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Perfidie di Stefano Torossi

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Messaggi di Agosto 2013

IL MIRACOLO DELL'OSTIA FRITTA - Replica dal 3 settembre 2012

Post n°237 pubblicato il 31 Agosto 2013 da torossis

 

 

   

 


                                

 

      IL CAVALIER SERPENTE

      Perfidie di Stefano Torossi

        29 agosto 2013

            Replica dal 3 settembre 2012

           IL MIRACOLO DELL'OSTIA FRITTA


C'è a Roma, ai piedi del Palatino, la chiesa di S. Anastasia. Qui, appoggiate alle pareti, stanno otto bellissime colonne romane di scavo; sette di un bel marmo color miele con screziature bruno violette. L'ottava è di un elegantissimo grigio striato di bianco, magnifica.

Bene, placata la nostra fissazione architettonica, veniamo al vero scoop. Nella navata di destra c'è una gran bacheca che espone, raccontati in ordine cronologico, i più clamorosi miracoli transustanziali del passato.

Per la Chiesa il miracolo eucaristico della transustanziazione, che si ripete a ogni celebrazione, è credere che nell'ostia e nel vino c'è la carne e il sangue di Cristo. Ovviamente è un fatto che non si può, anzi, che non ci si deve sforzare di dimostrare. Crederci e basta, se no sono guai.

Si sa che quando ci si affaccia all'indimostrabile si scivola anche nel baraccone dell'ingenuo e del grottesco. Qui ci stiamo dentro in pieno. Naturalmente abbiamo scelto i casi più pittoreschi. Uno più esilarante dell'altro.


Uno. Anno Domini 595. Miracolo di San Gregorio Magno. A messa, una donna di fede poco salda scoppia a ridere sonoramente (sottolineato nel testo) mentre si comunica. Scandalo in chiesa. Il papa blocca la funzione. A questo punto il pane dell'ostia diventa carne e si mette a sanguinare. La donna si pente, il papa si tranquillizza, e tutti tornano a casa felici e contenti.

Due. Il miracolo dell'ostia fritta (non è un titolo nostro, sarebbe troppo facile. Sta scritto proprio così nella bacheca). Siamo nel nono secolo dopo Cristo. Una (badate bene) ebrea si intrufola in chiesa, ruba un'ostia, se la porta a casa, e per sfregio, dopo aver messo sul fuoco una bella padella di olio bollente, ce la butta dentro per a cucinarla. Colpo di scena: l'ostia non solo non frigge, ma si mette a sanguinare inondando in poco tempo tutta la casa. Emozione al paesello. Viene convocato il vescovo, si organizza in quattro e quattr'otto una processione per espiare il sacrilegio, e il luogo del peccato è trasformato in chiesa. Della donna non si dice più niente; siamo un po' preoccupati per la sua sorte.

Tre. Miracolo di San Pier Damiani, è il 1050, località sconosciuta. Una donna, cedendo a suggestioni abominevoli, per fare un maleficio a casa sua ruba un'ostia e la porta via nascosta sotto il vestito. (Qui bisogna stare molto attenti perché sotto un vestito femminile, specialmente in quell'epoca in cui non tutte portavano le mutande, ci possono essere dei punti molto rischiosi per un'ostia innocente). Un prete furbo se ne accorge, l'insegue, l'acchiappa e recupera l'ostia, la quale, questa volta chissà per quale capriccio si divide in due parti, una rimane di farina, l'altra si trasforma nella solita polpetta sanguinolenta.

Quattro. Anno 1228, miracolo di Alatri. Una giovane suggestionata dal cattivo consiglio (continuiamo a riportare fedelmente le parole dei testi) di una malefica femmina, dopo aver ricevuto dal sacerdote il corpo sacratissimo di Cristo, lo trattiene in bocca fino al momento in cui lo può sputare fuori per nasconderlo in un panno. Qui ci tornano in mente le minacce del nostro insegnante di catechismo che ci preparava alla prima comunione e ci aveva proibito di toccare l'ostia coi denti per non rischiare di far male a Gesù. E ricordiamo anche la sensazione di angosciosa apnea quando questo tondino si appiccicava al palato, perché neanche con un dito lo si poteva spostare. Torniamo a noi. Dopo tre giorni la giovane suggestionata va ad aprire il panno e trova, ancora una volta, l'hamburger al sangue, a quanto pare sempre freschissimo. Immediata confessione e pentimento. Minaccia di punizioni efferate soprattutto per la femmina malefica a cui viene attribuito il ruolo di mandante. Però stavolta c'è il lieto fine. Dopo averle spaventate a morte, le autorità ecclesiastiche rimandano a casa le due con una ramanzina, e basta.


Ci fermiamo qui, anche se ci sarebbe molto altro. Tutto vero. Piazza S. Anastasia al Circo Massimo, andate a vedere coi vostri occhi. Noi non vogliamo esagerare e cadere a nostra volta nel ridicolo. Ma ci teniamo a sottolineare due punti. Primo: tutti i miracoli cessano appena compaiono tecniche o apparecchi capaci di registrarne una testimonianza. Secondo, e qui stiamo messi molto peggio, peccatrici, dubbiose, eretiche, ladre sono tutte donne. Capito? La Chiesa non si smentisce. Il diavolo, c'è poco da fare, sta sempre sotto le sottane.



                                          


                                        


 

 
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VA',VECCHIO JOHN - Replica dal 2 luglio 2012

Post n°236 pubblicato il 26 Agosto 2013 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

 26 agosto 2013

  Replica dal 2 luglio 2012

  VA', VECCHIO JOHN!


La rassegna della Filarmonica Romana si chiama "I giardini di luglio", e il nostro titolo, lanciato naturalmente a John Cage, è un po' la bandiera anticonformista di tutta la faccenda (con sconfinamenti nel bizzarro e nell'esotico, e anche nel temibile, di cui parleremo). Diamo un'occhiata al libretto, che merita, perché pieno di spunti di ironia, qualche volta perfino involontaria, ci pare (se invece è voluta, tanto di cappello, ammesso che i serpenti lo portino). Il 25 giugno gli spettacoli iniziano alle 16.93 (ora di Cage), oppure alle 20.105 (anche) e uno dei concerti si intitola "Open the Cage" (Apri la gabbia). Il 26, a fine spettacolo ci offrono un drink Cage creato con la combinazione randomizzata di 46 liquidi diversi. Il 6 luglio proiettano il film "Le vent des amoureux", girato con la tecnica helivision, inventata dal regista Albert Lamorisse per riprese dall'elicottero. "Proprio mentre effettuava questo tipo di ripresa - testuale dal libretto - Lamorisse è deceduto in un incidente di elicottero". Forse il sistema aveva ancora bisogno di rodaggio e lui doveva andarci un po' più cauto? Soprattutto con quel nome...

L'esotico si affaccia il 4 luglio in una giornata dedicata all'Armenia con un buffet tipico. Col bizzarro abbiamo a che fare il 3, perché ci propongono un signore austriaco che suona Mozart allo scacciapensieri, e l'Holstuonarmusicbigbandclub (?). Temibile, e la eviteremo, è la giornata norvegese, il 2, dedicata (oltre che a una cena scandinava, forse non proprio appropriata alle temperature di questo periodo) a lieder per soprano, mezzosoprano e pianoforte. Il lied, specialmente quello nordeuropeo, è un prodotto che a noi provoca letargia, imbarazzo per la frequente pesantezza quando invece vuole essere umoristico, e insoddisfazione per la povertà di colore della combinazione voce-pianoforte. Opinione personale e contestabile, naturalmente.

Il posto è una meraviglia. Un giardino con allori che sembrano baobab, un asciutto profumo di estate, e il vantaggio di essere appena fuori porta: quattro minuti e mezzo a piedi da Piazza del Popolo. Alle 21.45 (ora normale) del 26 giugno: "Spazio Curvo", musica e strumenti inventati da Michelangelo Lupone. Più che un'esecuzione la definiremmo un'istallazione. Tre immensi tamburi microfonati piazzati sul palco e illuminati di colori che cambiano con i suoni; percossi o accarezzati da Philippe Spiesser, con grandi gesti pittoreschi, intercalando le pelli con tromba, campanaccio e varie sonagliere.

All'inizio la suggestione è assoluta; quello che esce dai tre pentoloni è inaspettato e bello, poi comincia ad arrivare una qualche assuefazione, che a un certo punto tende a trasformarsi in "basta!". E' che non c'è un disegno ritmico, dei ritorni, qualcosa che uno riesca a seguire come si segue una melodia, e allora la musica, o meglio il suono perde la presa sull'ascoltatore. Come mai? Probabilmente perché questa suggestione sonora è solo il condimento, e manca il piatto base, il racconto. Ci sono venuti in mente, mentre ascoltavamo Spiesser, sempre più insofferenti man mano che scorrevano i 29 minuti del brano, i Tamburi di Kotò, quel gruppo giapponese (quasi una fratellanza mistica) di decine di percussioni di ogni dimensione, capaci di tramortire il pubblico per serate intere. Loro il discorso lo fanno e, trattandosi di tamburi, il linguaggio non può che essere ritmico. Qui alla Filarmonica ci è sembrato che Lupone al discorso non ci avesse pensato proprio. Da cui, secondo noi, la perdita di tensione e di attenzione.


Cambio scena! Mondanità e sangue blu. Capitiamo la sera del 27 alla consegna del Premio Via Condotti 2012 a Palazzo Torlonia a Bocca di Leone, una meraviglia (qui a Roma, dovunque si capita è una meraviglia). Raramente visto in contemporanea un così alto numero di nobili chiappe adagiate sulle sedie nel giardino. Cicaleccio di principi e politici, di commercianti e gente di spettacolo. Conduzione very casual (non diremo casereccia come sarebbe più giusto, per rispetto alla nobile ambientazione). Interventi spesso zoppicanti, puntualmente tamponati con garbo e presenza di spirito da Gianni Letta, un misto tra Paolo Limiti e Mike Buongiorno, sempre sul palco, pronto e generoso nelle emergenze. Filmato, dolorosamente e inutilmente lungo, per raccontare la carriera del premiato numero uno, Dante Ferretti; oltretutto inquinato da un difetto del lettore DVD che ogni tot salta fastidiosamente diversi fotogrammi.

Dopo parecchi altri, finalmente arriva Cocciante. Il quale, uomo di scena fino in fondo, prima finge, ammiccando, di stupirsi perché proprio lì accanto c'è un pianoforte che, guarda un po', è già  microfonato, poi cerca di impadronirsi dello show per dargli un passo professionale. Difficile, molto difficile, con gente che vaga e si urta sul palco e l'astuccio del premio che passa di mano in mano, senza mai arrivare a quella giusta, la sua. Finalmente caccia tutti, canta benissimo un paio di pezzi, e poi (anche qui umorismo involontario?) conclude la serata, mentre le cariatidi del pubblico si accalcano zoppicanti verso l'uscita, con una sua canzone che fa: "Morire con la voglia di vivere..."



                                         





 

 
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L'ASINOSSI - Replica dal 2 aprile 2012

Post n°235 pubblicato il 22 Agosto 2013 da torossis

 

          IL CAVALIER SERPENTE

        Perfidie di Stefano Torossi

       22 agosto 2013

       Replica dal 2 aprile 2012

        L'ASINOSSI


Non è un errore di battitura, è la testimonianza dell'immortalità del somaro, e più specificamente del somaro italico, e se vogliamo proprio entrare nello specifico, del "Cives Somarus Sum".

I fatti.

La farsa (involontaria, credeteci) va in scena lunedì 26 marzo al Teatro Quirino, secolare istituzione nel centro storico di Roma; l'orario (ipotetico, intendiamoci), sarebbe le sei e mezzo, in realtà la faccenda comincia alle otto; l'organizzazione (fantascientifica, scommetteteci) fa ridere i polli, oltre ai somari. Per dire: nel vicolo davanti al teatro, auto e moto parcheggiate alla romanesca, da non far passare una sedia a rotelle (poi si capirà perché facciamo questo esempio), e due vigili, sigaretta in bocca: "Aho! Ma nun l'hai chiamato er carro attrezzi?" "Io no, ma nun ce dovevi pensà tu?". Quando siamo usciti, verso le nove e mezzo, i due vigili erano sempre lì, la stessa cicca in bocca, le stesse macchine e moto piazzate  nell'identico fantasioso modo.

Entriamo insieme ai vip, Roncato, Brilli, De Sica, Tognazzi, per assistere all'evento, che è la premiazione dei vincitori del Festival film corto a tema "Un sorriso diverso". Diverso nel senso dell'handicap, e della sedia a rotelle; ecco il riferimento alla difficoltà di accesso. Subito, gli organizzatori, dal palco, si premurano di farci sapere che (testuale): "La diversità colora il mondo che sennò sarebbe grigio". Avremmo voglia di chiedere a qualcuno dei presenti in carrozzina se si rende conto di quanto è fortunato a vivere in questo mondo colorato, invece di quello grigio della gente che va a spasso con le gambe, senza bisogno di ruote.

Poi comincia il balletto dei microfoni. Passalo a me, ma non funziona, allora lo riprendo e ti do il mio, adesso ne hai due, sono troppi. Finché, con un tocco di ruspante ribalderia, il presentatore la butta lì: "Pare brutto?", e si infila uno di questi microfoni itineranti nella tasca dei pantaloni. Per tirarlo fuori a ogni occasione e passarlo a questo e a quella. Avete presente la forma dei microfoni senza cavo, quelli che nell'ambiente si chiamano gelati? Un cilindro di una ventina di centimetri, con un rigonfiamento a bulbo a una estremità. Inutile il commento.

Molti i corti premiati proiettati in formato spot ma chissà perché senza sonoro, variatissime le motivazioni, troppe le assenze o gli scambi dei personaggi che dovrebbero ritirare i premi. Continuamente costretti i presentatori a invocare qualcuno, "C'è"? e poi rimanere ad aspettarlo, spesso invano. E moltissime e confusionarie le presenze di attori, registi o assessori chiamati a leggere di ogni filmato "la sinossi" (ecco dove abbiamo preso il titolo). Un bel bordello, evitabile con un minimo, davvero un minimo di organizzazione.

Utile e dilettevole lo show acrobatico di due signore spesso avvicendate (pare che la prestazione sia molto faticosa) nel comunicare a gesti ai diversi (veri) fra il pubblico quello che gli altri diversi (fasulli) dicono sul palco.

Due vallette giovani e graziose ci deliziano gli occhi portando i diplomi ai premiati. Ci hanno rallegrato anche durante la lunga attesa prima dell'inizio mentre giravano in platea nei loro eleganti abiti lunghi e scollati con niente sotto tranne mutande evidentemente troppo strette perché le abbiamo sorprese più di una volta sistemarsi l'elastico con pizzichi furtivi. Stendiamo un velo pietoso su un paio di imitazioni (Asia Argento drogata e Carla Bruni cantante) offerte allo sconcerto del pubblico e, ci è parso, anche degli altri presenti sul palco, da una sedicente attrice o, più probabilmente, un'amica di passaggio.

Insomma, per sopravvivere, a un certo punto ce ne siamo andati, mentre la faccenda ancora si trascinava penosamente. Il dilettantismo sembra un condimento obbligato di queste occasioni assistenziali e/o istituzionali. Aggiungiamo che poco ci è piaciuto scoprire che fra i diversi a cui era dedicata la manifestazione c'erano anche gli anziani!


Come risarcimento sabato sera siamo andati a vedere James Taylor all'Auditorium di Via della Conciliazione. Prima le buone notizie. Lo spettacolo è annunciato alle ventuno, e alle ventuno  comincia. Teatro gremito. Pubblico benissimo disposto. Applausi esagerati perfino quando Taylor annuncia l'intervallo. Tutti conoscono i pezzi e alla prima nota già si scatenano. Il tempo lo accompagnano in levare. Le spiritosaggini in inglese sono comprese e apprezzate. Non un'esitazione negli attacchi. Tutto provato e riprovato. Così fanno gli artisti americani; i professionisti, insomma. Potrebbero farlo anche gli italiani ma ci vorrebbe qualcuno di pratico.

Adesso le notizie cattive. Fa un caldo esagerato. Niente aria condizionata. Troppo presto per la stagione? La temperatura dei concerti è spesso un'incognita, e quasi sempre un disagio. Il prossimo evento a gradazione giusta vi promettiamo di evidenziarlo. L'altra notizia cattiva è l'artista. Fin dagli anni ottanta, noi ci ricordavamo Taylor come uno dei cantanti più noiosi del panorama. Questa sera ci si è confermato il giudizio. La noia è sottile. Le canzoni sono uguali, molte anche nella stessa tonalità. Garbate, prevedibili, ben confezionate e ben cantate. Ma alla quinta non se ne può più. Lui è sobrio, qualche volta moderatamente spiritoso. La sua voce non si, e non ci  emoziona mai. E' elegante, magro, diritto e decorosamente pelato. Immobile quanto basta, e quando cambia chitarra sembra che sposti un fragile vaso di Murano. Insomma, anche da qui, per sopravvivere ce ne siamo dovuti andare prima della fine.



                                          



 

 
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ECOPROPOSTA PER BIODEMENTI - Replica dal 4 agosto 2011

Post n°234 pubblicato il 18 Agosto 2013 da torossis

 

     IL CAVALIER SERPENTE

    Perfidie di Stefano Torossi

   18 agosto 2013

      Replica dal 4 agosto 2011

         ECOPROPOSTA PER BIODEMENTI


40.000 a.C. L'uomo primitivo comincia ad accorgersi che a stare insieme in un posto vagamente protetto (magari una caverna un po' più in alto) si rischia meno la pelle e ci si diverte di più.

Da questa intuizione comincia il cammino dell'umanità, prima verso l'accampamento di cacciatori, poi il villaggio su palafitte, poi il borgo, poi la città cinta di mura. Che è ancora un luogo impestato di immondizia, coi pitali svuotati dalle finestre e porci e galline a grufolare nel fango, ma è pur sempre un posto più sicuro della capanna nei boschi.

Finalmente arriva l'energia, e cambia tutto. Ci sono le fogne, c'è l'acqua corrente, l'elettricità, i trasporti, le comunicazioni, e siamo al traguardo: vivere bene insieme. Ci si incontra quando si vuole, ed è facile perché si abita vicini. Se non ci si incontra materialmente si può comunicare in tanti modi. Tutto è a portata di mano, il teatro, il supermercato, la farmacia, il bar, il cappuccino e il giornale.

Ma un altro è il vero, immenso dono che la grande città fa ai suoi abitanti: l'anonimato. Se non vuoi incontrare nessuno, la città ti regala, per la prima volta nella storia, la possibilità di sparire e non essere controllato da cento occhi e orecchie, come invece inevitabilmente e tormentosamente accade nel villaggio. Naturalmente ci sono i lati negativi: inquinamento, tensione (però noi siamo sicuri che una stalla piena di mosche inquina più di un autobus, e che  un contadino sperimenta più tensione per una grandinata, che un cittadino per la fila all'ufficio postale), ma sono niente in confronto alla conquista globale alla quale siamo felicemente arrivati. (Con divertimento leggevamo tempo fa un confronto fra la Parigi di oggi intasata da circa un milione di veicoli, e la Parigi dell'ottocento che automobili non ne aveva, ma fra privati e pubblici circolavano per le sue strade almeno ventimila cavalli, ognuno dei quali provvedeva a lasciare sul selciato come minimo un paio di chili di roba al giorno. Quaranta tonnellate di letame ogni ventiquattrore. Con relativi tafani. Peggio oggi o ieri?). 


A questo punto della storia dell'umanità che succede? Succede che spunta fuori qualcuno che in nome dell'ecologia ci suggerisce un bel passo indietro. Vi presentiamo uno dei tanti dissennati progetti del genere che ci sono capitati sotto gli occhi.

Si tratta dell'Ecovillaggio Solare, organizzato in Umbria da Jacopo Fo, figlio di Dario. Una proposta di coabitazione in mezzo alla natura, all'insegna del risparmio energetico, per un ristretto numero di fortunati (masochisti, per noi). C'è un sito nel quale è descritta l'iniziativa con tutti i suoi pregi. Di difetti non si parla, ovvio.

Vediamoli. Naturalmente c'è l'aria balsamica dei boschi e il cinguettio degli uccelli (che secondo noi si svegliano un po' troppo presto la mattina), la volpe che ti passa fra i piedi, e il piacere di usare a turno la lavanderia del villaggio, così si familiarizza coi compaesani. Piccolo ma enfatizzato dettaglio meteorologico: la nebbia, quando c'è, è tanto riguardosa da spandersi più in basso del villaggio, così dalle casette la si può vedere dall'alto "come nelle stampe giapponesi".

Poi arriva il meglio. Presentata come pregio supremo è la distanza dalla civiltà: 12 chilometri dal più vicino bar, farmacia, edicola; 30 km di percorso, ma senza semafori, fino a Umbertide: ospedale o cinema; 45 km a Perugia, università e altri confort, con comoda superstrada a quattro corsie.

Va bene, noi saremo anche fissati col giornale e il cappuccino, ma dodici chilometri per andarci a sedere al bar ci sembrano davvero troppi. 

In nome dell'autonomia produttiva i nuovi ecopaesani hanno inoltre in dotazione una delle peggiori maledizioni dell'ecofilosofia new age: l'orto! Una struttura che richiede un continuo assiduo lavoro per poi spararti addosso in una sola settimana di luglio trenta chili di fagiolini, e sette giorni dopo cinquanta di pomodori; il che ti costringe a fare le conserve e a metterle in barattoli, i quali, bolliti artigianalmente per sterilizzarli, esplodono tutti insieme in cantina una notte a dicembre. In compenso è possibile piantare alberi da frutto, che forniranno, visto che qui l'agricoltura è bio, belle melette col baco.

Le costruzioni sono carinissime e con pochissimo consumo di energia. A disposizione anche le "Case degli gnomi", 46 metri quadri nel bosco, e, volendo, anche case di paglia intonacata, oppure di terra cruda, descritte sul sito come abitazioni ad altissimo confort e ottima efficienza energetica. Testuale. Insomma, le prospettive per i potenziali nuovi ecoabitanti sono queste: siate pronti ad arrabattarvi lietamente e senza sosta in casa e fuori, e soprattutto state sicuri che non avrete il tempo di far andare il cervello perché ci sarà sempre qualcosa da fare con le mani.

Che poi queste idilliache descrizioni del vivere in mezzo alla natura, a parte la ingenua esaltazione di una rude semplicità che è pura teoria, sono certamente accurate se riferite a un preciso giorno di fine maggio, con un bel sole limpido, una brezza leggera e neanche una zanzara nei dintorni. Ma non vorremmo essere nello stesso posto in un piovoso pomeriggio di novembre, con l'ora legale appena rientrata, il fango alle caviglie e quella simpatica umidità così gradita alle nostre articolazioni (e il cappuccino col giornale sempre a dodici chilometri).


Noi di sicuro no, ma loro ci crederanno davvero?



PS Per la nostra, e ci auguriamo anche la vostra delizia, pure questa settimana abbiamo l'articolo su Allevi (Repubblica, 31 luglio, pag. XVII, Cronaca di Roma). Il nipotino di Mozart dice, parlando del suo CD "Alien", e di se stesso: "L'alieno è colui che ha la forza di non farsi omologare... che riesce a vedere il mondo con gli occhi incantati di un bambino". Il bambino dagli occhi incantati è un nipotino di Paperon dei Paperoni e in quelle pupille c'è un bel $. L'alieno non omologato invece è un prodotto di marketing, geniale sì, innocente proprio no. Il Maestro aggiunge anche: "Io non cerco il consenso. Non mi importa dei numeri". Serve un commento?



                                        

 

 
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LA PRESENTAZIONE, CHE NOIA MORTALE - Replica dal 27 gennaio 2011

Post n°233 pubblicato il 15 Agosto 2013 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

   14 agosto 2013

    Replica dal 27 gennaio 2011

     LA PRESENTAZIONE, CHE NOIA MORTALE


La presentazione? Una riunione di amichetti in cui ognuno parla per ascoltarsi e far sentire agli altri quanto è bravo. Gli invitati, ogni minuto che passa, rischiano di sprofondare. Nella noia.


Roma, 11 gennaio. L'Istituto Nazionale della Grafica, con meritoria, e sorprendente, iniziativa, ha incaricato l'artista Giuseppe Caccavale di graffire sul soffitto del salone, perché poi ci rimangano per sempre, i versi d'amore di Alfonso Gatto. Presentazione dell'evento. Al tavolo Erri De Luca in preda a un torpore sospetto (i maligni parlano di un principio di coma etilico), dal quale si affaccia per dire qualche parola intelligente e bella, come è suo solito, ma con un biascichìo difficile da decifrare. Segue la Prof Laura Cherubini che invece si serve della sua voce brillante e della dizione perfetta per intrecciare, nel commento di un modestissimo filmato sul lavoro dell'artista, il linguaggio ridicolmente criptico della critica d'arte con osservazioni di pregevole banalità.

Presentato dalla succitata Prof come strepitosa indagine sulla realtà del divenire nella creazione dell'opera, il documentario filma con molte ripetizioni e inquadrature banali le operazioni manuali dell'artista al lavoro: il tump-tump del tampone da spolvero, o lo scric-scric del raschietto che incide l'intonaco. Insomma, osservate, signori del pubblico, l'eccezionale valenza creativa della normalità del gesto: tump-tump, scric-scric. Caspita, se non ce lo avessero detto non ci saremmo accorti di niente. E tutti giù a sorridersi complici, ad annuire, a chiamarsi per nomignolo. I relatori, intendiamo, perché il pubblico appare solo in ansia di sgattaiolare via.

Dieci minuti, sarebbe stato il tempo giusto, così poi potevamo guardare l'opera per cui eravamo andati.  Invece no, perché, finito il troppo lungo cicaleccio, i custodi avevano già chiuso la sala.  Tutti a casa. Ascoltato troppo, visto niente.


Il giovedì dopo, 13 gennaio, alla Discoteca di Stato. Presentazione di un libro sugli inizi della teleradiofonia. Anche qui, parrocchietta. Per fortuna, in apertura, il professor Monteleone espone l'argomento con chiarezza esemplare e tempi umanamente accettabili. Poi si scatena la sparatoria verbale, preceduta dai soliti: "Sarò breve" e "Per concludere" (se mai si cercasse un epitaffio all'ipocrisia, eccolo) di tutti gli altri membri della confraternita. Il tono è fintamente colloquiale, i relatori fanno mostra di volersi bene e di stimarsi a vicenda, il pubblico è ammesso all'eventuale dibattito, ma a una certa distanza, che non si prenda troppa confidenza.


Terza esperienza: 20 gennaio, Accademia di San Luca, dietro Fontana di Trevi, a Roma. Piccolo stop perché a questo punto dobbiamo inserire tre perfide parentesi. Prima: (Nei dintorni si aggirano, a uso dei turisti, due centurioni romani, un po' fuori epoca, ci pare, rispetto alla fontana, che è del settecento. Mah?) Seconda: (Nella chiesa lì di fronte, che più barocca non si può, dagli altoparlanti escono canti gregoriani; anche qui, come dire, qualche incongruenza di cronologia...).

Veniamo al dunque: argomento di vivo interesse, e non stiamo scherzando. Un incontro su come sarebbe diventata Venezia se Andrea Palladio fosse riuscito a realizzare tutti i suoi progetti (fantarchitettura, bello immaginarla). Salone d'onore. Pareti tappezzate di damasco rosso cupo. Soffitto a cassettoni di quercia scurissima. Più funereo di una cripta. Otto lampade a muro riescono a infastidirci lo sguardo, pur emettendo una luce sepolcrale. Il tavolo dei relatori è nella penombra totale. Nessun progetto di un'illuminazione funzionale: puntiamo su quello che è importante vedere, e teniamo in ombra il resto, no? No, per carità, saremo mica matti! Poi gli accademici si abituano a questa diavoleria moderna (elettricità, si chiama) e magari la vogliono tutte le sere.

Noi, in piedi in fondo alla sala con l'occhio spalmato su una panoramica di pelate (a proposito, come mai alcune calvizie sono lucide e altre opache?) e canizie. Un caldo infernale, anche con la tramontana fuori, perché, con quei giovanotti presenti, non si può scherzare: "Aria di fessura, aria di sepoltura", quindi tutto sigillato. In conclusione, accidenti, un argomento così interessante massacrato da quel mix di decrepitezza, atmosfera tombale e ambiente ostile.

Prudenti, ci eravamo piazzati accanto all'uscita, e dopo un'oretta, ancora a metà dell'evento, abbiamo tagliato la corda, felici di rivedere Fontana di Trevi con i suoi centurioni anacronistici, ma almeno vivi.

Terza parentesi: (Quando ci passate, prego, sbirciate dentro questo capolavoro di fontana e seguite con gli occhi i molti metri di cavi, (d'accordo, sono senz'altro indispensabili per portare l'elettricità ai faretti), che si srotolano sott'acqua come dei serpentoni, bene in vista lungo le scogliere di travertino.

Il travertino è una pietra, come sappiamo tutti, bianca. Quei cavi, di che colore li hanno scelti? Ma neri naturalmente, e in più, di un bel nero bagnato, lucido e prepotente.

Con un magnifico effetto capello-nella-panna-montata).



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LE SUORINE CON LE CHITARRINE - Replica dal 16 dicembre 2010

Post n°232 pubblicato il 09 Agosto 2013 da torossis

 

                IL CAVALIER SERPENTE

                Perfidie di Stefano Torossi

            9 agosto 2013

               Replica dal 16 dicembre 2010

              LE SUORINE CON LE CHITARRINE


Amici restauratori ci hanno fatto salire, durante i lavori, sulle impalcature del Tempio di Adriano a Roma, sulla facciata del Duomo di Orvieto, sul tetto di quello di Milano. Abbiamo visto da vicino, per la prima e unica volta nella nostra vita, i capitelli di marmo, a diciotto metri d'altezza, i pennacchi della facciata a settanta metri, le guglie sul tetto a centodieci. Sculture così in alto da essere destinate a rimanere invisibili a tutti, per sempre (tranne, appunto, ai restauratori o ai loro amici in visita).

Eppure sono eseguite così bene, con un'attenzione così minuziosa, con un'arte così appassionata che ci si domanda perché, e soprattutto per chi, tutto questo lavoro. E la risposta non può essere che una sola: per Dio (che non è una bestemmia, come si capisce dall'assenza del punto esclamativo). La ragione ultima di ogni forma d'arte è essere guardata (o, naturalmente, ascoltata, letta, ecc.). E perché questo accada servono gli occhi di un uomo, di tutti gli uomini, e in questo caso, ancora più su, gli occhi di Dio (con cui talvolta, nella sua suprema megalomania, si identifica l'artista stesso).

E, visto che siamo sull'argomento Dio, vorremmo anche accennare a qualcosa che non va proprio sempre bene nella gestione delle sue case, che sono tante, belle e meritevoli di attenzione.

Per esempio, la musica. A eseguire il repertorio immenso composto nei secoli per lui, ci sarebbe da festeggiare con un capolavoro tutti i giorni, feriali compresi, per una ventina d'anni. Mettendo al lavoro orchestre, cori, organisti, tenori, baritoni, soprani e contralti. E invece cosa ci tocca sentire normalmente alle messe? Un paio di suorine con le chitarrine e, quando va bene, due chierichetti coi bonghetti. Questo vero e proprio miracolo dello spreco non riusciamo a spiegarcelo. Spreco di un capitale di musicisti e di musica, e anche di occasioni (lo diciamo dal punto di vista della Chiesa) per attirare fedeli alle funzioni, che in fondo sono spettacoli, e quindi devono attrarre spettatori, cioè fedeli. Chissà perché questa realtà è invisibile per chi dovrebbe avere occhi. E' come quei barboni che hanno i milioni nel pagliericcio e vivono sotto i ponti. Forse è solo un fenomeno cattolico apostolico romano, perché ci dicono che le chiese protestanti mantengono in vita la tradizione. Ma qui siamo al punto che non si trova più un organista decente, e a matrimoni e funerali bisogna portarsi l'amico musico da casa.

Ieri, verso le sei di un pomeriggio ormai buio siamo entrati in S. Maria in Vallicella, la Chiesa Nuova, una delle costruzioni più armoniose del barocco romano, con un altar maggiore ornato da tre magnifici Rubens, con due organi sontuosi, ma sempre silenti, con marmi, statue e quadri dovunque. Bene, è stato come mettere piede in una fredda spelonca, per come fioche e mal dirette erano le poche lampade accese. Fioche, va bene, potrebbe anche essere pretesto per un mistico raccoglimento, ma perché queste luci devono essere piazzate a mezza altezza e puntate verso il basso in modo di infilarsi direttamente negli occhi dei fedeli accecandoli, quando sarebbe tanto semplice girarle verso il soffitto, fra l'altro magnificamente decorato, e ottenere lo stesso effetto di suggestione? Sarebbe anche un buon modo per far lavorare qualcuno dei tanti bravi elettricisti di scena, non difficili da trovare (e spesso disoccupati) nella capitale italiana dello spettacolo.

Oltretutto, un'illuminazione intelligente è il sistema più efficace e meno costoso che si possa immaginare per valorizzare opere e strutture. Forse esageriamo, ma vorremmo suggerire ai parroci un viaggetto a Las Vegas, una città il cui fascino (e c'è, questo fascino, credeteci) è costruito solo sulla illuminazione artificiale Una città che di giorno non è niente, e di notte diventa pura magia, spesso di cattivo gusto, ma magia pura.

Senza bisogno di andare così lontano, amici, c'è a Roma una chiesa illuminata come si deve, e il merito, dobbiamo riconoscerlo, è dei preti tedeschi che officiano S. Maria dell'Anima. E' una chiesa bella e normale, senza capolavori famosi, ma quando entri c'è da rimanere a bocca aperta e con lo spirito in estasi. Il soffitto sembra un cielo, le colonne brillano, i quadri splendono di colori, e non si vede una lampada. Ma la luce, la luce giusta, è dappertutto. Non più di un centinaio di alogene nascoste bene e ben puntate (quattromila euro di spesa al massimo) e uso di buon senso e buon gusto. Non serve altro.



                                       

 
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ELOGIO DELLA MODERNITA' - Replica dal 21 ottobre 2010

Post n°231 pubblicato il 05 Agosto 2013 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

    5 agosto 2013

                          REPLICA dal 21 ottobre 2010.                       

  ELOGIO DELLA MODERNITA'


Associazione l'Architasto, Roma, 16 ottobre, concerto per clavicembalo, alla tastiera il vecchio Gustav Leonhardt, massimo solista al mondo. Un nordeuropeo fisicamente sobrio al limite del funereo. All'applauso immancabile, perché lui è davvero perfetto, il maestro china il capo di un quarto di pollice, e su uno zigomo si intravede un guizzo che potrebbe essere un sorriso dal Polo Nord. Un amico che lo è andato a prendere alla stazione, aveva preparato in macchina un CD di Beethoven. Appena l'ha messo su, il maestro ha fatto una faccia, poi ha chiesto di spegnere quella roba troppo moderna. Quando suona, con la mano destra coperta da un mezzo guanto di lana nera, dalla tastiera promana un torpore sublime. Ma non per la musica o per come la suona, è solo perché il clavicembalo è uno strumento che parla senza mai cambiare umore. Il piano e il forte verranno dopo; noi ora lo sappiamo, ma loro, all'epoca, no. Il clavicembalo è come una conferenza, il pianoforte è una recita drammatica. Mozart aveva cominciato a scrivere i suoi concerti per cembalo, poi è passato al fortepiano, ma quando finalmente gli hanno consegnato il primo pianoforte, ci si è buttato sopra e non l'ha più mollato, con i risultati (diremmo discreti) che conosciamo.

La stessa associazione ci ha regalato il giorno dopo un ottimo concerto per quartetto di flauti dolci. Qui nessun torpore sublime, ma una sublime leggerezza. Anche se, pure i pifferi, definiti dallo stesso presentatore strumenti imperfetti, lasciano a desiderare come intonazione. Non c'è niente da fare: se un utensile diventa obsoleto, vuol dire che è stato sostituito da qualcosa di migliore.

      Abbiamo anche sentito suonare (bene) una ghironda medievale. Strumento suggestivo, ma attenti a non lasciarla al sole, sennò le corde di budello si allentano, e stonano. Ma neanche troppo all'ombra, perché l'umidità...Certo, le corde di metallo saranno meno corrette, ma all'aperto, come reggono!

Tuttavia noi siamo in favore di queste operazioni di ripresa di strumenti e modi dell'antico: esecuzioni con il la abbassato al livello del '700, corde di budello, arciliuti e tiorbe, recupero di tecniche dimenticate. L'importante è non trasformare la correttezza filologica in una mania. Sarebbe come rifiutarsi di vedere la cappella Sistina con la luce elettrica perché Michelangelo l'ha dipinta con le candele. Fissarsi sul passato è, secondo noi, pericolosissimo. Il tempo sfuma tutto, cancella i difetti, esalta i pregi. E' una magia che funziona sempre, anche se conosciamo il trucco.

Purtroppo siamo abbastanza in là da ricordare personalmente la tanto decantata frutta e i polli ruspanti di una volta. Quando noi eravamo bambini non c'era una mela senza il suo bravo verme dentro, come le pere e le pesche. E il pollo ruspante, ben coperto di mosche nella dispensa di casa? E il vino del contadino? I sapori erano gli stessi di oggi, qualche volta buoni, altre volte meno, ed è sciocco dire che la frutta di adesso, bella e senza vermi, sia peggiore. E' uguale, solo che il tempo ci ha cambiato il ricordo.

Poi c'è la storia del suono del vinile, che parecchi trovano più caldo del CD. Qui ci sarebbe da discutere (attenzione al vecchio trucco che fa sembrare migliori le cose del passato). Perché oltre a ricordare i vermi nella frutta, noi ricordiamo benissimo i vecchi 33 giri, oggi concupiti dai collezionisti, con i loro implacabili tic e toc e i salti di solco che dopo pochi ascolti li trasformavano in supporti inutilizzabili. Non comprendiamo il collezionismo di un oggetto tecnologico che secondo noi perde qualunque valore dal momento in cui comincia a funzionare male. Le copertine degli LP, quelle sì che erano opere d'arte. Se poi davvero il suono analogico sia meglio di quello digitale, bisognerebbe avere a disposizione i nastri originali per fare il confronto. Roba del passato.


A proposito di passato, ci siamo trovati domenica 17 ottobre sotto il leggero sole del primo pomeriggio a Villa Borghese testimoni di uno spettacolino messo su in omaggio a San Francesco. A vedere quegli attori vestiti da frati che saltellando sull'erba cantavano le lodi di fratello sole e sorella luna ci siamo chiesti come mai tanto teatro e tanta tradizione popolare sentano il bisogno di rappresentare i seguaci del Poverello d'Assisi come degli infantili, ridanciani dementi, anzi, diciamolo chiaramente, come dei coglioni, perché in un'epoca in cui anche loro, come tutti, erano pieni di pulci e di cimici, mangiavano si e no mezza pagnotta alla settimana, e avevano un'aspettativa di vita di ventisei anni, non si capisce proprio cosa ci fosse da stare allegri e "laudare lo mi' signore".

Ci sarà pure stato qualcuno arrabbiato, no? No! Tutti felici a zompettare, a gettare le braccia in aria e a parlare coi lupi. Mah!?



P.S. (di oggi).

Eravamo naturalmente presenti sabato 3 agosto 2013 alla manifestazione per la pedonalizzazione di Via dei Fori Imperiali. Folla, ma non follissima, disturbata da quattro gatti in protesta contro la discarica al Divino Amore. Costante pericolo di inciampo perché fra la gente c'erano un sacco di ecologisti con biciclette a mano, e si sa che, oltre a essere piena di punte e uncini che ti graffiano, una bici occupa almeno lo spazio di tre persone.

Poche le presenza interessanti sul palco. Ci ha fatto ridere, con un certo imbarazzo, questa battuta uscita, speriamo non voluta, dalla bocca di Concita De Gregorio, conduttrice della serata. Nel congedare l'attore Favino, dopo una sua insignificante lettura di qualche pagina che non ricordiamo, e sul punto di invitare Claudio Strinati, intellettuale e studioso di Roma, la nostra Concita ha dichiarato: "Come  spesso succede in queste serate, ci sono dei punti alti e dei punti bassi", e poi è andata avanti imperterrita. Non osiamo chiederci a chi si riferisse.

Ancora altre noiose letture, poi un pensiero a Renato Nicolini, con in appendice una interminabile e troppo familiare testimonianza della figlia. Un funambolo ha attraversato la strada camminando su una corda non abbastanza alta da darci un vero brivido. E poi, con immediato effetto fuggi-fuggi fra la folla, un finale di arie da opera cantate da un tenore solo alternato a una soprano sola, accompagnati da un pianoforte solo e male amplificato. Effetto casereccio da salotto fine ottocento. Micidiale ma salutare spinta per andarcene a letto.



                                            




 

 
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