecuzione dei tre solisti: Di Ilio, Ruggeri e Caggiano. Nel programma anche "Marimba phase" di Steve Reich, un brano chiaramente provocatorio in cui due marimbe, strumenti per loro natura non molto espressivi, ripetono rimandandosela la stessa cellula con minime variazioni per almeno cinque minuti. E cinque minuti, se non ti diverti, sono un'eternità. Diciamo pure che una provocazione può manifestarsi in tanti modi, ma guai se è noiosa. Anche Strawinskij riuscì a scandalizzare il mondo nel 1913 con la Sagra della Primavera. Però, quella musica, anzi, quella provocazione, era tutto, proprio tutto tranne che noiosa.


Il povero violoncellista. Gran chiasso in questi giorni sulla stampa di Roma. Un vigile ha multato Fabio Cavaggion che stava suonando il violoncello fuori dell'orario consentito in piazza San Simeone. Intervento immediato del collega Giovanni Sollima che organizza, con i suoi cento violoncelli, un concerto di sostegno al povero musicista di strada, vittima della burocratica efficienza del tutore dell'ordine, sulla stessa piazza dove di solito si esibisce. Nobile gesto, al quale ovviamente non possiamo che applaudire.

Il maestro Cavaggion è raccontato dai giornali come una specie di genio incompreso, diplomato a pieni voti, ma vittima dell'insensibilità delle istituzioni che non gli permettono di lavorare. Naturalmente il giorno dopo siamo andati in piazza a sentircelo mentre eseguiva le suite per violoncello di Bach. Roba difficile, lo sappiamo, però le suonava male. E allora, certo, lavorare in orchestra, magari anche come solista, diventa problematico, e forse non solo per colpa del mondo crudele...

Siamo da sempre convinti che il genio incompreso non esista. Intendiamoci, è chiaro che non basta saper suonare o dipingere, o scrivere bene.  Per avere successo, per commercializzare il proprio prodotto, bisogna anche saperlo proporre: frequentare gli ambienti giusti, seguire le tendenze del momento, possibilmente non ubriacarsi o drogarsi, rispettare le scadenze, e non fare troppo il ribelle.

Oppure, e questo è davvero difficile, essere sé stessi con tutti gli squilibri del caso, ma avere il buon senso di riconoscere la propria inefficienza, e l'umiltà di affidarsi, magari facendosi sfruttare (perché no? Se serve a farti strada; poi, quando sei famoso, ti riscatti) da qualcuno più capace: editore, discografico, gallerista. E siccome il mercato ha sempre bisogno di talenti su cui guadagnare, ecco che in un modo o nell'altro il genio trova il suo spazio (e il mezzo genio trova il suo mezzo spazio), ma comunque nessuno muore più di fame.


Broz e Scoz. Roba da Corriere dei Piccoli. Ci è arrivata su internet la pubblicità di una "Guida pratica per i musicisti - dal curriculum all'Enpals", titolo accattivante di un corso della United European Culture Association che promette la risposta, fra l'altro a prezzi contenuti, a molte delle domande che assillano gli artisti all'inizio della carriera. I due docenti, professionisti certamente degnissimi, si chiamano Barbara Broz e Giovanni Scoz. Esistono davvero, li abbiamo trovati in rete, ma certo quei due nomi in coppia fanno tanto Cip e Ciop, Cric e Croc, Qui Quo Qua, e simili. Forse uno pseudonimo sarebbe stato più opportuno...


 

 

 
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Strane alchimie dell'amicizia

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

 6 maggio 2013

 STRANE ALCHIMIE DELL'AMICIZIA


Strane alchimie dell'amicizia. Per un paio di mesi, dopo il 24 ottobre 2006, siamo stati la vedova Lauzi, e in questi giorni (dal 2 maggio) stiamo diventando la vedova Catalano. Serve una spiega? Forse sì. Sia di Bruno Lauzi che di Massimo Catalano eravamo gli amici storici. Con Bruno ci conoscevamo dal 1963, quando ci provammo, riuscendoci, a escogitare un inghippo per salvare un nostro amico clarinettista americano, a Roma con una borsa di studio, dal richiamo in Viet Nam. Con Massimo addirittura dal 1959, quando per breve tempo il gruppo dei Flippers ci prese in carico come contrabbassista. Sono morti tutti e due. E, prima con l'uno, poi con l'altro, ci siamo trovati, proprio nella nostra qualità di migliori amici del deceduto, a fare la parte della vedova, a ricevere le condoglianze, le scuse di chi non si sentiva a posto, e i rimpianti di chi pensava di non aver fatto abbastanza. A essere, insomma, con una grande gratificazione di protagonismo narcisistico, il punto di riferimento su cui coagulavano tutte le emozioni messe in subbuglio dalla morte. Strane alchimie dell'amicizia, davvero.

 

Torniamo al consueto. Due miracoli quasi contemporanei. Ecco i fatti. Martedì 30 aprile, un invito al teatro Argentina per un pomeriggio in onore del poeta Sandro Penna. Presenti e commemoranti, a cura di Franco Marcoaldi: Elio Pecora, Silvia Bre, e altri colleghi del commemorato. Il miracolo si compie quando non riusciamo a entrare in sala perché è tutto esaurito. Un incontro di poeti tutto esaurito! Altro che all'Argentina, a Lourdes sembrava di stare. Stupefatti e ultrafelici di questa manifestazione di trionfo culturale, ce ne andiamo a salutare un nuovo ristorante dalle parti del Panteon, che si chiama "La Ciambella". Ottimi spuntini, sapienti aperitivi, birra freschissima, e voilà il secondo miracolo. Vaschette di gelatina di Negroni. Non siamo riusciti a sapere il segreto del barman; fatto sta che per noi che amiamo appassionatamente questo drink anni '60, è stato un vero regalo. Gelatina molto morbida, colore, sapore, e soprattutto l'effetto inebriante del vero Negroni.


Inutile crudeltà. "Festival Suona Francese" a Villa Medici, ambiente fra i più belli del mondo; un concerto del PluralEnsemble. Musiche dei giovani borsisti del Prix de Rome. Alcuni nomi: Andreyev, Sakai, Tian. Qualcuno forse farà strada, altri, ma non vi diciamo chi, secondo noi, proprio no. Esecutori buoni? Come si fa a dirlo. Di sicuro ce n'era una bellissima, bionda, eterea, che teneva per il collo un clarinetto basso recalcitrante, e sappiamo tutti che razza di suoni riesce a emettere quello strumento se non è trattato con polso. La crudeltà? L'idea di alternare nel programma le opere discutibili, e in discussione, dei ragazzi con quelle di autori affermati e indiscutibili, come Webern, Messiaen e De Falla. Un massacro.


Sabato 4 maggio al Teatro Studio una composizione dell'81 di Giorgio Battistelli: "Experimentum mundi - Opera di musica immaginistica per 16 artigiani, coro femminile, voce recitante e percussioni". Uno di quei titoli che rimandano alle sperimentazioni, spesso interpretabili come prese per i fondelli, di quegli anni. Quindi, armati del nostro miglior ghigno beffardo, assistiamo alla preparazione della scenografia: mucchietti di calce e mattoni, deschi da ciabattino, uova e farina su un tavolo, e così via. Entrano gli artigiani vestiti giustamente da artigiani: grembiuloni, tute e canottiere, poi, in borghese, Peppe Servillo, voce recitante, poi le coriste in lungo, e finalmente il percussionista e il direttore (lo stesso compositore Giorgio Battistelli) in frak. Comincia il pasticcere rompendo mezza dozzina di uova su un cono di farina, e bisogna lodare il perfetto funzionamento dei microfoni che trasmettono mirabilmente lo spezzarsi dei gusci, lo splasc del tuorlo che cade nella farina, lo sbattere dell'albume. Poco a poco entrano tutti gli altri per creare un'ora di suoni del lavoro, tenuti a regime dal percussionista professionista, e dalla voce che elenca mestieri e utensili. Dobbiamo confessare che il ghigno beffardo ce lo siamo rimessi in tasca e abbiamo cominciato davvero a goderci questa invenzione geniale di Battistelli, dove di musica in senso tradizionale non si può certo parlare, ma di spettacolo musicale sì. In conclusione, a fine esecuzione, sul palco c'erano: tagliatelle per dodici pronte da cuocere, una botte assemblata, un paio di metri quadrati di selciato steso, un muretto costruito, altre realizzazioni varie, e applausi scroscianti.

Ci siamo divertiti. Adesso, qualche insignificante appunto e una domanda. Gli artigiani ci sono sembrati troppo precisi nel seguire la direzione per non avere il diritto al titolo di percussionisti musicali (magari provvisori). Servillo in alcuni passaggi suonava troppo napoletano e burattinesco, alla Pappagone, per capirci. Sciocchezze. La domanda invece è questa. Come avrà fatto l'autore a depositare la sua opera alla SIAE? Perché la partitura, e sul podio la partitura c'era, sarà stata piuttosto una specie di lista della spesa: 12 uova, 1 chilo di farina, 130 sanpietrini, 2 tomaie e 4 tacchi, 50 kg di calce...



                                        

 
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