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Perfidie di Stefano Torossi

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Messaggi di Novembre 2012

Due maratone - John Cage & Stanlio e Ollio

 

IL CAVALIER SERPENTE

Perfidie di Stefano Torossi

26 novembre 2012

  DUE MARATONE - JOHN CAGE & STANLIO E OLLIO


     Il Festival di Nuova Consonanza apre la sua quarantanovesima edizione dedicando tutta la domenica 18 novembre, dalle 16.30 alle 23 a una maratona che ha chiamato "Centocage". Non è difficile decifrare il titolo: Nuova Consonanza si occupa da mezzo secolo di musica contemporanea, John Cage ne è considerato il massimo simbolo, e cento sono gli anni che festeggerebbe oggi se fosse ancora fra noi.

     Puntuali nel pomeriggio siamo a Villa Aurelia, sede dell'American Academy che ospita l'evento. Un posto incantato sul Gianicolo, con vista commovente su Roma e giardino ornato da una limonaia a scacchiera.

     Nel corso degli innumerevoli eventi musicali di cui siamo stati testimoni, abbiamo sviluppato una tecnica salvavita, il "pisolo fulmineo sul tempo". Si tratta di addormentarsi di colpo anche durante un violento assalto di timpani e ottoni per quei pochi secondi sufficienti a restituire un minimo di picchi al nostro elettroencefalogramma. Bella trovata, direte voi, sono in parecchi a farlo. Sì, ma noi, nel sonno, riusciamo anche a seguire il tempo con movimenti della testa. Chi ci osserva da dietro pensa a un ascoltatore attento e partecipe; chi ci guarda di fianco vede gli occhi chiusi, il ritmo, e ci classifica come un super intenditore assorto e competente. E noi intanto, ZZZZ.

     In questo modo siamo sopravvissuti ai quarantacinque letali minuti di "Four walls" di Cage, per pianoforte solo, con intermezzo vocale. Un brano eseguito per la prima volta nel 1944, immaginiamo con chissà quale meritorio e meritato scandalo, ma, certo, adesso sembra solo vecchio. Molto scorrettamente da parte nostra, anche perché la decontestualizziamo per rigirarcela a nostro uso e consumo, citiamo una frase del programma di sala: "Lo sviluppo è limitatissimo se non del tutto assente, né ci sono altri tipi di narrazione musicale". Capite bene che tre quarti d'ora così... E' vero che sessant'anni fa episodi del genere erano gli arieti necessari a sfondare le mura della musica accademica, ma riprovarci adesso che l'ariete è tecnologia obsoleta, è un po' masochistico.

     In un'altra sala, una serie di brani per arpa, questa volta, insieme a Cage anche autori contemporanei, ragazzi addirittura, Pur se anagraficamente freschi di giornata, musicalmente ci sono sembrati mooolto stagionati anche loro. Toc toc con le nocche sulla cassa del povero strumento, manate sulle corde, strisciate con le unghie in verticale, archetto e ferraglia varia, qualche nota vera qua e là, poche; insomma tutto l'audace armamentario degli atti dissacranti e soprattutto contromusicali dell'epoca (di Cage), non previsto dal povero Erard quando inventò l'arpa. Forse bisognerebbe non prendere troppo sul serio l'avanguardia dopo che è diventata storia. Detto questo, non finiremo mai di lodare Nuova Consonanza perché continua a mantenere viva la curiosità e la ricerca. Forse tutta una giornata su Cage e i cagisti è un po' troppo; ma, avercene!


     Lunedì 19, "Guarda Cric...guarda Croc". Cambio scena. Ci siamo spostati al Museo Centrale Montemartini, per un'altra maratona, questa dedicata a un argomento molto meno serio: Stan Laurel e Oliver Hardy, cioè Stanlio e Ollio, anche noti come Cric e Croc.

     Proiezioni di rarità, chiacchiere e curiosità su questi due immortali, dal debutto a sedici anni di Alberto Sordi come doppiatore del ciccione, ai sette matrimoni del magro, che, fra alimenti e divorzi non riuscì mai a mettere da parte un dollaro. Squisiti relatori Piero Montanari, autore delle ottime musiche di commento dei film che arrivavano in Italia muti, Giancarlo Governi, inventore della serie TV e del suo geniale titolo "Due teste senza cervello", e Maurizio Nichetti, regista comico nostrano di grande sottigliezza e, inspiegabilmente, di non proporzionale successo.


      Mercoledì 21. Qualcosa di rassicurante. Nel pomeriggio, alla Sala Accademica del Conservatorio di Santa Cecilia, concerto di chiusura del corso di alta formazione. Tre giovani musicisti davvero di livello. I nomi, da ricordare perché li risentiremo: Barbara Panzarella e Massimo Spada, pianoforte, Amedeo Cicchese, violoncello.

     Meno male, possiamo aspettarci qualcosa di buono in un futuro non troppo lontano.


     PS. Mentre Santa Cecilia ci regala qualche speranza, ecco quello che ci somministra Facebook il 23 novembre 2012. Dall'immaginifico uso di grammatica e sintassi alla fantascienza della visione politica. Si tratta di un collega musicista, Roberto Carlo Zaneli. Ecco il testo: "NON CONOSCETE VERGOGNA !!!!!!!!!! GOVERNANTI CHE OGNI GIORNO CALPESTATE CONTINUAMENTE SENZA CONSULTARE O SENTIRE NESSUNO AGIRE SENZA PIETA' , ANCHE SU COSE CHE NON VI AAPPARTENGONO COME IL NOSTRO CASO , E COSI COME TANTI . SAPPIATE CHE SE ANCORA IN ITALIA NON C'E STATA LA RIVOLUZIONE . è SOLO PERCHE UN SIGNORE DA SPETTACOLO COME BEPPE GRILLO HA SMORZATO I TONI ,E CI STA DANDO LA SPERANZA SE NON ALTRO CHE ANDIATE TUTTI A CASA !!!!"

     Grillo che smorza i toni?!

 

                                         

 
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Oggi si vola alto

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

 19 novembre 2012

 OGGI SI VOLA ALTO

 

     Spesso vi abbiamo raccontato occasioni un po' scamuffe, altre volte vere e proprie porcherie. Oggi si vola alto. Tanto per cominciare fra gli ospiti c'è il Presidente della Repubblica, e poi, a scalare, attori, registi, giornalisti importantissimi.

     Teatro Quirino, 13 novembre ore 17. Presentazione di "Io lo chiamo cinematografo", libro a quattro mani, due di Peppuccio, e le altre due di Francesco Rosi, la storia della sua vita e del suo mestiere. Peppuccio di qua, Peppuccio di là; solo dopo un bel po' abbiamo capito (noi sprovveduti) che si trattava di Tornatore Giuseppe, detto Peppuccio (sarà contento, alla sua età, di essere chiamato ancora così?).

     Un tripudio di matusalemmi: Rosi, novanta dopodomani; Eugenio Scalfari, ottantotto; il Presidente Napolitano, ottantasette; Furio Colombo, ottantadue; Franca Valeri, novantadue; Lina Wertmuller, ottantaquattro. Peppuccio e gli altri cinquantenni del gruppo: un asilo nido.

     Attorno al grande vecchio Francesco Rosi, abbiamo visto affaccendarsi l'amico Fabrizio Corallo, che ne è (così ci è sembrato) l'angelo custode. Pochi anni fa lo avevamo incontrato nello stesso ruolo a tutela di un altro grande vecchio, Dino Risi. Fabrizio, al prossimo giro ci aspettiamo il tris: Rosi, Risi e Bisi!  

     La partecipazione del Presidente ha subito instaurato un'aura di grande classe. Guardie del corpo numerose, elegantissime e invisibili. Tutti in piedi al suo ingresso, lo stesso all'uscita, e ci è sembrato un gesto di spontaneo rispetto e non un obbligo cerimoniale. Comunque, per non farci dimenticare che siamo pur sempre a Roma, la faccenda è cominciata con trenta minuti secchi di ritardo.

     Eccone una succintissima cronaca. Sapiente apertura di Ilaria D'Amico, bella brava e garbata. Bel documentario intervista sui due autori del libro, girato su una splendida terrazza romana: casa di Rosi o di Peppuccio? Poi un sobrio Andò, seguito da Irene Bignardi, che, come sappiamo, scrive bene, ma in questo caso ha letto piuttosto male il suo intervento. Fin qui, tutto regolare.

     Poi, il tonfo. Incautamente convocata per leggere qualche riga del libro, si alza una graziosa ragazza, l'attrice Galatea Ranzi che comincia, con vocina da Zecchino d'Oro e patetismo da libro Cuore, un'interminabile pappardella, riuscendo a dare al testo robusto e mascolino di Rosi-Tornatore la consistenza di una minestrina.

     Avanti e ancora avanti per interminabili pagine finché in una sua pausa, crediamo involontaria, qualcuno del pubblico, stufo, si lancia in un applauso di sconforto, seguito da tutti. Pronto intervento di Ilaria, lei sì, vera professionista, che prende la parola al balzo per superare il guado. Niente! Invece di approfittare del salvagente, l'attrice dà sulla voce alla D'Amico: "No, no, non ho finito. C'è ancora un pezzettino"; e giù altri interminabili minuti di semolino.

     Dove si conferma la nota teoria che per fare l'attore non è assolutamente necessario essere intelligenti (intendiamoci, è uguale per i musicisti). E l'altra convinzione, nostra, ma crediamo condivisa da molti, che anche per la presentazione di un libro servirebbe (ma non c'è mai) un regista, che sappia scongiurare sciagure tipo quella appena raccontata, calibrando gli interventi e scegliendo meglio gli interpreti. E sì che in questa occasione i registi non mancavano davvero.

     A Dio piacendo, Furio Colombo (birignao e tono da zia a parte) risolleva l'atmosfera con intelligenza ed energia, seguito da una pacata e ironica chiacchierata del vecchio, ma per niente smemorato, e animato da splendido spirito civile, Eugenio Scalfari.

     La scaltra Ilaria riesce a passare il microfono al Presidente della Repubblica che lo accetta e ricorda spiritosamente un episodio della sua giovinezza a Napoli con Rosi; poi parla lo stesso Rosi, che è apparso dall'inizio alla fine il più giovane di tutti, e finalmente Tornatore chiude dichiarandosi senza riserve suo umile allievo.


     Bene, la giornata non finisce qui. Veloce, caro e scadente kebab di polpo in nero di seppia (che ci aveva sedotti sul menù, senza poi mantenere le promesse nel piatto) in un locale di Piazza di Pietra, l'Osteria dell'Ingegno, tanto per non fare nomi; e poi di corsa all'Accademia di Ungheria a Via Giulia per vedere confermata un'altra nostra teoria. Concerto di contrabbasso e pianoforte: una discreta pianista rumena, Viorica Boerescu e un manovale dell'archetto, l'ungherese Magor Szàsz. Brani di autori dell'ottocento. Tutte trascrizioni, naturalmente, tranne l'ultimo pezzo, di Bottesini. La nostra fiera convinzione è (ci perdonino i nostri tanti amici virtuosi dello strumento) che un contrabbasso non dovrebbe mai tentare di fare il violoncello. Inutile arrampicarsi su per una scivolosa ottava in cerca della stessa intonazione, agilità, sonorità ed espressività. Non ce l'ha e basta. Rimane uno strumento rispettabilissimo e indispensabile; perché metterlo in difficoltà?


                                         

 
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Quattro salti in cappella

 

 

 

   IL CAVALIER SERPENTE

    Perfidie di Stefano Torossi

     12 novembre 2012

   QUATTRO SALTI IN CAPPELLA

 

Business in chiesa. Una manifestazione ancora medievale è in scena tutti i giorni a Roma, alla Scala Santa di S. Giovanni in Laterano. I penitenti, vecchi, infermi, grossi (sono naturalmente quelli che hanno più bisogno della grazia) si fanno in ginocchio i ventotto gradini della scala che secondo la leggenda Gesù salì per essere giudicato dal Sinedrio (ovviamente prima che la traslocassero a Roma).

E' uno spettacolo spesso penoso, grottesco, e soprattutto un esempio di superstizione religiosa. Per il bisognoso di salvezza, ogni gradino salito con tanta fatica rappresenta la remissione di un peccato. Quando arriva in cima, la sua anima è pulita.

E invece no! Santa Madre Chiesa non fa sconti. Ai piedi della scala un cartello bello grosso avverte in parecchie lingue che "La devozione della Scala Santa non perdona i peccati". Proprio così, per l'assoluzione vera e propria serve l'intervento del rappresentante ufficiale, il prete confessore. Altrimenti, all'inferno!


Cuore (e stomaco) in chiesa. Vogliamo azzardare un paragone un po' blasfemo tra una fotografia e la chiesa di San Carlo al Corso. Una foto ingrandita male diventa sgranata, perde in definizione. Così questa chiesa. C'è tutto, ma troppo grande, greve e sfocato. Troppi putti, troppo oro, troppi colori.  Mentre a S. Pietro, che è cento volte più monumentale, si vede che ci hanno speso di più e l'ingrandimento è venuto meglio. Tutto risulta nitidissimo.

Chiesa enorme, S. Carlo, (e lo spazio sarebbe anche bello) ma pacchiana. All'infuori del sobrio pavimento bianco e grigio tutto il resto è un turbine di intonaco dipinto a finto marmo, che vira irresistibilmente sull'alimentare. I pilastri rosa e bianchi: prosciutto. Le pareti striate di azzurro: aringhe e sgombri. I capitelli e le cornici: pura stagnola da cioccolatino. Chicca finale, una venerata reliquia esposta in un tabernacolo: il cuore di San Carlo. Bresaola molto stagionata.


Musica (brutta) in chiesa. "La fama e la fortuna godute in vita da Giovanni Sgambati (1841-1914) sono inversamente proporzionali all'attenzione che oggi gli viene riservata da critica e addetti ai lavori", citiamo da un articolo dell'Avvenire, e di nostro aggiungiamo: "e meno male".

Siamo appena usciti dall'ascolto della sua Messa da Requiem nella chiesa di Sant'Ignazio, il 2 novembre. Della musica possiamo dire in piena serenità che è sonnolenta nei piano e confusionaria nei forte. Non un momento di commozione, come nel requiem di Faurè, o di spavento, come in quello di Verdi. Orchestrona e coro di almeno centocinquanta persone, ottimi, ma non abbastanza da farci cambiare opinione.

Per combattere il disinteresse era comunque più che sufficiente la maestosa bellezza della chiesa, la più grande di Roma, dopo San Paolo, e naturalmente San Pietro. Strepitosi affreschi prospettici sui soffitti e ancor più strepitosi echi. E' pura magia la slabbratura di tutte quelle voci e di tutti quegli strumenti che si produce per via di tutti quei rimbalzi che fanno le onde su pilastri e soffitti. Una sonorità che in sala di registrazione sarebbe implacabilmente bocciata perché davvero troppo sporca. Eppure, che fascino, specialmente quando la massa del suono è così imponente e gli spazi in cui si muove così giganteschi. Detto questo, e malgrado la magia, la musica di Sgambati rimane irrimediabilmente noiosa e soprattutto inutile.


Musica (bella) in chiesa. Domenica 11, Basilica di Aracoeli. Claudio Monteverdi, Vespro della  Beata Vergine. Johann Rosenmüller Ensemble, su strumenti storici.  Piove e ci aspetta una spaventosa scalinata di centoventiquattro ripidi gradini. Con sprezzo del pericolo e ingiustificato ottimismo sulla nostra tenuta cardiaca, si va. Oltretutto proprio davanti alla scalinata c'è, per i pedoni, qualcosa di simile al guado dello Zambesi che ogni anno gli gnu affrontano nella loro migrazione in cerca di pascoli più verdi (vediamo tutti National Geografic, no?). Il massimo dell'audacia è proprio attraversare la strada in quel punto: senza semaforo, con le strisce scolorite, niente vigili, illuminazione fioca, e un plotone di coccodrilli affamati, volevamo dire, di automobilisti infoiati, che puntano l'ignaro gnu, cioè noi che osiamo. Uno degli esempi più riusciti dell'inciviltà di Roma.

Un po' di chitarroni, cornetti e violoni, per un'orchestra e un coro molto più piccoli di quelli del 2 novembre a Sant'Ignazio, ma con un risultato migliore perché, non c'è niente da fare, la musica di Monteverdi è più bella di quella di Sgambati. Usare strumenti storici, quando ci sono quelli moderni, più intonati, potenti ed espressivi, magari è un capriccio un po' snob, comunque fa spettacolo.

Buono anche il controtenore (surrogato moderno e non irreversibile, per sua fortuna, di quelli che una volta erano gli "evirati cantori"). Quanto poteva e ancora può essere retrograda la Chiesa con alcune sue fissazioni spesso trasformate in leggi intangibili. Fra cui, fino a non tanto tempo fa, la salvaguardia delle fanciulle da quel covo di vizi che è sempre stato considerato il palcoscenico. Proibito alle femmine! Con il risultato che, siccome è impossibile mettere la museruola all'arte: "Non si possono avere le ragazze in scena? Niente soprani e contralti? Niente paura. Basta castrare i ragazzi, così le voci che ci servono le abbiamo lo stesso e il vescovo non si offende".



                            

 
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Obladì obladà, e altro

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

    5 novembre 2012

  OBLADI' OBLADA', E ALTRO


 Obladì, obladà. Concerto di Carla Cocco al Teatro Studio del Parco della Musica, il 30 ottobre. Lei è di taglia minutissima e di voce potentissima. Così potente che ogni tanto questa voce turbolenta le scappa e l'intonazione scivola un po' verso il basso. Ma è una destinata a diventare ancora più brava, di sicuro. Serata buona, con un bel pubblico, in parte di amici e parenti, ma anche no. Buona orchestra, buoni arrangiamenti. E allora, dov'è che andiamo a mordere? Un attimo di pazienza.

Le canzoni sono introdotte, una per una, da qualcuno che mai ci saremmo aspettati di vedere in quel ruolo: Orso Maria Guerrini, da tanti anni presente nei nostri bicchieri come etichetta vivente della birra Moretti. Entra da sinistra si avvicina al leggio con passo un po' annodato (l'età, si sa), cartellina in mano, inforca gli occhiali da presbite e legge, ieraticamente immobile, con quel suo vocione da Mosè sul Sinai, versi tipo "La mia vita è un fiume in piena / da quando non ci sei tu", che cantati su un tappeto di archi hanno un senso; tuonati così, ne hanno un altro, non del tutto giustificabile. Sarebbe come andare a Piazza San Pietro, alla benedizione della domenica, guardare il papa che si affaccia al balcone e sentirgli annunciare: "Obladì, obladà..."


La tigre della Malesia. Il felino in agguato avanza lentissimo, appiattito sul terreno. La folta pelliccia a striature verticali lo mimetizza fra macchie di sole e ombra. Dopo una pausa in cui sembra avere ipnotizzato la preda, fa un balzo silenzioso nell'aria, afferra con la sicurezza di un esperto assassino il volatile e piomba a terra con la vittima ben salda fra le zanne acuminate. Guata a destra, poi a sinistra finché, sicuro di non avere rivali, striscia agile come un gatto fra i marmi dell'Area Sacra di Largo Argentina.

E' proprio un gatto, ma di quelli tosti. Durante questa manifestazione di ferina destrezza, gli indigeni che popolano via S. Nicola de' Cesarini procedono nelle loro abituali attività: bere birra o Tavernello, buttarsi sulle panchine a smaltire l'alcool, scaricare cartacce e avanzi a terra e derubarsi a vicenda non appena uno va in ciucca. Mentre con un occhio seguivamo il gatto che, prima di divorarlo praticamente ancora vivo, difendeva fra i capitelli il suo piccione dagli affamati concorrenti, abbiamo visto uno di questi barboni sfilare un accendino a un collega in coma, poi frugare nelle tasche di un altro, agguantare un pacchetto di sigarette semivuoto e accendersi beato una cicca.

Un angolo di jungla. Però a Roma, centro storico. Ci fosse stato Salgari!


Longevità. Su Facebook troviamo una relazione quasi mistica su una popolazione, gli Hunza, che vivono in un'inaccessibile vallata dell'Himalaya. E fin qui, niente di strano. Anche da noi c'è gente che abita in cima ai cocuzzoli. La nota di fb rimanda a un articolo demenziale e assolutamente privo di qualsiasi riferimento serio a ricerche o fatti documentati; come sempre quando si parla di alieni, UFO, Maya e simile paccottiglia. Secondo l'autore, una buona parte degli Hunza campa come minimo un secolo. Alcuni arrivano ai centotrenta, e c'è chi ha raggiunto i centoquarantacinque anni.

Come fanno? Beh, al solito: vanno a piedi (citato uno di loro che in un giorno ha fatto centoventi chilometri!), mangiano poco e sano, niente carne, fumo o alcool. Niente stress. Niente telefoni o diavolerie moderne. Fanno per tutta la vita un lavoro per il quale non serve il cervello: zappare, seminare, raccogliere. (E la Levi Montalcini, allora?)

Insomma: niente questo, niente quello. In pratica niente tutto, e guai a indulgere un po'.

Noi abbiamo un'altra teoria per spiegare tutti questi ultracentenari. Avete notato che li trovano sempre in angoli del mondo lontani, su montagne inaccessibili, in paesetti sconosciuti? Beh, secondo noi l'unica spiegazione di questo fenomeno è: "niente anagrafe". Come si fa a rintracciare il certificato di battesimo di uno che dice di avere centoquarantacinque anni, quindi nato nel 1867, in una sperduta valle dell'Himalaya? Facile inventarsele, le date, anche in buona fede. Si sa che il tempo è un concetto relativo. E non è certo guardandoli in faccia che possiamo trovare indicazioni sull'età, perché da quelle parti cammellieri decrepiti o nonnette sdentate spesso risultano sì e no trentenni, se tutto va bene.

 


PS. Dizionari di cinema. Fra pochi giorni scatta la Festa del Cinema di Roma. L'argomento è di attualità. Per chi ne vuol sapere di più ci sono i dizionari. Quelli famosi sono tre: il Morandini, il Farinotti e il Mereghetti. Con questi nomi da tre porcellini (Morandini e Mereghetti sono i discoli, Farinotti è il saggio), sarebbero più giusti come dizionari di cartoni animati.



                                       

 

 
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