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Perfidie di Stefano Torossi
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Messaggi di Gennaio 2012
IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
28 gennaio 201
CIFRE DA CAPOGIRO
24 gennaio 2012, Roma, Teatro Quirinetta. Sacrosanta riunione indetta dall'Anart (Autori radiotelevisivi) per protestare contro la decisione della SIAE di interrompere l'erogazione dell'assegno di professionalità ai soci anziani (cifre da capogiro: € 600 mensili a 1.085 persone in tutto. Anzi, data l'età avanzata dei più, può darsi che mentre scriviamo siano diventati di meno). E qui, malgrado la serietà dell'argomento, anzi, forse proprio a causa di questa, e con tutta la solidarietà che proviamo per l'iniziativa, ci siamo scontrati ancora una volta con la nostra idea fissa: ci vuole sempre un regista.
Se perfino nei matrimoni ce n'è uno, forse improvvisato, magari un cugino avventuroso, che costringe sposi e parenti a provare la cerimonia il giorno prima, perché noi non pensiamo mai a chiamare un professionista, visto che ne abbiamo tanti a portata di mano. Che si occupi seriamente di queste nostre riunioni, quasi sempre in un teatro, con i protagonisti sul palco, e gli altri in platea. Eventi che potrebbero, anzi dovrebbero, diventare veri e propri spettacoli. Con una vera e propria regia. Altrimenti la faccenda si sfilaccia, perde di ritmo, e diventa peggio che inutile.
Oggi, per esempio, qui al Quirinetta, c'è un microfono collegato a un cavo troppo corto che arriva a stento al tavolo dei relatori, per cui, quando quelli di destra vogliono parlare sono obbligati a sporgersi pericolosamente in avanti o a fare acrobazie con il cavo, mentre quelli di sinistra, arrivato il loro turno devono affannosamente recuperare la matassa. Intendiamoci, c'è anche un radiomicrofono, ma proprio al momento di usarlo ci si accorge che le pile sono scariche, quindi il ragazzo deve andare a comprarne di nuove. Un piccolo ritardo, che problema c'è? Gli interventi dal pubblico procedono disordinati prima che a qualcuno venga in mente di fare una lista. Alcuni di questi sono lunghi e troppo autoreferenziali, come quello, tanto per non fare né nomi né soprannomi del paroliere Luigi "Narciso" Lopez il quale, dopo aver indugiato a compiacersi sull'entità dei suoi introiti passati, si lancia in ardite metafore paragonando la SIAE a una pantera impazzita che divora i suoi cuccioli (testuale).
Sobria e puntuale, invece, Maricla Boggio definisce giustamente volgari i termini usati dal nostro istituto nei suoi comunicati (bisogno, indigenza, sussidio), e grottesca la cifra di 150 Euro mensili che sarebbe il regalino elargito da mamma SIAE ai suoi soci particolarmente bisognosi (non c'entra niente con l'assegno di professionalità di cui sopra) e riesce perfettamente a comunicarci il senso della sordida dimensione di tutta la faccenda.
Al ritorno a casa troviamo un simpatico comunicato inviatoci dal commissario straordinario Gianluigi Rondi, classe 1921, che alla sua nomina avevamo salutato con il grido unanime di "Largo ai giovani!". In due paginette il nostro rappresentante, nel cercare complicità alla sua decisione di sospendere l'assegno di professionalità ai soci ultrasessantenni (ripetiamo, cifre da capogiro: € 600 mensili per 1.085 persone) ci assicura di esserci arrivato dopo avere consultato alcuni colleghi, che si sono arresi all'ineluttabilità del provvedimento, e ne fa i nomi. Eccoli: Paoli, Mogol, Costanzo, Piovani, Facchinetti, Lavezzi. Si tratta, e non osiamo metterlo in dubbio, di artisti che vivono sulla loro pelle la cruciale importanza di questi seicento euro mensili per sopravvivere, altro che diritti d'autore. Che ci siano poveri veri fra i soci beneficiari, pare che finora non sia venuto in mente a nessuno.
P.S. Ultima chicca. Nel leggere il bollettino sociale inserito nel "Viva Verdi" appena arrivato per posta, apprendiamo che con delibera del 25-10-2011 firmata dal Signor Commissario Straordinario (le maiuscole spagnoleggianti di stile manzoniano sono sul bollettino) è stata resa permanente la concessione del "sussidio natalizio" (anche queste virgolette vengono dalla stessa pubblicazione) agli autori anziani bisognosi. Si tratta ancora una volta di una cifra da capogiro: duecentoottanta Euro, virgola zero zero. Pensate ai panettoni e ai torroni che si saranno comprati questi vecchi viziosi!
Ormai è rimasto un solo uomo vero, capace di portare in acque sicure noi e la SIAE, ma non sappiamo se è un socio oppure un iscritto ordinario. Il comandante Schettino.
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
23 gennaio 2012
IL TEMPO CHE PASSA
Abbiamo letto con grande dispiacere sui giornali (non più di due righe, un'elemosina) della morte di Gustav Leonhardt, il grande clavicembalista. Vivo fino all'11 gennaio, il 12 se n'è andato. Vorremmo riproporre quello che avevamo scritto per lui il 21 ottobre del 2010.
"Roma, Associazione l'Architasto, concerto per clavicembalo. Alla tastiera il vecchio Gustav Leonhardt, massimo solista al mondo. Un nordeuropeo fisicamente sobrio al limite del funereo. All'applauso immancabile, perché lui è davvero perfetto, il maestro china il capo di un quarto di pollice, e su uno zigomo si intravede un guizzo che potrebbe anche essere un sorriso dal Polo Nord. Un amico, che lo è andato a prendere alla stazione, aveva preparato in macchina un CD di Beethoven. Appena l'ha messo su, il maestro ha fatto una faccia, poi ha chiesto di spegnere quella roba. Troppo moderna. Quando suona, con la mano destra avvolta in un mezzo guanto di lana nera, dalla tastiera promana un torpore sublime. Ma non per la musica o per come lui la suona (benissimo), è solo perché il clavicembalo è uno strumento che parla senza mai cambiare umore. Il piano e il forte verranno dopo; noi ora lo sappiamo, ma loro, all'epoca, no. Mozart aveva cominciato a scrivere i suoi concerti per cembalo, poi è passato al fortepiano, ma quando finalmente gli hanno portato a casa il primo pianoforte, ci si è buttato sopra e non l'ha più mollato; e i risultati li conosciamo".
Dalla stessa pagina del giornale si affaccia un altro trafiletto, nel quale, invece, il cronista riferisce, pervaso da sentimenti di profonda preoccupazione, la litigata in corso fra Ligabue e Vasco Rossi. Si risolverà, e quando? Evidentemente il pettegolezzo tira più del necrologio. Dovremmo preoccuparci anche noi, se fanno la pace o no?
La morte è un perfetto marcatore del tempo che passa. Rimaniamo sull'argomento (il tempo, non l'altro). E' in corso al Parco della Musica l'annuale Festival delle Scienze, e quest'anno il tema è proprio il Tempo. Eravamo curiosi di seguire l'evento più strano del festival: l'esecuzione ininterrotta, dalle 18 di sabato alle 18 di domenica, del brano di Erik Satie "Vexations", un titolo molto esplicito sulle maliziose intenzioni dell'autore. Avevamo in programma di passare da quelle parti in tarda serata di sabato per vedere come se la cavavano di notte i pianisti (e il pubblico), ma purtroppo siamo stati boicottati da un piatto di bucatini all'amatriciana che ci hanno prima sedotti a cena, e poi inchiodati alla digestione, costringendoci a rimandare i propositi intellettuali all'indomani.
Quindi eccoci qui, domenica mattina, 22 gennaio, ultimo giorno del festival.
Il Parco della Musica, non smetteremo mai di ripeterlo, è uno dei più inaspettati successi della città: tre grandi sale da concerto, due minori, bar, ristorante, sale da esposizione, un piccolo museo archeologico, perché naturalmente durante la sua costruzione si è trovata una villa romana, e una infinita serie di eventi che finalmente attirano le famiglie, e gli scapoli, fuori di casa a tutte le ore, tutti i giorni.
Abbiamo deciso di saltare le conferenze, ma c'è un paio di cose che hanno attratto la nostra attenzione. Prima di parlarne, scartiamo anche i video con le ovvie riprese velocizzate o rallentate (l'immagine trattata in questo modo non fa davvero più notizia, anche perché è roba stravista alle varie Biennali d'Arte e simili). Obbligatorio riconoscere che le opere che usano questa tecnica, anche se vecchie di appena cinque anni, sono improponibili. Una constatazione ci colpisce: il tempo vero è un'altra cosa rispetto a quello dello spettacolo. Quei noiosissimi filmati degli artisti concettuali che riprendono in tempo reale fatti quotidiani ci dicono quanto sia necessario alterare le durate sulla pellicola, dove per descrivere un'azione di un'ora devono bastare pochi secondi. E la bravura del regista, dell'autore-operatore, del montatore sta proprio nel far valere agli occhi del pubblico quei pochi secondi come un'intera, lunghissima ora.
All'ingresso della Sala Petrassi un folto pubblico in religioso silenzio e con telecamere accese osserva l'installazione di Gyorgy Ligeti intitolata "Poéme Symphonique". Una serie di mensole su cui un centinaio di metronomi (quelli antichi, a piramide) ticchettano tutti insieme, con tempi diversi naturalmente. Benissimo, l'effetto è un piacevole ronzio, e comunque quando mai capita di vedere cento metronomi al lavoro tutti insieme? E' un'occasione anche questa. Ma è il silenzio religioso insieme alle telecamere puntate che ci sorprende. C'è perfino chi sgomita per la prima fila. Per vedere e filmare cento metronomi!? Nessuno che ride o chiacchiera. Eppure è chiara, almeno a noi, l'intenzione provocatoria dell'artista. Cento apparecchi che fanno tutti insieme un lavoro (fra l'altro inutile in quel contesto) per cui ne basterebbe uno, sono una provocazione, no? E dovremmo esserci abituati, fin dall'orinatoio di Duchamp, o dalla Gioconda coi baffi; roba di ottant'anni fa. Eppure, non un sorriso, o un occhiolino di complicità. Forse siamo noi che ci riteniamo troppo intelligenti, o forse sono loro obiettivamente un po' stupidi.
Veniamo a Satie, il bizzarro compositore di pezzi semplici e famosi, e di burle musicali. Come questa del 1893. Un brano, detto fra noi, bruttino, di 35 battute in tempo lento per pianoforte solo, da ripetersi per ventiquattrore in un'ininterrotta esecuzione dal vivo affidata a novanta pianisti. Cos'è una proposta del genere se non una presa per i fondelli?
Anche qui, un pubblico compreso, attento e serioso. Silenzio di tomba. I pianisti giovanissimi che si alternano hanno, a dir la verità, un'aria piuttosto scanzonata. Però, quando ci siamo permessi l'audace iniziativa di applaudire a un cambio di tastiera, siamo stati guardati con un misto di rimprovero e incomprensione dal pubblico, ma anche, si vede che non se lo aspettava, dal pianista uscente.
In contrasto con questa diffusa dabbenaggine fateci chiudere seriamente con una frase di Sant'Agostino che copiamo dal programma del Festival (noi non siamo tanto colti da averla in repertorio). "Che cos'è il tempo?" si chiede il santo. E si risponde così: "Se nessuno me lo chiede, lo so bene; ma se volessi darne spiegazione a chi me lo chiede, non lo so".
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CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
16 gennaio 2012
MICROCOSMI
Via del Babuino 9 a Roma. Quasi tutti sappiamo che fino a qualche anno fa a quell'indirizzo c'era la sede della Rai. Bene, adesso lì c'è un lussuoso albergo che si chiama Hotel de Russie, e al pianterreno di questo lussuoso albergo c'è un lussuoso bar che si chiama Bar Strawinskij, e in questo lussuoso bar abbiamo fatto ingresso verso le sette e trenta del tardo pomeriggio di martedì 10 gennaio. Uscendo dalla vita reale ed entrando nel microcosmo.
Strawinskij c'entra solo per il nome, e non parleremo di musica se non per lamentarci di quella che ci ha tormentato per tutta l'ora e mezzo che siamo rimasti a bere il nostro Negroni, ottimo; stuzzichini altrettanto buoni, servizio impeccabile. Il tormento non sta nella qualità, perché il pianista è bravo e la scelta del repertorio appropriata, standard americani anni cinquanta-sessanta. E neanche nel volume, ragionevole e costante, senza picchi. No, l'irritazione ce l'ha fatta venire la implacabile continuità dell'esecuzione. Senza tregua è andata avanti per novanta minuti di scalette, arpeggi e piripiri, sempre con la stessa intensità, la stessa intenzione, la stessa, scarsa, partecipazione. Abbiamo avuto brutti pensieri verso il collega alla tastiera, ma evidentemente così dev'essere il pianobar di lusso.
L'ambiente è popolato da solitari scorbutici che bevono e leggono il giornale (tipo club inglese), da cocorite in shopping (tipo sala da tè), da ricchi russi (che cercano l'anima gemella), e altra varia umanità. Sedute accanto a noi, come il pianista anche loro parte della forza di intrattenimento, due escort di una certa pretesa: minigonne, calze fantasia, tacchi da dodici, cellulare in chiamata continua, ovvio accento dell'est. Fra loro, racconti di incontri professionali, alcuni camuffati da storie di cuore. Storie sfortunate in cui i principi azzurri erano troppo sciocchi per apprezzarle, oppure troppo burini, anche se ricchi, per meritarle. Con minidefilè molto casual fra i tavoli per mostrarsi i capi appena acquistati e forse adocchiare qualche cliente, o lamentarsi della ciccia superflua (si sa che nei limiti di qualunque taglia qualunque signora si sente sempre troppo grassa). Questi i risultati, tempo fa, di un'inchiesta fra donne. La domanda era "Cosa desideri di più dalla vita?" La risposta: Il principe azzurro? I soldi? Una bella famiglia? Macché. Per quasi tutte è stata: "Essere più magra".
Pagati i diciannove (meritati) euro del drink, siamo usciti nel mondo.
Da questo ambiente profano, ci trasferiamo in un altro microcosmo, decisamente diverso. La durata dello spettacolo è più o meno la stessa: un'ora e mezza. Stavolta niente Negroni, in compenso ottima musica. Ecco di che si tratta: tutte le domeniche, nella chiesa della Trinità dei Pellegrini, alle dieci e mezza va in scena la messa cantata secondo il Rito Romano Antico. Domenica 15 noi c'eravamo.
E' una cerimonia molto formale, un teatrino ferreo che merita una visita. Un continuo, preciso inchinarsi degli officianti gli uni verso gli altri e verso l'altare, alzarsi, sedersi, togliersi e mettersi la berretta, quella a spicchi dei vecchi curati. Gran movimento di turiboli, fumi d'incenso, spruzzi di acqua benedetta, baci al messale, chierichetti che scampanellano e sgambettano di qua e di là. Candele vere, e non quelle elettriche col filamento tremolante. Insomma, laicamente potremmo definire lo spettacolo una pantomima con interventi parlati e cantati. Sempre in latino.
Messa in scena benissimo, nulla è lasciato all'improvvisazione. Con grande partecipazione del pubblico. E, come abbiamo detto, con musica bella. Qualche colore di organo, ma soprattutto un ottimo coro di voci maschili e bianche che, con un repertorio collaudato dai secoli (niente canzoncine), riempie di suggestione lo spazio sacro. Crediamo che sia una delle poche chiese a Roma in cui si celebra la messa in modo così tradizionale. Che a noi piace, perché con il suo sapore vecchiotto ricrea anche in questa occasione uno spazio e un tempo diversi. Un microcosmo, appunto.
P.S. C'è un fatto che continua a rimanerci oscuro. Come mai in questa epoca di mezzi di comunicazione che riescono a trasformare tutto in spettacolo, dall'elezione di un re alla cattura del latitante, come mai, ripetiamo, un'istituzione con duemila anni di esperienza, che non ha quasi mai sbagliato un colpo, ha deciso, proprio adesso che ne avrebbe più bisogno, di rinunciare allo spettacolo di maggior richiamo fra il suo pubblico: la messa? Beh, per la verità non ci ha rinunciato proprio del tutto, ma la cerimonia è stata accorciata, ingrigita, la musica buona è stata sostituita con quelle tristi canzoncine accompagnate da suore o boy scout con le chitarre, il prete si rivolge al pubblico, invece che a Dio sull'altare, e poi è scomparso il latino, perdendo così la magia della formula misteriosa in favore della comprensione della parola. Eppure non ci pare che manchino i fans a Springsteen o a Madonna, anche se sappiamo che tre quarti degli italiani non capiscono niente dei testi inglesi (e neanche di quelli in latino).
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
5 gennaio 2012
CACCOLE
Lunedì 2 gennaio sera. Sky Cinema. Inciampiamo per caso sui primissimi fotogrammi del "Discorso del Re", e ci rimaniamo inchiodati per 110 minuti di ineffabile piacere. E di grande ammirazione di fronte a un film basato quasi interamente sui primi piani di due attori che con la magnificenza della loro interpretazione senza smorfie, vezzi e caccole danno la misura di quella grande scuola che nutre il cinema e il teatro del mondo anglosassone. E se c'è qualcuno che ancora si chiede come mai il prodotto americano e quello inglese hanno conquistato il mercato, la risposta è di banale semplicità: perché loro sono più bravi.
Sobrietà assoluta (l'ultima quasi impercettibile alzata di sopracciglio di Re Giorgio riassume tutto, senza bisogno di sottolineare niente). Naturalmente dietro a questa meraviglia c'è una sceneggiatura impeccabile, una regia creativa, montaggio, dialoghi clamorosi, una grande cura per ambientazione, fotografia, luci, attori straordinari, dai primi, di cui abbiamo già parlato, fino alle comparse, eccetera eccetera. E vogliamo anche segnalare che, tranne per un po' di Beethoven e Mozart verso la fine, non ci siamo accorti se sotto c'era musica. Ciò significa una di queste due cose, o forse tutte e due: il racconto filava talmente bene da non aver bisogno di commento, o, se c'era, la musica era usata con tanta accortezza da renderla impercettibile, come dovrebbe essere sempre, quando non è protagonista, sotto le immagini.
A questo punto è chiaro dove andiamo a parare: il cinema italiano di adesso. Ma prima di sfiorare questo imbarazzante argomento, dobbiamo un riconoscimento a una eccellenza davvero solo italiana: il doppiaggio, e prima di questo, la traduzione e l'adattamento dei dialoghi che, anche nel caso del "Discorso del Re", producono un risultato di grande qualità. Il doppiatore che per tutto il film balbetta insieme a Re Giorgio, e l'altro che dà la voce al logopedista sono dei maestri assoluti. E immaginiamo, anche se non conosciamo la versione originale, che la traduzione sia fedele; e se non fedele è di sicuro efficace, cosa ancora più importante.
Ora che abbiamo apprezzato la ciliegina sopra la torta vogliamo chiederci come un'industria capace di offrirci oggi prodigiosi doppiatori (a proposito, vi siete mai incantati sulle fantastiche acrobazie vocali che riescono a fare con i Simpson?) ma poco altro, possa competere con questi campioni. Vi è mai capitato di andare a Londra o a New York e vedere un musical a teatro? Se avete avuto questa fortuna vi sarete accorti che, immerso nella perfezione totale, perfino quello de "il pranzo è servito" recita benissimo, balla il tip tap, canta, fa le acrobazie e non sbaglia un tempo. Come si fa a competere con gente così seria?
Ecco, forse questa è la chiave. Loro sono seri. E chiunque ha una parte anche minima, la ottiene perché è bravo. E se il percorso è un altro (anche lì ci sono ovviamente favori e ricatti) il livello è tale che perfino il raccomandato/a è comunque bravo. Sono tutti professionisti, in competizione fra loro. Escono tutti da buone scuole. Fanno provini su provini. Lavorano. E il risultato permette a spettatori come noi, magari un po' nevrotici, di non stare sulle spine in sala, sempre con la paura della papera. Ma di avere dal teatro la stessa garanzia che ci dà il cinema, dove niente può andare storto perché tutto è fissato sulla pellicola.
Certo, è chiaro che una recitazione ad altissimo livello, come quella del film che ci ha colpiti non permette quel processo di immedesimazione che invece, da noi, ci consentono un Proietti o un Papaleo. Nel primo caso assistiamo a un quasi miracolo, nel secondo siamo invitati a una festicciola in famiglia. C'è la stessa sbalordita distanza che separa il fedele dall'officiante in una cerimonia sacra, perché lo spettacolo può, anzi a nostro parere dovrebbe essere una cerimonia. Però, attenzione. Magari noi imputiamo il ripiego su sceneggiature e attori di mediocre qualità alla scarsità di soldi o di talento, e invece poi veniamo a scoprire che è un astutissimo stratagemma dei cinematografari per abbassare di livello il prodotto, permettere l'immedesimazione fra lo spettatore medio-scarso, notoriamente in maggioranza, e la vicenda, e così incassare di più. Diabolico ma possibile. Come diceva un famoso statista nostrano: a pensar male si fa peccato, ma...
E se qualcuno ci obietta che anche il cinema angloamericano fa cosette, possiamo tranquillamente rispondere che, sì, le fa, ma fa anche cosone.
Italia. "Basilicata coast to coast". Prendiamo al volo come esempio quest'opera, molto premiata nella scorsa stagione, che siamo andati a vedere incuriositi dal passaparola. Abbiamo trovato un filmino (carino?) con attorini, una storiellina, dialoghini spesso dialettali (per far ridere?); insomma, caccole. Certo non è l'unico film prodotto in Italia negli ultimi tempi, né quello presentato come il migliore, ma è comunque un film che ha vinto ben tre David di Donatello, il massimo premio nazionale: regia di debutto per Papaleo (mah), canzone "Mentre dormi" di Gazzé (boh), e colonna sonora di Marcotulli (questa, invece, ok).
Rimaniamo nel dubbio se classificare il tutto come scarsa capacità o massima furbizia.
P.S. La notte di capodanno verso le due, in mezzo a tutti quei varietà festaioli di cantanti, ballerine esauste e cotillon, gli unici due film italiani in onda erano un Fantozzi decrepito e un Pierino con il povero Alvaro Vitali, finto bambino vestito da marinaretto, impegnato in una gara di pernacchie con un attore bambino vero.
Non ditelo a Tarantino.
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