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Perfidie di Stefano Torossi

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Messaggi del 12/11/2012

Quattro salti in cappella

 

 

 

   IL CAVALIER SERPENTE

    Perfidie di Stefano Torossi

     12 novembre 2012

   QUATTRO SALTI IN CAPPELLA

 

Business in chiesa. Una manifestazione ancora medievale è in scena tutti i giorni a Roma, alla Scala Santa di S. Giovanni in Laterano. I penitenti, vecchi, infermi, grossi (sono naturalmente quelli che hanno più bisogno della grazia) si fanno in ginocchio i ventotto gradini della scala che secondo la leggenda Gesù salì per essere giudicato dal Sinedrio (ovviamente prima che la traslocassero a Roma).

E' uno spettacolo spesso penoso, grottesco, e soprattutto un esempio di superstizione religiosa. Per il bisognoso di salvezza, ogni gradino salito con tanta fatica rappresenta la remissione di un peccato. Quando arriva in cima, la sua anima è pulita.

E invece no! Santa Madre Chiesa non fa sconti. Ai piedi della scala un cartello bello grosso avverte in parecchie lingue che "La devozione della Scala Santa non perdona i peccati". Proprio così, per l'assoluzione vera e propria serve l'intervento del rappresentante ufficiale, il prete confessore. Altrimenti, all'inferno!


Cuore (e stomaco) in chiesa. Vogliamo azzardare un paragone un po' blasfemo tra una fotografia e la chiesa di San Carlo al Corso. Una foto ingrandita male diventa sgranata, perde in definizione. Così questa chiesa. C'è tutto, ma troppo grande, greve e sfocato. Troppi putti, troppo oro, troppi colori.  Mentre a S. Pietro, che è cento volte più monumentale, si vede che ci hanno speso di più e l'ingrandimento è venuto meglio. Tutto risulta nitidissimo.

Chiesa enorme, S. Carlo, (e lo spazio sarebbe anche bello) ma pacchiana. All'infuori del sobrio pavimento bianco e grigio tutto il resto è un turbine di intonaco dipinto a finto marmo, che vira irresistibilmente sull'alimentare. I pilastri rosa e bianchi: prosciutto. Le pareti striate di azzurro: aringhe e sgombri. I capitelli e le cornici: pura stagnola da cioccolatino. Chicca finale, una venerata reliquia esposta in un tabernacolo: il cuore di San Carlo. Bresaola molto stagionata.


Musica (brutta) in chiesa. "La fama e la fortuna godute in vita da Giovanni Sgambati (1841-1914) sono inversamente proporzionali all'attenzione che oggi gli viene riservata da critica e addetti ai lavori", citiamo da un articolo dell'Avvenire, e di nostro aggiungiamo: "e meno male".

Siamo appena usciti dall'ascolto della sua Messa da Requiem nella chiesa di Sant'Ignazio, il 2 novembre. Della musica possiamo dire in piena serenità che è sonnolenta nei piano e confusionaria nei forte. Non un momento di commozione, come nel requiem di Faurè, o di spavento, come in quello di Verdi. Orchestrona e coro di almeno centocinquanta persone, ottimi, ma non abbastanza da farci cambiare opinione.

Per combattere il disinteresse era comunque più che sufficiente la maestosa bellezza della chiesa, la più grande di Roma, dopo San Paolo, e naturalmente San Pietro. Strepitosi affreschi prospettici sui soffitti e ancor più strepitosi echi. E' pura magia la slabbratura di tutte quelle voci e di tutti quegli strumenti che si produce per via di tutti quei rimbalzi che fanno le onde su pilastri e soffitti. Una sonorità che in sala di registrazione sarebbe implacabilmente bocciata perché davvero troppo sporca. Eppure, che fascino, specialmente quando la massa del suono è così imponente e gli spazi in cui si muove così giganteschi. Detto questo, e malgrado la magia, la musica di Sgambati rimane irrimediabilmente noiosa e soprattutto inutile.


Musica (bella) in chiesa. Domenica 11, Basilica di Aracoeli. Claudio Monteverdi, Vespro della  Beata Vergine. Johann Rosenmüller Ensemble, su strumenti storici.  Piove e ci aspetta una spaventosa scalinata di centoventiquattro ripidi gradini. Con sprezzo del pericolo e ingiustificato ottimismo sulla nostra tenuta cardiaca, si va. Oltretutto proprio davanti alla scalinata c'è, per i pedoni, qualcosa di simile al guado dello Zambesi che ogni anno gli gnu affrontano nella loro migrazione in cerca di pascoli più verdi (vediamo tutti National Geografic, no?). Il massimo dell'audacia è proprio attraversare la strada in quel punto: senza semaforo, con le strisce scolorite, niente vigili, illuminazione fioca, e un plotone di coccodrilli affamati, volevamo dire, di automobilisti infoiati, che puntano l'ignaro gnu, cioè noi che osiamo. Uno degli esempi più riusciti dell'inciviltà di Roma.

Un po' di chitarroni, cornetti e violoni, per un'orchestra e un coro molto più piccoli di quelli del 2 novembre a Sant'Ignazio, ma con un risultato migliore perché, non c'è niente da fare, la musica di Monteverdi è più bella di quella di Sgambati. Usare strumenti storici, quando ci sono quelli moderni, più intonati, potenti ed espressivi, magari è un capriccio un po' snob, comunque fa spettacolo.

Buono anche il controtenore (surrogato moderno e non irreversibile, per sua fortuna, di quelli che una volta erano gli "evirati cantori"). Quanto poteva e ancora può essere retrograda la Chiesa con alcune sue fissazioni spesso trasformate in leggi intangibili. Fra cui, fino a non tanto tempo fa, la salvaguardia delle fanciulle da quel covo di vizi che è sempre stato considerato il palcoscenico. Proibito alle femmine! Con il risultato che, siccome è impossibile mettere la museruola all'arte: "Non si possono avere le ragazze in scena? Niente soprani e contralti? Niente paura. Basta castrare i ragazzi, così le voci che ci servono le abbiamo lo stesso e il vescovo non si offende".



                            

 
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