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Perfidie di Stefano Torossi

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Messaggi di Ottobre 2013

Mania ossessiva compulsiva

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

    28 ottobre 2013

  MANIA OSSESSIVA COMPULSIVA


C'era una volta un giovane tenore di belle speranze a cui, in un certo momento della vita, dopo aver cantato con grande successo nel ruolo di Rodolfo alla prima mondiale della Boheme, partì, come si suol dire, la brocca. Mollò la musica e diventò collezionista, una condizione di assoluto squilibrio: prima mentale, e poi, inevitabilmente, finanziario.

Si chiamava Evangelista Gorga e quando morì nel 1957 a più di novant'anni, braccato dai creditori, aveva raccolto di tutto, centocinquantamila pezzi che teneva stipati in dieci appartamenti affittati in Via Cola di Rienzo. "Mania ossessiva compulsiva", la diagnosi. Abbiamo già espresso il nostro stupore di fronte a chiunque collezioni qualunque cosa, perché con quella scelta imbocca una strada senza uscita. Inutile illudersi, l'ultimo pezzo che completa la raccolta non è mai l'ultimo davvero, e non si finisce più.

Perché parliamo di Gorga? Perché il museo di scultura antica a Palazzo Altemps gli dedica una mostra.

Apriamo una parentesi. Secondo noi tutti i musei dovrebbe essere così, come l'Altemps. Un magnifico palazzo rinascimentale per sede, poche sale con pochi pezzi insostituibili, e la certezza per il visitatore di consumare il suo spuntino artistico senza paura dell'indigestione che inevitabilmente ti paralizza, per esempio ai Musei Vaticani, dove, arrivato alla terza sala, immensa, gremita di innumerevoli opere, ti piglia un coccolone da bulimia e cominci a non capire più niente.

Fra i pezzi più rinomati c'è il famoso grande sarcofago Ludovisi, che è talmente sovraccarico da non essere neanche bello, ma è un buon esempio di un certo tipo di propaganda politica dell'epoca, che dura fino a oggi, e di sicuro continuerà domani. E' uno scatolone di pietra affollato di combattenti che si dividono in belli e brutti. I brutti sono naturalmente i barbari: Daci, Galli, Goti, il grande satana, insomma. Irsute facce da selvaggi, coperti di stracci, tutti regolarmente sottomessi dai soldati romani, che invece sono carini, ben rasati ed eleganti. Dato che probabilmente erano anche colorati, si può immaginare l'effetto. Altrettanto eccessiva doveva essere la colonna Traiana con tutti i suoi soldatini e i cavallini dipinti.

Certo i viziati siamo noi che consideriamo chic solo il bianco del marmo (che poi è così perché le sculture ritrovate hanno venti secoli, quasi tutti passati sottoterra; chiaro che i colori sono scomparsi). Chiusa parentesi.

In mostra ci sono milleottocento pezzi, l'uno per cento del totale raccolto dal povero Gorga: intonaci, stucchi, marmi, avori, giocattoli, ceramica, lucerne, specchi, armi, vetri, monete; si rimane senza fiato. Immaginare l'affanno in quei dieci appartamenti a Via Cola di Rienzo.


Mercoledì sera all'Opera di Roma con Turandot. Mondanità sotto la facciata in stile novecentista, probabilmente il parto peggio riuscito di tutte le gravidanze di Marcello Piacentini, architetto del regime e padre felice, peraltro, di cose molto migliori. Buona l'orchestra diretta da Pinchas Steinberg, regia di Roberto De Simone, scene esagerate, troppe persone, a nostro parere inutili, sul palco. La musica di Puccini, qui davvero moderna, continua a essere meravigliosa.

Con alcuni punti imbarazzanti: Ping Pong e Pang non fanno altro che saltellare su marcette da sette nani e i momenti più cinesi dell'azione sono sempre sottolineati dall'ovvio xilofono. E ancora, ma qui Giacomo non c'entra, alcuni guizzi letterari del testo sono da brividi. Siamo tutti consapevoli delle vertiginose intemperanze dei librettisti d'opera, specialmente nell'ottocento, ma qui stiamo un secolo dopo, anche abbastanza avanti. Vale la pena di ricordarne un paio, splendide: "Quando rangola il gong, gongola il boia!" e "Da secoli ella dorme nella sua tomba enorme". Com'è possibile, c'è da chiedersi. Un artista raffinato come Puccini. Neanche al festival di Roccacannuccia.


Venerdì 25, Goethe Institut, conferenza stampa di apertura del cinquantesimo Festival di Nuova Consonanza. E' certo che per finanziare questa benemeritissima iniziativa sarebbe bastato risparmiare una dozzina di costumi dei tanti coristi di Turandot. Invece, micragna assoluta: i fogli del comunicato stampati su tutte e due le facce (è un segnale), niente fondi dal Ministero, e in più la notizia, comunicata con la consueta eleganza dal Comune mezz'ora prima del via, di una riduzione del cinquanta per cento della sovvenzione.

Niente paura; con tragico ottimismo il maestro Fausto Sebastiani, comunica di aver cercato, e trovato, una mano tesa dall'estero verso Roma: Goethe Institut, Forum Austriaco, Accademia Americana, l'Istituto Giapponese, quello Polacco, e per fortuna anche qualche mano italiana: la Filarmonica, Musica per Roma e Santa Cecilia, di cui è stato recentissimamente nominato direttore l'amico Alfredo Santoloci, che siamo certi riuscirà a grattare via un po' della vecchia muffa accademica.

Siamo ovviamente d'accordo sul succo del breve discorso che ha fatto. Non è una novità; da sempre è il problema della categoria. Per avere un minimo di peso bisognerebbe, al grido di "Basta con le prime donne!", lavorare insieme.

Sembra facile. Invece pare proprio impossibile.



                                           

 

 
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Ottobrata romana

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

   21 ottobre 2013

  OTTOBRATA ROMANA

 

Ottobrata romana: designansi con questo nome, qui in città, le ultime manifestazioni di bel tempo prima dell’autunno propriamente detto. Sono giornate con un clima quasi estivo, il cui sole tiepido e l’aria balsamica contribuiscono al nostro benessere. Non serve altro. Per fortuna; perché proprio in una di queste giornate, precisamente il 19 ottobre a mezzogiorno, cioè nell’ora culminante della felicità (in cui, lo ripetiamo, non ci abbisogna niente altro) ci siamo presentati all’inaugurazione del Giardino delle Fontane, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna (GNAM, infelice acronimo, a cui manca solo un punto esclamativo per suggerire una gestione non proprio corretta del pubblico denaro: GNAM!) Ma questa è pura malignità.

L’edificio della Galleria, costruito a inizio ‘900 in un’architettura un po’ tronfia, ma non priva di decoro, situato in una bella vallata alberata, è affiancato da giardinetti, uno dei quali era la scena dell’evento. Scena modesta, che noi ricordavamo ornata, prima, di bellissime palme. Non più: il punteruolo rosso, implacabile, ha colpito, e invece degli alberi svettanti, ci sono in terra dei perfetti dischi di legno che altro non sono se non i monconi delle succitate palme segati a filo cemento. Peccato perché senza di queste, buona parte della suggestione svanisce, e rimangono solo qualche siepe di bosso e un paio di vasche assolate, su una delle quali trionfa “Ipotesi grafica”, una delle opere inaugurate.

Con tutto il rispetto per l’autrice, il manufatto, consistente in due sostegni verticali reggenti un tubo orizzontale da cui, attraverso fori equidistanti scendono sottili getti d’acqua che finiscono nella vasca sottostante, a noi ha fatto pensare a un umile, normale impianto di innaffiatura.

Probabilmente siamo dei semplicioni che hanno bisogno di evidenza per capirci qualcosa, ci siamo detti. Ma insieme a questo empito di umiltà ne abbiamo provato un altro forse più intenso di sbalordita ammirazione per chi, a mostre e vernissage, scrive le note di presentazione delle opere. Fantascienza pura (sempre secondo noi buzzurri).

Eccone alcuni brani pescati dal comunicato stampa: “Protagonista è l’acqua che dall’alto scende (ah, la forza di gravità!) creando un velo che separa porzioni di spazio ma al contempo le mette in comunicazione (bisognerebbe decidersi: che fà ‘sto velo, separa o unisce?) sorta di zona cuscinetto neutra, impalpabile e riflettente”.

E, a proposito dell’opera successiva, “Libri in giallo”, una scultura in travertino, appunto, giallo, rappresentante una pila di libri. “Le striature del marmo somigliano ad una scrittura che si srotola verticalmente con moto ascensionale. Presumibilmente (meno male che qui l’estensore è colpito da un dubbio) è questo il senso che l’autrice ha voluto trasmettere e che il titolo non smentisce, dato che l’opera rappresenta libri il cui contenuto è la scrittura”. Colpiti da questa rivelazione sensazionale, non siamo andati oltre.

Ammettiamo di avere decontestualizzato un po’ le frasi citate, ma le parole sono quelle (abbiamo il testo nel cassetto).

In ogni caso la giornata era splendida, numerosi gli amici che abbiamo incontrato, e poi, di soppiatto ci siamo fatti un giro per la GNAM, che è un bello scatolone pieno di arte straniera, e anche, anzi soprattutto italiana. Non è stato tempo sprecato.


Lo stesso giorno, la sera, alla Sala Sinopoli, Secondo Festival Internazionale della Fisarmonica Digitale. E’ stupefacente come una normale fisarmonica, con qualche migliaio di circuiti elettronici in più diventi non solo un’intera orchestra, ma anche un contenitore di effetti sonori: spari, motori, cinguettii a volontà.

Il problema di queste manifestazioni-concorso è, in primo luogo il tono sempre un po’ provinciale, con troppi salamelecchi agli sponsor; troppo lunghe presentazioni di ogni singolo membro della giuria; sfrenato uso di parole come splendido, straordinario, meraviglioso; continuo chiamare l’applauso da parte dei presentatori: un grande applauso a…, salutiamo con un applauso…, ancora un applauso…e infine il cattivo gusto dei concorrenti i quali, o continuano a scegliere i soliti voli del calabrone e hora staccato, oppure sempre più spesso presentano loro proprie composizioni infarcite di effetti mirabolanti, che della musica hanno perso quasi tutto il sapore. Si riscattano poi durante lo spettacolo, poverini, perché sono giovani, spesso molto malvestiti, ma soprattutto concentrati su quel momento fondamentale della loro vita. E vogliamo rovinarglielo? No di certo.


Proseguendo nell’autolesionismo, domenica 20 eccoci alla Sala Petrassi, musica contemporanea: “Il Suono Sospeso”, omaggio a Berio e a Nono. Due composizioni del ’65. Volevamo vedere se l’avanguardia, dopo cinquant’anni regge ancora o si è fatta vecchia.

Bisogna ammettere che questi fatti musicali, oggi come ieri, ci forniscono, contrariamente ai concerti tradizionali, notevoli invenzioni spettacolari. Stasera abbiamo sul palco cinque grandi lastre di metallo dorato sospese a cordoni lucenti accanto a quattro altoparlanti neri. Ai lati della scena due arpe e una quantità di percussioni, più attori, cantanti, musicisti (ai quali in alcuni momenti vorremmo chiedere come facciano adulti consenzienti a rimanere seri mentre fanno cose da bambini: tirare catenelle, battere martelli, cacciare urli e lamenti).

Per quanto siamo riusciti a intuire, e in questi casi non è mai facile, l’esecuzione ci è sembrata buona (fra l’altro non abbiamo capito come facessero i cinque percussori delle lastre a entrare a tempo senza direttore) e ci siamo divertiti.

Ma sull’attualità dell’avanguardia dopo mezzo secolo non abbiamo risposte. E’ troppo presto?



                                         


 
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Pifferi e tromboni

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

    14 ottobre 2013

  PIFFERI E TROMBONI


E' l'otto ottobre e nel suo museo degli strumenti musicali l'Accademia di Santa Cecilia ospita una nuova iniziativa: l'Archivio Multimediale delle Colonne Sonore del Cinema Italiano, un'ottima idea di Gianni dell'Orso, che la presenta con la sua abituale chiarezza, sobrietà e senza inutile protagonismi.

Adesso viene il bello. Al tavolo sono seduti Bruno Cagli, Nicola Piovani e Riz Ortolani, ognuno dei quali si esibirà in una caratterizzazione che gli ignoravamo, stupendoci alquanto. Il primo, Presidente di S. Cecilia, sfodera una parlata virata su un vernacolare accento romanesco raccontando aneddoti e interpretando lo zio scherzoso, magari un po' troppo autoreferenziale, ma simpaticamente autorevole.

Il secondo, Piovani, che tutti conosciamo come eccellente compositore, comincia in sordina, poi se ne esce con ottimi e puntuali contenuti; esattamente quello che ci piace sentire da un divulgatore intelligente e spiritoso che ci introduce all'argomento. Non mancano riferimenti decisamente anticonformisti alla musica da lui definita (e noi siamo d'accordo) un po' terroristica di Stockhausen, perfetta, malgrado la sua fama di ostico intellettualismo, per commentare efficacemente una scena horror. Soprattutto ci è piaciuta la sua annotazione sulla inesistenza, nel mondo delle colonne sonore, delle gerarchie accademiche.

Unendosi a questo piacevole duo di leggiadri pifferi, ecco che attacca il trombone, il Maestro Ortolani! Il quale, dopo aver esordito con un "non so cosa dire" (si fosse attenuto a questa premessa, sarebbe stato meglio per tutti, soprattutto per lui) entra nel personale e parte con una spiacevole pappardella. Sul fatto che nella lista dei circa duecento autori di musica per il cinema presentata dal progetto ce ne siano anche parecchi non proprio eccelsi, che magari non conoscono il contrappunto (bene come lo conosce lui). Su quanto erano più competenti i compositori di una volta (come lo è stato lui). Poi polemizza sul perché l'Accademia di S. Cecilia non lo abbia mai invitato (ma se sei qui oggi! è la risposta di Cagli), e così via trombonescamente recriminando. Tanto che in chiusura di convegno, Piovani, lui sì, arguto e giovane, prima di salutare raccomanda ai giornalisti di non attribuirgli, neanche per sbaglio, le parole di Ortolani.


Sabato, dodici ottobre, primissimo pomeriggio. Dobbiamo relazionare un fatto che di artistico ha poco, ma che rimane ugualmente un capolavoro. La pennichella (o siesta). Per renderla memorabile occorrono alcuni elementi fondamentali: un pasto leggero ma soddisfacente, un ambiente a temperatura appena più alta del giusto, una poltrona comoda e un poggiapiedi di uguale altezza. Ma soprattutto un quotidiano possibilmente di molte pagine che a un certo punto della lettura sfugge dalle mani e va a distendersi sullo stomaco (ogni barbone conosce le mirabili proprietà termoisolanti del giornale). Ecco, si scivola serenamente nel sonno dal quale ogni tanto ci si risveglia a metà per rassicurarsi che c'è ancora tempo e riscivolare nell'oblio. Un godimento sublime.

E il tempo c'era effettivamente. Perché l'appuntamento era alle 19.30 alla chiesa dei Santi Apostoli per un concerto di musica italiana dei secoli diciassette e diciotto organizzato dall'Associazione Architasto. Ai comandi di un piccolo organo portativo, Cosimo Prontera. Che dire? Noi eravamo in un nirvana di serenità, la musica era bella, ma, certo, la grande chiesa cavernosa, malissimo illuminata come il solito, era semivuota; e naturalmente la voce del piccolo organo, fatta per la meditazione, non contribuiva a risvegliare l'attenzione dei presenti. Con tutto ciò, buona l'esecuzione, comodi i banchi e meritoria l'iniziativa.


Invito gradito nel pomeriggio di domenica tredici al Museo Ebraico di Roma. L'occasione è un incontro con proiezione del "Giardino dei Finzi Contini" un film di De Sica padre, colonna sonora di De Sica figlio, Manuel, nostro vecchio amico. Il museo, ottimamente ordinato si trova nei sotterranei della Sinagoga e contiene dagli oggetti del culto ai bandi dei papi che costringevano i piccoli ebrei ai battesimi forzati e gli adulti alle prediche coatte. Ci è stato offerto dell'ottimo vino kasher; ci siamo anche tolti la soddisfazione di chiedere a un signore totalmente pelato come facesse a tenere in testa la kippah senza la tradizionale forcina per capelli (sospettavamo nastri adesivi o velcro) e lui, togliendosela ci ha mostrato che non c'era trucco né inganno, e ha confermato che sì, in caso di vento vola via come un normale cappello.

La sensazione più curiosa, però, è stata percepire fra tutti i presenti un certo sotterraneo fremito di soddisfazione discreto ma decisamente vivo, del quale non ci siamo dati ragione finché non ci è balenata la spiegazione, semplice e umana. Sta a vedere, ci siamo detti, che ha a che fare con la notizia della dipartita tardiva, certo, ma comunque finalmente avvenuta di quel tale, centenario, ex capitano delle SS...


 

                                        






 

 
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Allegria!

 

IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

7 ottobre 2013

 ALLEGRIA!

 

Naturalmente non si tratta di un revival di Mike, ma del grido di sollievo che il 3 ottobre a mezzogiorno è sgorgato prepotente da tutti noi alla presentazione del programma di Musica per Roma, Sala S. Cecilia, Parco della Musica.

Temibili sono normalmente per la loro pesantezza queste occasioni. Tutti parlano troppo e ammorbano. Bene, stavolta, prima della sciagura, i presenti in sala hanno avuto in regalo un breve divertentissimo filmato: "Istruzioni per l'uso" (destinate al partecipante alla conferenza stampa, naturalmente) in cui, insieme all'indicazione di furbi stratagemmi per svignarsela non visti, i personaggi che avremmo ascoltato al microfono di lì a poco apparivano in faccia e voce. "I numeri parlano chiaro", annunciava dallo schermo Aurelio Regina, il Presidente, che in seguito, anche se non proprio succintamente come aveva promesso, ce li ha dati questi numeri, davvero confortanti e tutti positivi. Musica per Roma è in attivo per il decimo anno; gli eventi aumentano (1.300 nel 2012), gli spettatori pure, come gli sponsor privati, e così via.

"Ruberò solo pochi minuti" continuava l'AD Carlo Fuortes, anche lui, poi, ambasciatore di ottime notizie. Abbiamo visto inquadrato Massimo Pasquini, sorridente capo ed eminenza grigia dell'Ufficio Stampa e, sospettiamo, autore di questa simpatica burla. E poi tutto è filato via con scioltezza, lasciandoci solo una lieve sorpresa perché il personaggio da cui ci saremmo aspettati la maggiore disinvoltura, è risultato invece il meno brillante: Max Gazzè, artista in residenza, decisamente un po' banalotto nella sua dichiarazione.

Goloso, invece, l'intervento dell'Assessore alla Cultura del Lazio, Lidia Ravera, che l'ha buttata sulla dipendenza confessandosi drogata di cultura a causa della sua irresistibile attrazione per la stessa, come lo si può essere per pasticcini e giocattoli, e dichiarandola indispensabile medicina contro la nullità del quotidiano, e altrettanto utile rimedio contro l'invecchiamento.

E per rimanere in tema gastronomico, dopo i saluti, rinfresco così così, ma con un punto a favore di un primo di squisiti quadrucci in brodo di pollo con fegatini, castagne, melograni e porcini. Un piatto piuttosto invernale, prontamente smentito dal sole caldo e dal frinire di un ultimo cicalone estivo abbarbicato su un pino lì di fronte, che ci hanno salutato all'uscita.


Sera del 3. Sul programma: "Székesfehérvàr", impossibile nome ungherese della città da cui arriva l'orchestra da camera Hermann Làszlò, in concerto a Santa Maria del Popolo. Una lingua assolutamente incomprensibile, quella, con in più parole chilometriche. Ricordiamo un nostro viaggio verso Budapest. Per leggere (senza capirlo, naturalmente) ogni cartello con il nome del paese non bastavano dieci minuti. Bel concerto, bel programma di musica sette-ottocento, ottima orchestra. La chiesa, tutta in biondo travertino (come sappiamo, rubato dal Colosseo, che all'epoca più che un monumento era una cava di marmo) di elegante sobrietà rinascimentale, ferita da un pugno nell'occhio: la cappella Cybo, superbarocca, fasciata da una decorazione di cupi, preziosissimi marmi, colonne e cornicioni (probabilmente anche questi sgraffignati a qualche rudere romano), senza un millimetro di semplice intonaco. Bellissima, intendiamoci, ma, ficcata a forza in quel contesto, discretamente cafona.


Auditorium di Via della Conciliazione, venerdì 4. I Concerti gratuiti di Uto Ughi per Roma; una serata di musica per il cinema con l'orchestra da camera I Filarmonici di Roma, direttore e solista al pianoforte Luis Bacalov, Cicci Santucci alla tromba. L'orchestra, quattro violini primi, quattro secondi, due viole, due celli, un contrabbasso e niente ritmica è superba, la direzione e il piano altrettanto. Il nostro vecchio amico Santucci ci ha emozionato per la sua delicata e agile padronanza della tromba, per gli arrangiamenti sapienti e per la disinvoltura con cui ha affrontato brani anche molto ritmici, accompagnato da una formazione in cui la ritmica, come abbiamo detto, non c'era proprio. Un vero grande godimento. Malgrado tutti i nostri serpentini sforzi non riusciamo a trovare un solo difetto nella serata.

Beh, a dir la verità, un paio di osservazioni, volendo, possiamo farle. Una stupida, l'altra un po' meno (speriamo). La prima: perché in una serata così raffinata, con il grande palcoscenico elegantemente vuoto a disposizione dell'orchestra e un magnifico pianoforte a coda, i solisti, tutti naturalmente in nero, devono stare seduti su bruttissime sedie da bar, anzi da latteria, con il telaio bianco smalto, e sedili e spalliere di un'orrida imbottitura rossastra?

L'osservazione profonda eccola. I temi da film sono spesso bellissimi, ma sempre un po' striminziti nel senso che non arrivano mai a svilupparsi in uno slancio che superi i due-tre minuti, proprio a causa della loro destinazione d'uso. Peccato.


Fine settimana, domenica, con il ventitreesimo Festival della Canzone Romana al Teatro Olimpico. Fuori, sul marciapiede, una folta rappresentanza di vecchietti e vecchiette. Queste ultime spesso e volentieri leopardate. Tutti con la sigaretta in bocca; da non credere. Dentro, spettacolo segnato da due elementi. Il primo piuttosto funereo, sia per la dedica a Califano, il cui nome ricorreva obbligatoriamente nel ricordo degli ospiti e nel saluto col microfono alzato verso il cielo dopo ogni canzone, sia per l'inevitabile lista dei caduti che quest'anno sono davvero tanti: Little Tony, Enzo Jannacci, Jimmy Fontana...Il secondo elemento è lo stupore più volte richiamato, a causa dalla totale incongruenza fra la figura pubblica di Califano, sciupafemmine burino e la sua indubbia delicatezza (tenerezza l'ha chiamata Edoardo Vianello nel suo saluto) di poeta.

Spettacolo più scorrevole delle scorse edizioni grazie alla direzione artistica di Vianello, vecchia volpe del mestiere, che ha anche cantato stupendoci, come sempre, per la naturalezza, la voce potente e soprattutto per la sua immutabile, perfetta intonazione.



P.S. Mercoledì 2 la finanziaria Azimut ci ha invitato nella sua nuova sede per la vernice di un'interessante mostra di quadri poco visti di Giacomo Balla. Bello che una società che si occupa di vil denaro abbia la delicatezza di condire il suo pane quotidiano con un po' di arte.

Deviando leggermente dal tema, una domanda ci viene in mente a proposito di Balla, grande artista senz'altro, ma anche padre sciagurato: perché i genitori come lui, all'inizio del '900, epoca di infatuazione per scienza e tecnica, condannavano i figli a portare nomi infami? Luce ed Elica, le due bambine di Balla; Cilindro, poi Indro, per il giornalista Montanelli; Industria, Energia, Vapore... ci pensate al tormento di questi poveretti a scuola?



                                        

 

 
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