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Perfidie di Stefano Torossi

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Messaggi di Gennaio 2014

La Nera Signora

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

 27 gennaio 2014

   LA NERA SIGNORA

  

Allegro inventario cattolico apostolico romano.

Roma. Chiesa di S. Maria dell'Anima. Scolpiti nel marmo, intagliati nel legno, modellati in stucco o dipinti su tela: 2 teschi con tibie, 7 teschi semplici, 2 teschi alati dall'aria mansueta, 1 scheletro intero, 1 clessidra (tempus fugit); e per consolazione 21 putti belli grassocci.

S. Agostino: 3 teschi semplici, 2 teschi alati con riccioli ribelli, corona d'alloro e aria strafottente (vedi foto), 17 putti di taglia media.

S. Luigi dei Francesi: un teschio, due putti: una miseria. Meno male che hanno i tre Caravaggi.

S. Maria in Vallicella: né teschi né scheletri; in compenso una miriade di putti sparsi su soffitto, pareti, organi (nel senso musicale). Con il barocco che avanza, la morte indietreggia.

S. Agnese in Agone: putti 56: solo la testolina, alata e no; testolina più corpo, con o senza ali, in alto e bassorilievo. Nessun teschio scolpito, in compenso ce n'è uno vero in una teca di vetro: quello, appunto, di Sant'Agnese.

S. Salvatore in Lauro: poca roba, solo 6 putti. Però ci sono molti Padri Pii in giro per la chiesa a lui votata, insieme a reliquie dello stesso: stola, mantello, mezzi guanti e sangue delle stimmate.

S. Giovanni dei Fiorentini: un teschio, 8 putti e, rivestito d'argento, il piede di Maria Maddalena, in una cappellina al cui ingresso un cartello dice: "Il primo piede a essere entrato nel sepolcro di Cristo risorto".

S. Lorenzo in Damaso, la chiesa più buia di Roma: niente tranne un immenso scheletro alato che si libra fieramente tutto bianco su un fondo di marmo nerissimo. Impressionante.

S. Maria sopra Minerva: anche qui un bello scheletro che abbraccia l'ovale con il ritratto del caro estinto. Più quattro teschi semplici, tre teschi con tibie e ben sei tibie incrociate senza teschio. A questo punto una domanda anatomica: tutti diciamo che sono tibie, quelle due ossa incrociate; non è che invece sono femori?


La morte di Claudio Abbado, che molto ci addolora, è un'occasione per condividere un piccolo appunto su come di solito gli amici del defunto rendono pubblico il loro ricordo attraverso interviste, Facebook e articoli di giornale (anche se sappiamo bene che la scelta dei titoli e degli occhielli è spesso dei redattori, piuttosto che degli autori).

Prendiamo dalla pagina 29 di Repubblica del 21 gennaio tre brevi sommari in testa ad altrettanti articoli, tutti dedicati al grande direttore, che rappresentano il campionario standard dell'elogio funebre.

"Una bacchetta magica per tutte le emozioni, così fece diventare popolare anche Mahler". C'è un cronista che non teme i luoghi comuni (la "bacchetta" "magica" del direttore d'orchestra), non ha mai conosciuto l'illustre defunto e, su commissione della redazione, ne fa un ritratto genericamente elogiativo. Meritatissimo, aggiungiamo noi, soprattutto per essere riuscito, se ci è riuscito davvero, a rendere popolare quel noioso di Mahler.

"Sessant'anni insieme, con lui ho scoperto l'anima della musica". A parlare, quasi da vedovo, è Daniel Barenboim, direttore e pianista, che da amico e compagno di studi di Abbado ricorda la loro sintonia di pensiero e riconosce quanto la frequentazione del defunto abbia arricchito la sua vita. Gratitudine e commosso omaggio.

"Quella volta in cui lo convinsi a tornare alla Scala". E questo è il classico caso in cui (qui a scrivere è Lissner, sovrintendente e organizzatore) chi prende la penna lo fa per parlare principalmente di sé, usando la morte dell'illustre come un megafono per far saper al mondo quanto lui stesso è stato importante per l'altro, o semplicemente che lui c'era, o addirittura per lanciare un "ve l'avevo detto, io!".


PS. Abbiamo visto "La grande bellezza", e non diteci che non siamo in argomento, perché il film sguazza nella putrefazione di una città, di una società, soprattutto di un personaggio.

Che dire? E' un film girato bene, recitato bene, che ci ha irritato per il suo snobismo aggravato da un fellinismo eccessivo. Ossequiare il maestro, certo, ma insomma... C'è la nana, c'è la Saraghina, la bambinaccia, le suore e i preti, la incongrua giraffa fra i ruderi delle terme; c'è perfino (aggiornamento postfelliniano?) Venditti con il suo abituale incarnato color mogano.

Le inquadrature turistiche e gli arredamenti sono così insistiti e curati da rubare spazio alla storia che alla fine si sfilaccia anche per via del montaggio a mosaico. Snobissima pure la musica di Lele Marchitelli, con le sue sonorità vocali da depressione scandinava. Imperdonabile il finale: raccontare per simboli va bene, ma chiudere con la morale della storia spiegata al popolo attraverso il pistolotto del protagonista, davvero non ci sembra un gran che.

Certo, un regista che riesce a far recitare la Ferilli è un mago. Che però ci appare un po' troppo compiaciuto della sua stessa magia. Un altro tipico film italiano di visioni, impressioni, schizzi, purtroppo anche macchiette; grande bellezza (appunto) formale, ma manca quel robusto pilastro che regge tutto il cinema americano: una buona storia.


                                  


 
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Andreotti tira ancora

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

     20 gennaio 2014

     ANDREOTTI TIRA ANCORA


La St. Louis Music School ci ha invitati lunedì 13 a una master class di Gegè Telesforo: "Vocal Jazz Concept". Tanti ne abbiamo ascoltati di vocalisti jazz, e anche alle lezioni di parecchi professori abbiamo assistito, ma mai ci era capitato di trovare qualcuno come Gegè, capace di trasmettere nel corso di un'apparentemente semplice chiacchierata tante nozioni utili, addirittura indispensabili a chiunque ci voglia provare (a fare il vocalista), o comunque a fare jazz cantando, suonando, o anche solo ascoltando consapevolmente.

L'amico Telesforo, oltre a essere un polistrumentista, un mago delle corde vocali, un presentatore e promotore di talenti, è un bel signore dall'abbigliamento e i toni normali, capace di citare i nomi più famosi del jazz americano con cui ha collaborato senza darsi arie. Il suo incitamento agli studenti è "Segui la passione!". Nelle sue chiacchierate fa spesso riferimento allo scudo che gli ha permesso di difendersi dalle insidie della siringa durante la sua adolescenza in provincia, e di girare per Harlem di notte, unico bianco, senza beccarsi una coltellata. E' che sono di Foggia, ripete, e pare che questo fatto, oltre ad averlo aiutato in passato, sia tuttora un amuleto contro le cattiverie della vita. Senza andare troppo nel dettaglio, lo abbiamo visto chiamare al microfono ragazzi intimiditi, e in due battute dargli la chiave per sentirsi bene dentro, e anche, il che non guasta, funzionare meglio fuori. Avercene, di insegnanti così!


Martedì. Cambiamo genere. Dal vocalismo jazzato alla poliedricità politica. A Via delle Coppelle c'è Palazzo Baldassini (Sangallo il Giovane, 1518), un sobrio edificio di purissimo stile rinascimentale, cui cinque secoli di vita non hanno fatto alcun danno: integro nella sua assoluta eleganza. Non grande, con un meraviglioso cortile e una ancor più bella loggia che vi si affaccia. In questo luogo delle meraviglie ha sede l'Istituto Luigi Sturzo, che nel 2007 ha acquisito l'archivio personale di Giulio Andreotti (che oggi compirebbe 95 anni), composto da 3.500 faldoni dai titoli variegati e chiarificatori: Democrazia Cristiana, Vaticano, ma anche Divorzio, Cinema.

L'occasione: la presentazione di un curioso libretto contenente alcuni suoi discorsi, e però anche varie testimonianze di amici fuori del coro politico, Pippo Baudo: "Ironia e leggerezza in video", Totti: "Giallorosso come pochi". Ci aspettavamo la solita barbogia cerimonia istituzionale. Invece, folla da concerto rock. Nessuna possibilità di entrare nel salone della cerimonia, buttafuori alla porta e delirio di ogni genere di persone già mezz'ora prima dell'inizio.


Non stiamo esagerando. Abbiamo dovuto rinunciare a ogni tentativo e ce ne siamo andati, con il libretto in tasca (invece delle proverbiali pive nel proverbiale sacco) ma senza perderci d'animo. A Roma basta girare l'angolo e da una meraviglia si passa a un'altra. La Chiesa di S. Agostino è sì e no a cento metri. Facciata tirata su con i blocchi di travertino caduti dal Colosseo. C'è il suo bravo Caravaggio (la Madonna dei pellegrini), il suo bravissimo Raffaello (il profeta Isaia) e altre squisitezze. In più ci si può permettere il lusso di camminare su un pavimento di preziosi marmi tagliati a quadrati, losanghe, rombi, e soprattutto a fette. Ci spieghiamo: tutta la superficie è intarsiata di tondi di vario colore e provenienze: cipollino greco, rosso di Verona, serpentino del Peloponneso, bigio numidico, giallo tunisino; ma un occhio attento capisce subito cosa sono questi tondi: fette di colonna. All'epoca si usava. Una colonna romana caduta, magari spezzata e non più utile per sostenere un architrave, diventava un utilissimo salame di marmo. La si tagliava a fette uguali e, hoplà, ecco bell'e pronta una serie di tondi colorati da mescolare ad altre fette di altre colonne, e farci un bel pavimento.

Prima di uscire, un'occhiata la merita, nella cappella sinistra del transetto, la statua di un santo, Tommaso di Villanova che fa l'elemosina. Si tratta di una straordinaria opera d'arte al servizio di un messaggio efferato. Il santo, ammantato di sontuosi abiti, elegantissimo e visibilmente ricco, si sporge dalla sua nicchia sull'altare e fa cadere con gesto di condiscendenza una moneta nella mano protesa di una povera donna con due bambini (di sicuro figli della colpa) attaccati alle sottane, collocata fuori dalla nicchia e un gradino più in basso del santo, tanto per far risaltare la sua condizione di peccatrice, e quindi di meritatissima miseria. Ma, niente paura: purché rimanga sul gradino di sotto e non alzi la cresta, c'è la Chiesa che la soccorre. Il gruppo, davvero notevole per la sua perversa armonia, è attribuito a Ercole Ferrata.


Facebook, miniera inesauribile. C'è la rubrica "Roma sparita" che pubblica vecchie foto curiose della città. Oggi ne abbiamo vista una del 1942, in cui appaiono, di schiena, un prete con l'a-spersorio, un chierichetto con il secchiello e sullo sfondo, oltre il fossato dello zoo, due enormi orsi scarsamente interessati alla cerimonia. La didascalia: "Benedizione degli orsi per la festa di S. Antonio". E ci sono venute in mente le tante simili cerimonie di qualche anno fa, oggi, ci pare, un po' passate di moda: benedizione delle carrozzelle a S. Pietro, degli autobus al deposito ATAC, dei netturbini in divisa, degli scolaretti e dei campi sportivi, delle prime pietre e dei vari delle navi. C'era sempre un vescovo in servizio. Che faranno in questa epoca atea i benedicenti di professione?


                                        

 
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Pigrizia postnatalizia

Post n°259 pubblicato il 12 Gennaio 2014 da torossis

  IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

   13 gennaio 2014

    PIGRIZIA POSTNATALIZIA

                                                                                                   

Evidentemente il clima delle feste ancora fluttuante, sommato ai postumi da sovralimentazione ed eccessi etilici continua a produrre i suoi effetti. Fatto sta che uno di questi effetti, la pigrizia, aggiunto alla sollecitazione a cui da parecchi giorni ci sottopongono le pagine dei giornali che pubblicizzano la prossima uscita sul mercato di ben cinque CD di Ludovico Einaudi ci ha spinti, anziché scrivere qualcosa di nuovo, ad andare a frugare in archivio e a ripresentare un nostro vecchio uovo avvelenato del 24 settembre 2012, intitolato appunto: "Einaudi e gli spinelli". Eccolo.

                   

Parco della Musica di Roma (ricordiamoci che siamo andati indietro al 24/9/2012). La conferenza stampa di presentazione della Stagione Contemporanea è piuttosto moscia, non per il progetto, interessante, o per l'organizzazione, puntuale e corretta, ma perché i tre signori al tavolo: Fuortes, amministratore delegato; Regina, presidente; Pizzo, curatore; risultano incapaci di raggiungere la soglia della nostra attenzione. Atmosfera che precipita nel funereo con l'intervento di Einaudi che proprio non ha il dono dell'eloquenza. Le sue lente parole escono faticosamente picchiettate di ehm, e beh, e mah soporiferi (continuiamo a pensare che la maggioranza dei musicisti dovrebbe aprire bocca solo per ficcarci dentro uno strumento).


Si comincia il 22 settembre con "The Elements" del medesimo: prima assoluta. Il colpo d'occhio è magnifico. La sala dell'Auditorium è un'immensa caverna arcaica per i legni che la foderano tutta, moderna per i ponti sospesi dei fari e le curve fonodinamiche delle superfici. Scenografia essenziale ed elegantissima, con la sapiente esposizione di ogni percussione esistente, più qualcuna che ci è parsa inventata per l'occasione (più tardi ascolteremo anche lastre di metallo fatte vibrare nell'acqua). Cinque grandi sfere traslucide sospese, che vedremo salire e scendere lungo i cavi e illuminarsi di luci candide, e cinque solisti: quattro percussionisti della PMCE più Robert Lippok, pilota dell'elettronica. Tutti in nero, su fondo nero, con i loro strumenti scuri o incendiati di bagliori metallici sotto i fasci bianchissimi dei fari. Festosa l'atmosfera di attesa di un evento che sa già di buona riuscita. Poco a poco il teatro si riempie di un pubblico ben disposto. Schizzo di colore romanesco quando un burino si affaccia dalla galleria e a gola spiegata chiama un suo fratello in platea: "Aho! Poi se n'annamo a cena!" Non stiamo allo stadio, ma loro non lo sanno.


Buio in sala, scenografico riaccendersi graduale di poche luci bianche in tutto quel nero ed ecco che, mentre intuiamo i cinque compagni di avventura, neri su nero, ai loro posti sul fondo, entra Ludovico Einaudi (e qui ci sentiamo costretti a riproporre una nostra fissazione: l'abbigliamento di scena, inteso anche come rispetto per il pubblico) con addosso la solita giacchetta, la solita maglietta, i soliti pantaloni sformati. Naturalmente non abbiamo qui intenzione di sbertucciare chi non veste Armani. Vogliamo solo dire che quando uno sale sul palcoscenico ha prima di tutto l'obbligo (o almeno dovrebbe avere l'astuzia) di guardarsi allo specchio, magari con l'aiuto di un consulente, e poi adottare i provvedimenti del caso (abito, trucco e look in generale). Il maestro si avvia al gran coda, piazzato con la tastiera verso il pubblico, e la serata ha inizio.


Comodi nella nostra poltrona ci lasciamo andare all'ascolto, e a un certo punto, circa a metà della faccenda (che in tutto durerà un'ora e mezza) abbiamo la sensazione che ci manchi qualcosa. La musica va: molto rarefatta, molto ripetitiva, priva di filo melodico o di sviluppo armonico riconoscibile, anche se ricca di qualche bella sonorità, e noi a nostra volta riandiamo a un nostro momento in India, esattamente trentanove anni fa, sulle rive del Gange, al tramonto, mescolati a un gruppo di fricchettoni figli dei fiori ad ascoltare per ore e ore il sitar di un Ravi Shankar locale, convinti di essere a un passo dall'illuminazione. Per renderci poi conto che la scalata verso l'immenso non dipendeva dalla musica, ma dal forte quantitativo di spinelli (o peggio) consumato durante l'ascolto.

Ecco cosa ci manca in sala: un bello spinello! Peccato, perché dopo questa raggiunta consapevolezza ci siamo trovati ad affrontare altri tre quarti d'ora di suoni rarefatti, ripetitivi, privi di filo melodico e di sviluppo armonico; e senza nessun supporto psicotropo.


Applausi deliranti, standing ovation, richiesta di bis, concessi, e fuoruscita di pubblico felice.

E noi; che dire? Non vogliamo certo sostenere che se una composizione non contiene melodie, armonie e contrappunti, insomma una struttura articolata, non ci piace; anzi le novità, ma quelle vere che provano a scardinare il sistema, ci entusiasmano, ci irritano, ci seminano la testa di dubbi; comunque ci fanno pensare.

Anche la musica di Einaudi ci ha fatto pensare, ma solo agli spinelli sul Gange.



                                      

 
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Opinabili opinioni

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

   6 gennaio 2014

  OPINABILI OPINIONI

 

Ultimo giorno del 2013. Sera. Prima di andarcene a spasso per Via dei Fori Imperiali, abbiamo acceso RaiUno sul solito spettacolone di capodanno, in cui a un certo punto è apparso un Umberto Tozzi tristemente abbigliato in giubbotto di cuoio da motociclista, maglietta slabbrata, e imbarazzante pappagorgia da ultrasessantenne qual è. Lasciatecelo dire: l'unico che si può ancora e sempre permettere, anche se decrepito, qualsiasi look è Clint Eastwood. Tutti gli altri no, e soprattutto Tozzi, che sul palco (proprio dove uno dovrebbe essere al meglio) appariva decisamente fuori posto, e anche un bel po' sciatto.

Effetto simile ce lo ha fatto Grillo, presentatosi stavolta tra il ruffiano e il finto mansueto, cui abbiamo dedicato qualche minuto del suo faticoso (da seguire) e un po' risibile discorso di capodanno, concluso da un fumettistico "Che la forza sia con voi!" Addosso una camicia da boscaiolo del Wisconsin, anche questa scarsamente coerente con l'età e la situazione. Meglio, molto meglio Napolitano, vestito come si conviene, che potrebbe (ma non crediamo che vorrebbe) essere suo padre.

Sbirciatina a "L'attimo fuggente", film esemplare del perché gli americani sono più bravi di noi: sceneggiatura superba, recitazione stratosferica, anche dei ragazzini, riprese magnifiche, storia emozionante. Ci è venuto in mente, e ce ne scusiamo perché nelle Feste bisognerebbe essere buoni, come rappresentante nazionale dell'ottava musa ed eventuale campione da contrapporre, Rocco Papaleo, di cui in uno spot abbiamo visto annunciata la prossima uscita sugli schermi.

E poi siamo andati per Roma. Erano tutti in strada. Abbiamo visto spettacolini caserecci, modesti e dall'aria improvvisata, ma anche bei giochi di laser; e finalmente il conto alla rovescia in cifre luminose. Che sarebbe in sé una faccenda piuttosto banale. Ma quando la proiezione atterra sul Colosseo, ecco che qualunque banalità diventa speciale. Questo significa purtroppo che per mettere su qualcosa di memorabile in questa città non serve nessuno sforzo. E così, viziati come siamo, l'andazzo pressapochistico lo tiriamo avanti fin dai tempi di Numa Pompilio.

E' passata ormai la mezzanotte. Siamo a mercoledì primo gennaio duemilaquattordici. Tempo soleggiato e tiepidino. La notizia (una di quelle rassicuranti) è che il Conservatorio di Santa Cecilia, ora in mano all'energetico nuovo direttore, Alfredo Santoloci, si è inventato un evento straordinario: Il Museo che Suona. Succede che il magnifico Museo degli Strumenti Musicali, piazzato in uno dei più interessanti siti archeologici della città, il Palazzo Sessoriano, benissimo allestito e da noi frequentemente visitato, ogni volta in totale solitudine nelle sale deserte, oggi pomeriggio era tutto un ribollire di persone. Perché, con intelligente quanto semplice idea, Santoloci aveva organizzato, intanto un ingresso gratuito, e poi gruppi di musicisti del Conservatorio itineranti nel museo a suonare per il pubblico vecchi o vecchissimi strumenti che fino a quel momento erano rimasti chiusi nelle bacheche come mummie imbalsamate.

E qui permetteteci, dopo la sfilza delle precedenti, di esporre un'altra delle nostre opinabili opinioni. Un quadro, una statua, un reperto archeologico non hanno bisogno di niente altro che la loro stessa esistenza per trovare posto in un museo. Sono belli così come sono, e questo basta. Uno strumento (musicale, ma anche industriale) a cui viene tolta la sua funzione, che è produrre suono, o forza, sarà anche interessante come oggetto, ma se non lo si fa vivere diventa, appunto, una mummia imbalsamata.

3 gennaio, primo funerale dell'anno. L'amico Roberto Ciotti, chitarrista. Naturalmente alla Chiesa degli Artisti. Ogni funerale è lo specchio del mondo al quale apparteneva il defunto. In questo caso quello del blues. E allora, eccoci in mezzo a una folla sorprendente di anziani baffuti, barbuti, selvaggiamente capelluti, con code di cavallo, cappelloni e stivali. Naturalmente il tutto striminzito e scolorito dagli anni (tranne qualche caso di restauro, tentato ma non sempre riuscito), per cui le code di cavallo sono ridotte a due spaghetti, i baffoni e i barboni, un po' tarlati, sono candidi, o meglio gialli di nicotina (c'era fuori della chiesa una puzza di fumo esiziale) e i capelli, se e quando ci sono ancora, così radi che ci si vede attraverso. Molti occhi rossi e sguardi spenti, non più nascosti dai sexy Ray-Ban di ordinanza, ma quasi sottolineati da inequivocabili occhialetti da presbite.                                                  

Ultima opinabile opinione. Noi ritroviamo nei pittoreschi particolari di questa scena i simboli di un periodo eroico, che purtroppo ormai risulta degradato a semplice passato, senza più eroismo. Allora forse sarebbe meglio metterli in archivio, questi simboli di ieri, per evitare che oggi diventino patetici. O ci sbagliamo?



                                         

 

 
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Regalino di capodanno - Ovvero -Incompetenti o solo stupidi

Post n°257 pubblicato il 02 Gennaio 2014 da torossis

IL CAVALIER SERPENTE

Perfidie di Stefano Torossi

30 dicembre 2013

 REGALINO DI CAPODANNO CON FOTO

Ovvero

INCOMPETENTI O SOLO STUPIDI

La faccenda ha raggiunto una dimensione che ci sembra travalichi quella umana. Noi non lo sappiamo per certo, ma presumiamo che nella giunta municipale di Roma ci sia un responsabile dell’arredo urbano. E’ a lui che ci riferiamo con il nostro titolo (anche a rischio di querela).

La notizia. Nella nostra città esiste un luogo in cui avventurarsi è più pericoloso che entrare disarmati nella jungla del Borneo: Piazza Venezia. E’ un grande spazio disseminato di dislivelli che trasformano il selciato in una pista da fuoristrada, e assediato giorno e notte da un traffico diabolico. Non ci sono semafori automobilistici o pedonali. Chi vuole attraversare si butta, sperando nella buona sorte. Il centro della piazza è occupato da una doppia grande aiuola tagliata a metà dall’unico corridoio di relativa sicurezza per il folle o l’audace che ci si avventura: un attraversamento pedonale regolarmente segnalato da belle strisce bianche dipinte sui sampietrini. Lì ci si sente più o meno protetti.

Ma nel turbamento di questi giorni di festa dev’essere successo qualcosa di destabilizzante in giunta perché il funzionario citato all’inizio ha pensato bene di piazzare l’obbligatorio albero di Natale non nell’aiuola dove era infilato negli anni scorsi, quindi “fuori dalle balle”, come abbiamo sentito dire a un irritato turista, ma esattamente nel centro del percorso pedonale. Così che chiunque si trovi ad attraversare la piazza su questo sentiero, fra l’altro rigidamente arginato dagli archetti della recinzione, incontra un ostacolo quasi insormontabile.

Per non passare da mitomani abbiamo deciso di contravvenire all’abituale austerità del nostro blog e di darvi qualche foto sul fatto. Guardare per credere. Si vedono bene le strisce, i muretti delle aiuole e i pellegrini che arrivati all’albero non sanno cosa fare. E il bambino che ci passa appena, mentre la mamma si deve intrufolare sotto le fronde?

 

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P.S. La lupa capitolina di verdura, di cui abbiamo già parlato, regalata non si sa bene da chi al sindaco Marino e alla città, eccola qua. Ci siamo sbilanciati con le altre foto, e allora vi aggiungiamo anche queste. Che meritano. Sullo sfondo le pietre trimillennarie delle Mura Serviane. Pregasi prestare attenzione, oltre che alla nobile resa espressiva del vegetale animale, anche ai gemelli, identificabili meglio in due cavolfiori bolliti che in Romolo e Remo.

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 Già che ci siamo vi replichiamo l’intero resoconto; dalla settimana scorsa: “Eccolo il regalino per il sindaco. Noi crediamo sinceramente che neanche nel giardinetto della Pensione Bellavista di Casteltirolo avrebbero avuto il coraggio di esporre una faccenda del genere. Vi consigliamo la passeggiata (non in Tirolo, ma al Campidoglio), salutare e istruttiva. Per vedere.

Piazzata in una cassetta di legno in puro stile Alto Adige, si erge una lupa capitolina ritagliata con approssimativa arte topiaria (tecnica di sagomare fronde e rami in figure geometriche o forme di animali) mentre allatta i due proverbiali gemelli, anche loro scolpiti nella stessa materia vegetale. L’opera di sublime fattura etrusca, con in più il tocco del Pollaiolo, rifatta in verdura. Mah! Naturalmente fotografatissima da mandrie di turisti che così neanche si accorgono delle vere lupe storiche in marmo, bronzo, a tutto tondo, in bassorilievo, che li circondano.

E non finisce qui. Proprio davanti alla povera bestia, adagiata su un letto di ciottoli sbiancati alla varechina, ci appare, sempre ritagliata in una miseranda siepetta di bosso, la scritta S.P.Q.R. (osservare l’agghiacciante foto a destra). E’ un’immagine di nostalgica malinconia che ci riporta a quando, da piccoli, andavamo per le vacanze a Gabicce Mare o a Ladispoli e alla stazioncina ci accoglieva immancabilmente il nome della località, disegnato come questo, con erba o fiorellini. Però qui siamo a Roma. Una certa differenza di stile ce la saremmo aspettata.


Che dire? E’ ovvio che il buon gusto non lo possiamo pretendere da tutti, ma la salvaguardia dei luoghi della storia sì, specialmente se si tratta di impedire che una casereccia, imbarazzante lupa di erba rubi la scena a quella vera e nobile, di bronzo”.

 
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