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Perfidie di Stefano Torossi
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
16 febbraio 2015
SANREMO DUEMILAQUINDICI
Puntate IV e V
13 Febbraio - UNA MERAVIGLIOSA VECCHIA PAZZA
Pillola del TG 1. Lettore, immagina di essere un professionista che ha sudato per mesi a preparare uno spettacolo impegnativo come questo. Arriva un giornalista che chiede, in tua presenza, ai collaboratori e alla gente intorno come ti vedono, e questi rispondono, testuale: "Come Charlie Chaplin. Come un pelouche. Come Calimero, così piccolo e nero". Come reagiresti? Al tuo posto Carlo Conti ha finto di essere felice e contento. Questa è professionalità. Andiamo al Festival.
Nella prima puntata abbiamo criticato Conti per l'uso eccessivo e ripetuto di una parola. Bene, dopo essere stati testimoni (insieme a 15 milioni di altri italiani) con crescente stupore e ammirazione della scarica di disinvoltura, spirito, padronanza della scena di Ornella Vanoni, dobbiamo usarla, quella parola. Ornella è una MERAVIGLIOSA vecchia pazza. (E' Virginia Raffaele, lo sappiamo, ma l'imitazione è così ben fatta che abbiamo voluto esagerare l'omaggio alla genialità di Virginia continuando a chiamarla Ornella).
E invece, che immagine di dignità serena, tanto a proprio agio da mettere a disagio il perfetto Carlo Conti, che a un certo punto non sapeva più bene come congedarlo, e infatti lo abbiamo visto per la prima volta incerto. Parliamo naturalmente di Sammy Basso, il diciannovenne malato di progeria, che vive in un corpo di ottantenne.
Spesso noi anziani pensiamo e ci raccontiamo quanto sarebbe bello tornare ai vent'anni, ma mantenendo il cervello e l'esperienza che abbiamo adesso. Un sogno, naturalmente, della cui irrealizzabilità ci consoliamo perché comunque il nostro tempo lo abbiamo vissuto. E invece che ingiusta tragedia quella di uno come Sammy che vive (e non può neanche illudersi che sia un sogno dal quale potersi svegliare) con la mente di un ragazzo nel corpo di un vecchio, che non potrà ospitarlo ancora per molto perché sta per morire. A diciannove anni!
Una testimonianza così intensa ha gettato un'ombra, peraltro meritata, sulla successiva scenetta comica di Gabriele Cirilli. Battute su mogli e suocere e sulla paura di volare. Solita robetta.
E finalmente arriva quella che il presentatore definisce un'eccellenza italiana. Un jeans e una maglietta (più un paio di Superga e un sacco di capelli). Suona un motivetto insignificante, fa un discorsetto new age a base di amore e comprensione, un po' di umiltà e tanta semplicità, si tira i riccioli e si aggiusta gli occhiali sul naso.
Abbiamo raccolto con devozione, perché lo consideriamo un vero genio dell'autopromozione, quello che in varie occasioni, ha detto di sé stesso: "Travolto dalla musica abbandono ogni difesa, e, fragile ed emotivo, guardo il mondo col cuore di un bambino. La mia evoluzione giunge qui all'ingenuo e sublime incanto"... "La musica mi arriva in testa già strutturata"..."Mentre dirigevo il concerto, saltellavo giulivo davanti all'orchestra". Travolti anche noi da un irresistibile imbarazzo di fronte a questa scarica di scemenze (non dimentichiamo che il nostro non è un teenager con turbe adolescenziali, ma uno scaltro ultraquarantenne), non possiamo fare a meno di spiattellarvi il nome del responsabile: Giovanni Allevi!
E con questo chiudiamo la serata, ma non senza chiederci: quanto tempo passerà prima che Giovanni Caccamo si cambi il cognome?
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14 Febbraio - CINQUANTA SFUMATURE DI BRONZO
Festival start. Finalmente dopo anche troppi riferimenti all'abbronzatura, chiaramente artificiale, del conduttore e di altri, è arrivato il vero nero: Will Smith, così la piantiamo con le cinquanta sfumature di bronzo.
Dentro una torta di fragole camuffata da albero di natale semovente e sbrilluccicante si presenta in scena, camuffato da Renato Zero, Panariello. Anche lui fa battute sul fisico delle politichesse, sulle troike da pagare o no, sui testi ambigui delle canzoni, ma avendo un'esperienza, una tenuta, e un livello comico ben superiore, anche se adopera gli stessi ingredienti, i suoi timballi risultano molto più gustosi di quelli insipidi di Cirilli, scotti di Luca e Paolo, rancidi di Siani.
E poi, col fatto che sbeffeggia Schettino (quando morirà, all'inferno è probabile che non ci arrivi mai: riuscirebbe a far naufragare anche la barca di Caronte), guadagna la nostra totale simpatia. Perché, se fra le eccellenze italiane ci hanno messo Allevi, come è successo ieri, forse c'è un posto, in fondo, anche per il Comandante. Naturalmente stiamo esagerando l'accostamento e i termini del paragone: uno è solo innocuo, l'altro è laidamente pericoloso, ma sono entrambi degli impostori.
Fin qui tutto bene. La chiacchierata con Will Smith va bella sciolta, con l'aiuto della prontezza dell'americano, della sua bella presenza e delle risate (di tanto in tanto fra i due il più chiaro effettivamente risulta Smith, saranno le luci?). Ottima la reazione al dramma di Conti quando si è guastato il tabellone della classifica, e davvero professionale la sua disinvoltura. Immaginiamo il panico da controllare, ma ci è riuscito benissimo.
Insomma, stavamo al livello alto della prestazione scenica, e poi...(ma che bisogno c'era, ci siamo chiesti), siamo precipitati di nuovo all'oratorio con le scenette di San Valentino: troppe, troppo lunghe, troppo volgari, troppo forzate; inutili. I responsabili (oltre agli autori dello spettacolo, certo): tali Marta & Gianluca, da aggiungere di diritto alla lista dei cuochi che il timballo lo fanno molto peggio di Panariello. Troppo salato, diremmo.
Letterine delle vallette, lacrimuccia di Rocìo e buonanotte ai suonatori.
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
16 febbraio 2015
SANREMO DUEMILAQUINDICI
Puntate I - II - III
10 Febbraio - L'AMATRICIANA CON L'AGLIO
Sì, perché l'ultima notizia del TG 1, prima dell'Evento, riferiva la secca smentita del Consiglio Comunale di Amatrice con in testa il sindaco: "No, nel sugo all'amatriciana non ci vuole l'aglio!" Questo per controbattere la blasfema dichiarazione di senso opposto dello chef Cracco, che aveva generato non poche preoccupazioni fra i buongustai italiani.
Chiarito questo punto fondamentale, rimaniamo su RaiUno e passiamo al sessantacinquesimo Festival di Sanremo che inizia con una breve intervista a un barbiere in ghingheri e panama e a una pingue matrona: Al Bano e Romina.
Poi, interrotta da un indecente numero di annunci pubblicitari, attacca l'Anteprima Sanremo.
Carrellata (finalmente un montaggio veloce e moderno, anche se lungo) sui personaggi del festival. Ci hanno colpito i denti ferrati di Malika Ayane (sempre pensato che quella protesi fosse un fatto adolescenziale) e una bella patacca di grasso sulla camicia di Platinette. Non fa niente. I personaggi sono, ognuno per il suo verso, abbastanza robusti da reggere queste piccolezze.
Comincia lo spettacolo. Come da tradizione si ripetono i tempi lenti e imprecisi, le pause lunghe, gli attacchi in ritardo; il presentatore che a un certo punto chiama un rullo di tamburo, e il batterista chissà a cosa stava pensando perché non risponde, e lui, veloce: "Ma ce le hai le bacchette?" Insomma le solite cose all'italiana.
Conti, bisogna dirlo, a parte il vezzo, che a un certo punto diventa fastidioso, di ripetere mille volte "meraviglioso", è bravo, prontissimo e mai volgare.
E siamo al primo momento di estasi nonché a un'altra botta di oratorio parrocchiale.
Appare sul palco la famiglia Anania di Catanzaro: marito, moglie e sedici figli. Alle prevedibili domande sul perché di una famiglia di quelle dimensioni, il paterfamilias ringrazia Dio e dichiara che la sua figliolanza la deve allo Spirito Santo. A questo punto ci è venuto il sospetto che i coniugi Anania non abbiano chiara la differenza fra coito (umano) e intervento (divino).
Tiziano Ferro, in impeccabile papillon, canta con il suo simpatico sorriso, mentre dietro di lui torreggia una specie di Mastrolindo gigante con violino fra le braccia, giacchetta striminzita e jeans da barbone. Come mai uno in smoking e l'altro in stracci?
Ma arriviamo al vero momento di abiezione. L'entrata in scena di un personaggio obbrobrioso; il classico servo insolente della commedia dell'arte, il guitto che ridacchia dopo aver detto la battuta, che sfotte i compagni di lavoro insultandoli per far ridere il pubblico, forte della protezione del microfono che ha in mano e del palco che indegnamente calpesta.
Per prima cosa offende un bambino grasso chiedendogli come riesce a entrare nella poltrona. Poi si dedica ai musicisti dell'orchestra, puntando comunque e sempre sul difetto fisico (pelata, statura, ciccia): un classico. Infine scivola nella vera volgarità quando, verso la chiusura del suo troppo lungo intervento (12'), la butta sul patetico, cambia registro, si mette a piagnucolare e a chi manda il suo pensiero nell'alto dei cieli? Ma a Pino Daniele, naturalmente! Applausi lacrimosi.
Non vorremmo che vi sfuggisse il nome di costui: Alessandro Siani.
Avanti intrepidi. Cantano Romina e Al Bano. A Conti non riesce la progettata rappacificazione fra i coniugi litigati. La figura della zitella stizzosa comunque la fa Al Bano, mentre alla rubiconda Romina sembra non gliene importi gran che.
Siamo in chiusura. Ma non prima di aver registrato un terzo momento di schietto livello parrocchiale: il numero dei tre giornalisti finti che fanno le domante. Battutacce, doppi sensi, ammiccamenti. Squallore.
E finalmente, per chiudere davvero, arriva per bocca di Conti un annuncio che supera ogni decenza: Alessandro Siani devolverà il compenso per la sua prestazione a due ospedali pediatrici, uno di Genova, ci pare, e uno di Napoli.
Eh? L'avesse fatto sapere prima forse avrebbe guadagnato un po' della nostra stima, ma detto a fine trasmissione, dopo che qualcuno gli avrà fatto notare la sua cafonaggine, fa l'effetto di una bella toppa piazzata su uno strappa irrammendabile.
Quando uno è guitto, guitto rimane, non c'è niente da fare.
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11 Febbraio - DONNA BARBUTA SEMPRE PIACIUTA
Superfluo specificare di chi si tratta. Prima di andare a raccontare lo spettacolo, ci pare giusto fare le nostre più vive congratulazioni alla donna barbuta di stasera. Non tanto per la canzone che ha cantato, un pezzo commerciale niente male e con un bell'arrangiamento, quanto per lo spirito con cui ha scelto il proprio nome d'arte, bisex e bilingue.
In Sudamerica "concha" vuol dire conchiglia, ma anche vulva, e il suo diminutivo conchita, sta per fighetta. In tedesco "wurst" significa salsiccia, come sanno tutti quelli a cui piacciono gli insaccati. I riferimenti ci sembrano indicativi: Conchita Wurst, ovvero Fighetta Salsiccia. Geniale.
Seconda puntata. Avanti di un giorno e indietro di cinquant'anni nella formula blanda e funzionante, formato famiglia. Solita scenetta parrocchiale Conti-Caizzi con smorfie e occhioni sgranati, tanto per far capire bene al pubblico quando ridere. Anche stasera quantità esagerata di pubblicità. Se ci regge il fisico, domani promettiamo di contare gli spot.
Superate di corsa le prime canzonette arriviamo alla comparsata di Joe Bastianich, il superchef, di fronte al quale Conti, l'inappuntabile, discreto Conti fa una lieve scivolata. Lo chef accenna a un piatto americano molto popolare: spaghetti with meatballs, che vuol dire spaghetti con polpette. Ma la parola inglese può essere maliziosamente tradotta letteralmente con "palle di carne". E qui il nostro non ha resistito: "Ma sono solo due?" "No, sono di più" risponde l'ignaro Joe. "Ah, meno male, perché se erano solo due..." Prevedibili sghignazzate del pubblico; poi Conti per fortuna si riprende.
Rocìo fa la spiritosa da copione, ma con l'espressione tesa della brava studentessa che non vuole sbagliare l'interrogazione. Certo è proprio bella. E alta.
Come Charlize Teron, bella e alta anche lei, ma (è un'attrice professionista) molto più rilassata. Chi è decisamente simpatica; di più: simpaticamente ruspante è Emma, che sembra non prendersi mai troppo sul serio, rara e pregiata caratteristica in quell'ambiente.
Sotto il monologhino comico di Angelo Pintus confessiamo di esserci appisolati per risvegliarci, per fortuna, verso la fine dell'inqualificabile marcetta dei Soliti Idioti.
Fiacchissimi i Boiler che replicano il numerino dei tre finti giornalisti. Davvero pietosi: dialetto, smorfie e parrucche. Il comico, quando c'è, dovrebbe reggere senza questo patetico armamentario.
Di Conchita Wurst abbiamo già detto; c'è da aggiungere che riesce a essere nello stesso ambiguo momento un bell'uomo coi capelli lunghi ed elegante abito femminile, e una bella donna senza finte poppe, ma con barba vera. E canta pure bene.
Sorpresa finale con Javier Zanetti, che dimostra con lo spirito e i tempi giusti del parlare che il vecchio tipo dello sportivo mezzo intronato è proprio estinto.
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12 Febbraio - PUBBLICITA'!
Wind, Unicredit, Suzuki, Conad, Wind, Unicredit, Suzuki, Conad, Wind, Unicredit, Suzuki, Conad, Conad, Regina, Hyundai, Emoform, Lidl, Yamamay, Mutà, Chateau d'Ax, Aquafresh, Audi, Libretto Smart. Aiuto! In quest'ordine: 23 annunci pubblicitari nei primi 14 minuti. Se tengono questa media, fa più di trecento tormentoni a fine serata. Con la contabilità noi ci fermiamo qui.
Ma procediamo con ordine. Nell'insertino del TG 1, Luca e Paolo, di cui avevamo già notato la delicatezza in passato, ci comunicano che stare sul palco di Sanremo li fa cagare addosso. Prosit.
Momento di brivido marinaro quando Conti (sulla cui faccia non è mai apparsa, da quando lo guardiamo, la più piccola goccia di sudore; e questo è davvero autocontrollo ai massimi livelli, oltre a una bella tenuta epidermica o magari qualche fondotinta segreto) rivendica l'onore e l'onere di comandare la nave del festival. Attenzione, proprio in questi giorni la figura del comandante di nave, anche se simbolica, è parecchio screditata, e sappiamo chi ringraziare.
Arriviamo al bel collegamento con la Cristoforetti dallo spazio, che è una doppia lezione: di fisica e di spettacolo. La prima non l'abbiamo capita. Perché fra la domanda di Conti in studio e la risposta di lei dal satellite passano almeno cinque secondi di silenzio? Eppure il segnale elettrico che trasporta la voce e l'immagine viaggia alla velocità della luce. Ci dev'essere qualche fatto tecnologico che ci sfugge. Non ci sfugge invece il disagio che in uno spettacolo rappresentano cinque, solo cinque secondi di silenzio. Un'eternità.
Cantano insieme una delle cover in gara Grazia Di Michele e Platinette. Non ce ne voglia quest'ultimo ma come uomo in vesti femminili trasforma in triste macchietta quella che per Conchita Wurst rimane una forse ambigua ma indiscutibile eleganza. Per chiarire meglio, lo sappiamo benissimo che lui, con la sua indubbia intelligenza, lo fa consapevolmente e in maniera ironica, ma a guardarlo con quel panzone e la parrucca si prova comunque una certa patetica malinconia, mentre per Conchita no. Lei è qualcosa. Qualcosa di serio e per niente patetico. E' una o uno (non importa) in un certo senso normale.
Cominciavamo a preoccuparci: come, siamo già alla terza puntata e ancora non è arrivata? Non avranno mica deciso di eliminarla? Invece eccola, recitata, si fa per dire, da Luca e Paolo, l'attesa, l'ovvia, l'inevitabile scenetta gay! Uno degli stereotipi dello spettacolo popolare più duri a morire. E comunque, gay o no, tanto per rimanere nello schema, anche questa finisce con il prevedibile vaffanculo. Però ci è sembrato che il pubblico fosse più freddino del previsto. Hanno riso meno. Buon segno: forse stiamo uscendo dall'adolescenza parolacciaia.
E finisce anche la terza serata. Breve giro su facebook e scopriamo un'ondata di indignazione, che condividiamo, per la bocciatura istantanea di Serena Brancale, ottima jazzista (questa dev'essere la ragione) e con un buon pezzo. In questo caso l'esclusione è un vero e proprio riconoscimento. Quindi va bene lo stesso. Anzi, meglio.
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
9 febbraio 2015
INDAGINE PSICO-ZOOLOGICA
Sironi e il Criticus Constrictor
Tutti abbiamo visto nei documentari l'elegante e ipnotico boa constrictor che si avvicina alla preda inspiegabilmente indifferente al pericolo (è qui che lavora l'ipnosi), la cattura nelle sue spire, la stritola e poi se la pappa in un boccone.
Martedì 3 al Vittoriano, presentazione del libro "Mario Sironi, la grandezza dell'arte, le tragedie della storia". Il boa, anzi il Criticus Constrictor è Claudio Strinati, uno dei più pericolosi intellettuali ipnotizzatori in circolazione; la preda: l'autrice del libro, Elena Pontiggia. Noi, i testimoni.
Non c'è niente da fare. La facondia inarrestabile, la proprietà di linguaggio, la elastica concatenazione dei contenuti stemperata nella civetteria di ripetizioni, pause sapienti e finte amnesie, è ipnotizzante come dovevano esserlo le leggende dello sciamano accanto al fuoco.
Ecco la depressione cronica, l'artrite, l'incapacità di Sironi a mantenere gli impegni con il suo gallerista, con conseguente causa persa e obbligo di risarcimento da parte del poverissimo artista, che diventa ancora più povero, ma a un certo punto riceve una piccola eredità che lo mantiene a galla per un po'. E poi incontra la Sarfatti che gli spiega quello che sta facendo. Ma continua a essere perseguitato dalle tasse (dietro c'è la mano del bieco Farinacci.)
Arrivati a questo punto della storia sono passati senza che ce ne accorgessimo 58 minuti (cronometro alla mano). Quasi un'ora di ipnoterapia.
Strinati momentaneamente rinsavisce e ammette che all'inizio aveva progettato un dialogo con l'autrice, ma poi, com'è come non è, è scivolato nel monologo. Si dichiara pentito. Subito dopo però, trascinato da se stesso, e trascinando anche noi, riattacca con il denso racconto di tutti gli altri tormenti esistenziali e artistici del pittore che non piaceva a certi critici i quali trovavano la sua produzione antipatica e monotona. Un uomo nato deluso, che muore deluso il 13 agosto; e al funerale naturalmente non c'è nessuno. Come nelle sue desolate periferie.
Sono passati altri venti minuti. Qualche mormorio fra il pubblico, e finalmente le spire del Criticus Constrictor si allentano e l'autrice rifiata e chiude l'incontro con poche frasi che ci sono sembrate un po' stremate e forse anche un po' risentite.
Possiamo dire che non ce ne importa un gran che? Stiamo leggendo il libro, e la Pontiggia attraverso le pagine ci parlerà con il tempo che ci vuole. In compenso abbiamo vissuto il grande piacere di farci (se pure a distanza di sicurezza) anche noi incantare.
Un grande timido?
Mercoledì 4 alla Fandango Incontri. Presentazione del libro di Alberto Tovaglieri: "La dirompente illusione, il cinema Italiano e il '68". Naturalmente, ospite d'onore è il figlio di quell'epoca: Marco Bellocchio. Non lo riconosciamo nelle prime immagini: ha sempre la faccia nascosta dalle mani. Per la foto segnaletica è stato necessario aspettare che gli dessero un microfono. Ma anche con quell'attrezzo a disposizione è tutto un mmmm, beh, mah; e in coda ad alcuni suoi interventi chiude con un forse timido, certo poco comunicativo "basta".
Magari lui non è proprio così. E' che di sicuro è passato attraverso questo tipo di routine chissà quante volte e deve averne fin sopra i capelli. I tre che lo circondano, oltre all'autore del libro, che lo sommerge di domande ingarbugliate e un po' pedanti, sono Stefania Parigi, che modera dietro il sorrisetto forse saccente, forse mondano, di sicuro compiaciuto e complice di chi ne sa qualcosa di più perché fa parte del gruppo degli eletti. Il terzo, Christian Uva, è sobrio.
Una tripletta di quel genere di critici che, dopo aver approfondito il personaggio, sono sicuri di saperne di più di lui e gli attribuiscono valori e intenzioni che forse non si è mai sognato di avere. Insomma, che un po' si bagnano nel riflesso della star.
Con il bel sottotono di chi non ha bisogno di mettersi in mostra, Bellocchio racconta, fra tante altre cose, di aver fatto, nel '65, "I pugni in tasca" solo seguendo il suo estro senza chiedersi a quale movimento o tendenza fare riferimento. Poi, insieme al '68, è arrivato tutto il resto: l'attribuzione a movimenti e tendenze, il successo, l'ingresso nella storia del cinema, i trattati, ecc. ecc.
P.S. Impossibile sottrarci all'irresistibile tentazione di segnalare un paio di delizie serviteci, come si suol dire, su un vassoio d'argento da stampa e TV negli ultimi giorni.
Ventuno. I colpi di cannone che hanno accompagnato l'elezione del Presidente della Repubblica. Forse ci avete fatto caso, forse no ed è un peccato: tutti, ma proprio tutti, giornalisti, cronisti, commentatori sono stati ben attenti a specificare che i colpi erano a salve. Ma secondo loro qualcuno di noi poteva pensare che i cannoni del Gianicolo fossero caricati a proiettili perforanti, o magari incendiari? Tanto più che, dato l'alzo, risultavano puntati precisamente sul Palazzo del Quirinale.
No, l'oroscopo no! La faccia di Renzi, quando, a metà della sua brillantissima e implacabile ospitata a Porta a Porta, gli hanno fatto l'oroscopo! Si è trattenuto, naturalmente, nascosto dietro il suo solito sorrisetto, ma a guardarlo bene sembrava che avesse davanti Vanna Marchi. La vecchia Italia credulona pilotata da quel furbacchione di Vespa e il giovane manager efficiente e perplesso di fronte a tanta scempiaggine. Impagabile.
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L'archivio del Cavalier Serpente, o meglio la covata di tutte le sue uova avvelenate, sta al caldo nel suo blog. Per andare a visitarlo basta un click su questo link: http://blog.libero.it/torossi
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
2 febbraio 2015
TRE TIPI TOSTI
Harold Bradley
Lunedì 26 gennaio. Sul jazz, Adriano Mazzoletti è senza dubbio l'archivio vivente più completo che abbiamo in Italia. Saggi, libri, un'immensa enciclopedia, innumerevoli trasmissioni radio e TV; insomma, come lui non c'è nessuno.
Sua l'iniziativa di riunire in una serata al Teatro dell'Angelo alcuni vecchi leoni di cui sentiamo parlare da sempre. Praticamente un revival degli anni 80, ma anagrafici, non da calendario.
Harold Bradley (appunto 85 anni) cantante di blues e gospel, nero americano che vive dalle nostre parti da più di mezzo secolo ma quando parla ha ancora un accento da macchietta.
Dino Piana (anche lui 85 anni), trombonista di grande livello, rappresentante di quell'eleganza all'inglese che caratterizzava i jazzisti italiani della sua generazione: giacchetta attillata, colletto alto e cravatta, scarpe lucide e impeccabile piega ai pantaloni.
Gianni Coscia (un po' più giovane, solo 84) fisarmonicista piemontese, come ha tenuto a rimarcare più volte, e molto più pittoresco. Due secoli e mezzo in tre. E poi c'erano colleghi normalmente cinquantenni, e perfino un trio il cui pianista di anni ne ha solo diciassette.
Il teatro un po' sgangherato, la fonica piuttosto avventurosa e le poltrone tutt'altro che anatomiche, non hanno impedito all'evento di diventare una piacevole riunione fra vecchi amici.
Raccontando al microfono la storia della segregazione e della successiva emancipazione dei musicisti di colore, Mazzoletti ha prodotto un'interessante riflessione, non musicale ma sociale.
La ragione, ha detto, per cui l'America è riuscita a scegliersi oggi un presidente nero, sta (non solo, naturalmente, ma anche) nel suono non domestico del nome di Barack Obama. Se si fosse chiamato, mettiamo Tommy Williams, questo nome anglosassone avrebbe richiamato in modo ancora troppo vicino e sensibile la sua discendenza da antenati schiavi, i quali al momento dell'emancipazione prendevano appunto il nome dai loro padroni. Non ci avevamo mai pensato, ma ci sembra sensato.
Mauro Ottolini da Bussolengo (Vr)
Martedì 28, mattina, Spazio Ascolto del Parco della Musica. Mauro Ottolini presenta il suo CD "Musica per una società senza pensieri", prodotto dalla PdM Records.
Il maestro Ottolini, gesticolante a sinistra (una sorprendente somiglianza con Alexandre Dumas, a destra), è un superentusiasta del suo lavoro di contaminatore musicale, tanto è vero che nel CD ci sono brani cantati in dodici lingue, dall'arabo al finlandese, suonati su strumenti normali, etnici o immaginati per l'occasione: conchiglie, pietre sonore, sax di bambù e simili, articolati in modi e scale di ogni genere, con audaci artifizi (sfuggitici) per aggirare l'ostacolo dei microintervalli.
Il problema di questi entusiasmi è la tendenza, evidentemente irrinunciabile a debordare. I brani sono tutti lunghissimi, farciti di ogni genere di sonorità e colori, pieni di cambiamenti di atmosfere, di invenzioni, di salti d'umore. Bulimia musicale.
La conferenza stampa è durata quasi un'ora e mezzo, con gli ascolti, che sono indispensabili quando si parla di musica, protratti per troppi compiaciuti minuti (con il rischio di bruciare il CD), durante i quali abbiamo sorpreso più di un giornalista con lo sguardo perso nel vuoto, sbadigli soffocati o, peggio, sbirciate neanche tanto furtive agli orologi, mentre il maestro se ne stava adagiato in poltrona, in preda a una legittima beatitudine e inconsapevole di questi limiti temporali.
Tutta roba bella e interessante, intendiamoci, ma l'indigestione è sempre in agguato.
(Piccola digressione da Wikipedia, che volendo si può anche saltare: l'odierna Bussolengo, patria di Mauro Ottolini, era, intorno all'anno mille, conosciuta come Gussilingus, e il suo signore era il nobile Garzapane. Fa ridere, ma pare che sia storia vera).
Sandro Cappelletto
Martedì 28, pomeriggio, Sala Casella, Filarmonica Romana. Qui si vola alto.
"Fortissimo nel mio cuore", Schubert, l'ultimo anno. Titolo e sottotitolo del recente libro di Cappelletto, presentato dall'autore, il quale, oltre a essere un sopraffino musicologo, è un perfetto entertainer. Bella voce profonda, pause e accenti giusti, senso dell'umorismo e della misura. Doti sconosciute al direttore dell'Istituto Austriaco di Cultura che gli sedeva a fianco e che ha letto, manifestando a ogni parola le carenze di cui sopra, un lungo discorso con una bella cadenza crucca.
Inutile entrare nei dettagli: c'è solo da aprire il libro. Sul palco si è raccontata l'omosessualità, non dichiarata ma più che probabile, di Schubert, vissuta come un male vergognoso nella Vienna dell'epoca; la sifilide contratta certo in modo peccaminoso che di lì a poco lo avrebbe ammazzato; il caratteraccio, e la difficoltà per gli amici a portarlo in società, data la sua tendenza a ubriacarsi e a puzzare per la scarsa igiene. Però si è anche evocata una fratellanza con Leopardi, suo sfortunato (e, si dice, altrettanto puzzolente) coetaneo e contemporaneo.
Ha chiuso l'incontro l'amico Marco Scolastra squisitamente sfiorando, o robustamente percuotendo a seconda della necessità artistica, la tastiera per noi.
Ma non finisce qui. Con il suo consueto sense of humour, Cappelletto, in coda allo sterminato numero di opere dedicate al musicista, ha citato quella che vince il premio del kitsch: il film "Angeli senza paradiso", anno 1970, del giustamente dimenticato regista Ettore Fizzarotti, con Al Bano nella parte di Franz e Romina in quella della contessina Anna. Se ne trovano pezzi su You Tube. Noi siamo andati a guardarceli, e ve li consigliamo. Meritano.
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
26 gennaio 2015
PICCOLE AMAREZZE CONTEMPORANEE
Ad Spem Veterem.
Era il nome della zona di Roma imperiale a cui arrivavano, si mescolavano, si scavalcavano, si intrecciavano la maggior parte degli undici acquedotti che portavano in città una quantità impressionante di acqua dai colli a sud est, scorrendo sotto terra, su ponti, su arcate, con un insieme, ancora in parte visibile, di affascinanti strutture architettoniche.
Bene, questa stazione di arrivo e di incrocio delle acque antiche è oggi (approssimativamente, aggiungiamo a uso degli amici archeologi) Piazza di Porta Maggiore, un clamoroso insieme di archi trionfali, pilastri di tufo, canali tagliati nella muratura, selciato antico. Insomma, quello che potrebbe essere un parco archeologico assolutamente unico.
Solo che l'incrocio degli acquedotti è stato integrato da un intreccio ingarbugliato di auto, moto, bus, tram e trenini, alcuni dei quali vetusti quasi quanto le mura sotto cui passano fischiando ancora come le vaporiere dell'ottocento. Potrebbe anche essere una esemplare convivenza di antico e (quasi) moderno. Però l'esistenza, appena fuori della cinta delle mura di quartieri poveri, e più in là di borgate, ha trasformato la piazza in una specie di sala d'attesa per extracomunitari poveri, un limbo male frequentato, e ridotto più o meno a una discarica. Gli archi sono per fortuna ancora in piedi ma guardano dall'alto un mare di automobili, di gente e di immondezza.
Mura Aureliane Uno - Immondezza spontanea
Lungotevere Testaccio: l'unico punto in cui sopravvive un avanzo di quel tratto delle Mura Aureliane che correva lungo il fiume. In realtà sono pochi metri di muro e una piccola torre di mattoni. Pur sempre roba di venti secoli fa.
Evidentemente i duemila anni di storia non sono stati sufficienti a intimidire i writers testaccini che hanno ben bene imbrattato di vernice blu i ruderi. E ancora peggio, lo spazio sotto la torre è diventato un parcheggio a lunghissimo termine di carrettini e ferraglia abbandonata, probabili avanzi dell'epoca lontana in cui era ancora in funzione il vicino mattatoio, con relativo commercio ambulante di frattaglie (da cui si rifornivano le trattorie della zona specialiste in cucina povera romana: trippa, animelle, pajata).
Mura Aureliane Due - Immondezza istituzionale
Via del Campo Boario: qui le mura e le torri riacquistano tutta la loro imponenza, ma noi non riusciremo mai a passeggiare alla loro ombra, perché tutta questa zona, fino al Tevere è assolutamente off limits.
E' terra di conquista e quartier generale dell'AMA, l'Azienda che si occupa di raccolta e smaltimento dei rifiuti di Roma, come si riconosce all'olfatto fin da lontano.
Perché questa attività, benemerita certo, ma non così nobile, sia stata concentrata proprio qui, a ridosso di uno dei tratti meglio conservati delle mura, è un assoluto mistero che temiamo rimarrà dietro le sbarre e a noi non svelato fino alla fine dei tempi.
Ora che tutto il trasporto e il trattamento dei rifiuti è meccanizzato, crediamo che non sarebbe così difficile trovare un altro spazio a portata di camion in una zona meno storica. Mah.
S. Silvestro in Capite - Il vasetto del sacrestano
Vicino a un grande fatto architettonico o sacro c'è sempre un piccolo uomo: il custode, il sacrestano.
E con quale elemento manifesta la sua presenza? Con il vasetto di fiori, con una piantina, qualcosa insomma che neutralizzi la maestà, la grandiosità dell'elemento artistico, la sua importanza storica, e testimoni in modo rassicurante la condivisa piccolezza di chi lo custodisce.
Fra l'altro, siccome sono spesso in cortili bui o in recessi nascosti, le piantine non manifestano mai troppa salute: sono gracili, pallide, smunte.
Qui siamo nel cortile della chiese di S. Silvestro in capite, accanto alla posta centrale, dove sono raccolte basi di colonne, frammenti di bassorilievo, colonne intere, bei pezzi, insomma.
Testimonianze di arte romana.
E il vasetto del sacrestano
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
19 gennaio 2015
ASSENTI (IN)GIUSTIFICATI & ALZHEIMER
James Taylor
Questo signore, che sembra un contabile americano sulla sessantina, è uno che ha scritto parecchie belle canzoni, ha venduto cento milioni di dischi, ha vinto non si sa quanti premi, e ci aspettava al Parco della Musica lunedì 12 per parlare del suo prossimo tour in Italia. Per la verità siamo noi che abbiamo aspettato lui, e dopo oltre mezz'ora, eravamo ben bene irritati, anche perché siamo abituati alla puntualità degli americani. Poi è apparso, si è garbatamente scusato, ha esordito dichiarando il suo grande amore per l'Italia e ha parlato dei suoi frequenti viaggi e dei molti amici che ha da queste parti. Ma l'unica cosa italiana che è riuscito a dire è stata "grazi".
Come mai questi che ci amano tanto, poi non imparano neanche una parola nella nostra lingua?
Comunque è stato molto carino. Ha parlato lento e ponderato come uno zio saggio (forse per farci capire tutto), ha detto cose sensate, anche politiche, senza sbilanciarsi, ha affrontato serenamente le domande. A Molendini che gli chiedeva se per lui era più facile scrivere musica negli anni '70 che adesso, ha risposto: "Sì, ma non perché il mondo di adesso è diverso da quello degli anni '70, è perché sono diverso io". E poi se n'è andato.
Assenti (in)giustificati
Martedì 13, Auditorium dell'Ara Pacis (qui vista attraverso l'anello di Beverly Pepper). "Descriptio Romae - Banca dati sulla Roma sette-ottocentesca", presentazione di un progetto di grande interesse: mettere a disposizione sul web una summa di tutte le carte catastali e topografiche di Roma prima dell'unità d'Italia.
Appello per i saluti d'apertura. Prof. Panizza, Rettore di Roma Tre: "Assente!" Lo sostituisce un signore noioso che va un po' per le lunghe. Prof. Parisi Presicce, Sovrintendente Capitolino: "Assente!" Lo rimpiazza uno noiosissimo che, dichiarando a ogni passo: "Ho parlato anche troppo", va avanti per interminabili minuti a base di ehm, che dire, però, che, che, che, ma, ma, ma, fino a consegnarci stremati fra le braccia di un terzo signore che fa le veci dell'Assessore Marinelli, assente anche lei, il quale, per fortuna, promette e mantiene il classico "Sarò breve".
Una bella lista di lavativi. A scuola li avrebbero bocciati tutti.
Finalmente arriva il documentario dell'amico Raffaele Buranelli. Molto ben fatto, chiaro, informato, poetico. Una boccata d'aria, aria de Roma, ma...
Ma, proprio qui, nella colonna sonora (garantiamo sulla non colpevolezza del regista), abbiamo trovato un esempio di quella che si può giustamente chiamare la maledizione del marchio. Presto spiegata: dal commento musicale spunta l'adagetto della Quinta Sinfonia di Mahler, un tema di straziante bellezza, qui benissimo usato per commentare le immagini di Roma distesa e fascinosa.
Se non che, come molti certamente ricordano, questo brano, di sicuro il più felice di quel noioso compositore, emergeva da protagonista in una delle sequenze più tragiche di "Morte a Venezia" di Visconti; dopo di che, oltre che famosissimo anche fra i profani, è diventato il marchio musicale di atmosfere decadenti e funeree, come quella del racconto. E così ormai è bruciacchiato: bello, certo, ma utilizzabile a rischio perché associato per sempre a quel mondo, a quella storia. Forse un destino ingiusto, ma, come dire, mal comune...: la sigla di Quark (Bach, aria sulla quarta corda), Arancia Meccanica (Beethoven) il detersivo Ajax (la Carmen di Bizet), eccetera eccetera.
I mercoledì dell'Alzheimer
14 gennaio. Appena ci arriva la segnalazione di questo incontro mensile alla Libreria Fandango, ci precipitiamo sul posto ridacchiando sotto i baffi. Convinti che si tratti di una burla, ci affacciamo alla sala, preparati a incontrare un bel gruppo di anziani intellettuali occupati a sfoggiare le loro brillanti doti con la scherzosa copertura di quel nome che un po' fa ridere, e un po', comunque, fa paura.
Una delle organizzatrici ci saluta: "Lei è un accompagnatore, o...?" Facile immaginare come questo esordio ci abbia prima chiarito la situazione, poi suggerito non pochi dubbi sulla vivacità della nostra espressione.
E ci siamo trovati in una vicenda seria, organizzata dalla ABC per la Regione Lazio, in cui l'Alzheimer era un fatto vero, e non uno scherzo. Un bel numero di figli e nipoti impegnati con un altrettanto folto numero di vecchi smarriti, a cui togliere il cappotto o farli sedere a comando, con quel tono tra il condiscendente e il bamboleggiante che si usa spesso con i bambini e con i vecchi per farli stare tranquilli. Ci è venuto in mente che nei loro panni noi reclameremmo il diritto di essere tranquillamente furiosi, ma poi ci siamo anche detti che in quelle condizioni non si è mica più tanto autonomi né di fare né di pensare.
Te, pasticcini e intrattenimento artistico. Consistente nella presenza di un bravo musicista curdo-persiano, che ha dimostrato gli strumenti ed eseguito musiche tradizionali del suo paese, di cui l'animatrice continuava a sottolineare il carattere meditativo e il potenziale ipnotico (a un pubblico che di essere invitato all'ipnosi meditativa ci è sembrato non avesse mica tanto bisogno).
Forse un bicchiere di vino e una bella mazurka di Casadei, chissà...
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
12 gennaio 2015
MAI CONTENTI
Mai contenti
La settimana scorsa ci siamo lamentati: prima a Piazza Navona c'erano troppe bancarelle per la Befana; poi troppo poche e misere. Bruttissimi spettacolini su un bruttissimo palcoscenico. Oggi, 9 gennaio, c'è un bel sole, finalmente se ne sono andati tutti, però...
Però, siccome siamo a Roma, dove è improbabile fare qualcosa di normale in tempi normali, se ne sono andati tutti, sì, ma hanno lasciato indietro questo solitario albero di Natale, che con la sua pendenza mette in dubbio la competenza del Cavalier Bernini quando decise di infilare l'obelisco sulla Fontana dei Quattro Fiumi.
Perché è rimasto? Forse era di pertinenza di un servizio comunale diverso da quello che si occupa delle bancarelle (si sa, tra Befana e Natale c'è sempre stata un po' di ruggine). Forse è scattata una nuova contestazione contro Marino proprio quando gli operai stavano per spostarlo, e così si sono bloccati. C'è da aspettarsi di tutto da queste parti. Forse c'entra addirittura il racket delle feste. Vediamo quanto ci mettono a portarlo via.
Caravaggio e i francesi (anzi, i francesi e Caravaggio)
Nella chiesa di S. Luigi de' Francesi i Caravaggio sono addirittura tre, fra cui quello celeberrimo della vocazione di S. Matteo. Stanno infognati nel buio di una cappella risicata, messi in castigo dai committenti, probabilmente insoddisfatti o addirittura scandalizzati, come quasi tutti i clienti del pittore per la eccessiva umanità e verismo dei suoi quadri.
A noi naturalmente piacciono proprio per questo. Però per vederli illuminati bisogna sborsare un euro, che non è poco, anche perché dopo non troppi secondi la luce inesorabilmente si spegne e le tenebre calano di nuovo.
Ma non sono i quadri che ci interessano, è la magnifica indifferenza, propria dei francesi, verso tutto quello che non è français: in questo caso la lingua italiana.
Intorno alla cappella Contarelli ci sono parecchi cartelli di spiegazione, naturalmente in francese e, probabilmente nella traduzione di qualche sprovveduto sacrestano, anche in italiano.
Vorremmo richiamare la vostra attenzione su "Matteo che con l'altra mano esita a presentarsi", su "questo personnaggio sia bene quello di Matteo", "sull'instante dove passa la grazia", "su gli uomini coi piedi nudi che esprimono la loro povertà (gli uomini o i piedi?)".
Mica male, no? In fondo abitiamo in una insignificante cittadina dove per caso la Francia ha la più bella ambasciata del mondo a Palazzo Farnese, e la più sontuosa Académie dell'universo a Villa Medici.
Al risparmio di accordi
Chiariamo subito: il concerto ci è molto piaciuto, quindi questa nostra punzecchiatura non ha nulla a che fare con la qualità dell'esecuzione. Vogliamo solo divertirci a fare le pulci alla musica mediterranea contaminata, a quella araba, alla pizzica, eccetera.
26 dicembre 2014, concerto all'Aracoeli. Una ecumene musicale. Mesolella, Raiz, De Sio, Sepe, Cinque, Coen hanno eseguito una quantità di brani multietnici e non. Ci ha colpito un "'O sole mio" con Mesolella da solo alla chitarra, eccezionalmente bravo, intercalato a un canto arabo suggestivamente ipnotico, ma, come è tipico di quella musica, al risparmio armonico: trovi un accordo, gliene metti vicino un altro e, avanti e indietro, hai risolto il pezzo. Niente complicazioni alla Mozart. Certo, c'è il ritmo, ma forse non basta. Stiamo scherzosamente banalizzando, eh! Non vorremmo vedere qualcuno sotto casa nostra con il kalashnikov.
Strana chiesa l'Aracoeli, una delle più antiche di Roma, e anche delle più importanti. Ma sembra tirata su in economia e di corsa: colonne e capitelli diversi uno dall'altro, il pavimento: una confusione di pietre tombali, di frammenti di lapidi romane, di parti cosmatesche, eppure, data l'antichità dell'edificio, la scelta del materiale di spoglio doveva essere ancora abbondante.
Basterebbe fare il confronto con la chiesa di S. Pietro in Vincoli, più o meno dello stesso periodo, che ha una fila di venti colonne tutte uguali e di una bellezza senza pari. Magari, anzi di sicuro i ruderi da cui rapinarle erano più vicini, più comodi per il trasporto. Perché, davvero, con i mezzi di allora (siamo all'epoca dello sfacelo dell'Impero Romano) anche trascinare una colonna su per un colle doveva essere un'impresa quasi impossibile.
PS. Imbarazzante
La trasmissione di RaiTre "Che fuori tempo che fa", in passato e con un titolo leggermente più sintetico, ci aveva tratti in inganno presentandosi come l'incontro di una rete intelligente con i suoi spettatori intelligenti. Sabato sera hanno gettato la maschera servendoci, alternati a dosi massicce (prima erano solo omeopatiche) delle pillole di saggezza di Gramellini, una scalcinata serie di siparietti da Trieste.
Si trattava della cronaca dei festeggiamenti organizzati da un'imbarazzante banda di fans di Fantozzi in onore di Paolo Villaggio (che non sappiamo neanche se era presente, perché poi abbiamo spento). Un'imbarazzante recita da oratorio durante la quale il parroco Fazio, per niente imbarazzato, dirigeva ridacchiando l'imbarazzata performance del sagrestano Fabio Volo al comando dei suddetti fans nell'imbarazzante imitazione delle scene più famose dei film del Rag. Fantozzi.
Un esempio di bassissima televisione. Imbarazzante. Ci mancava.
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
5 gennaio 2015
IL 2015
E' appena cominciato, e già...
Piazza Navona
Noi fortunati snob che abitiamo dalle parti di Piazza Navona ci eravamo illusi alla notizia che quest'anno il mese di castigo dovuto alle baracche della Befana, (ingorghi di traffico, puzza di bomboloni fritti e famiglie stremate con bambini isterici) ci sarebbe stato risparmiato per la decisione comunale di lasciare la piazza alla sua quieta bellezza barocca.
Poi ci hanno detto che le baracche ci sarebbero state, ma meno di prima; poi i venditori di presepi e torroni si sono rifiutati di partecipare per ripicca, pare, contro il comune. E allora sono rimasti solo due o tre tirassegno, e sullo sfondo la solita patetica giostrina con polke e mazurche. Abbiamo sorpreso un vecchio del quartiere che guardava e diceva: "Me pare er dopoguera..."
Insomma, quasi quasi ci manca la insopportabile ma allegra baraonda di prima, perché alla fine, invece della quieta bellezza barocca promessa, ci troviamo con un misero spettacolo di casarecci giochi di luci sulla fontana, con un misero palcoscenico su cui si esibiscono miseri cori dopolavoristici e casarecci animatori di giochi per l'infanzia.
Al freddo e al gelo perché nessuno ha pensato a tirar su un riparo dalla tramontana. L'altro giorno c'erano tre flautisti intirizziti con supporto di fidanzate imbacuccate che gli tenevano fermi i leggii. Tre pifferai e tre piccole fiammiferaie; e nessuno a guardare. Una scena davvero patetica.
Animalisti
Sembra che in questi giorni, oltre ad aprire le gabbie, certi animalisti, non tutti eh, abbiano deciso di aprirsi anche il cranio per farne evaporare il contenuto (materia volatile?). Esemplare e penosa la triste storia di un ippopotamo di quindici quintali fatto scappare dal circo Orfei, appunto durante un blitz animalista dalle parti di Macerata, e abbandonato tutto solo in campagna, di notte, con tre o quattro gradi sotto zero. Due erano le possibilità per la povera bestia: morire di freddo o finire sotto una macchina. E' finita sotto una macchina, e non per colpa sua.
Volete liberare gli animali? Va bene, ma poi non mollateli così, senza neanche un euro in tasca per pagarsi un pasto caldo e un letto per dormire.
L'albero degli stracci
Il primo gennaio scendiamo a fare un giro sulle sponde del Tevere. Bel sole, venticello frizzante e il solito magico spettacolo della città vista, ma ancor più ascoltata dal fondo della fossa dei muraglioni.
Non c'è tanta gente in giro, ovvio: tutti a casa a smaltire il cotechino.
E noi, andando su e giù ci imbattiamo in un bel platano, di quelli che nascono a caso fra i pietroni della banchina.
Adesso la corrente è calata, ma nei mesi scorsi ci sono state delle piene sostanziose. Il fiume ha sommerso tutto e poi se n'è andato lasciando sui rami i suoi frutti. Ma così tanti da cambiarne l'aspetto.
Stoffe, cartacce, plastiche; spazzatura in quantità.
Il Biondo Tevere e i suoi alberi degli stracci.
...e quello dei cretini
Anche questo Natale si è ripetuto ciò che noi speravamo fosse irrepetibile. E allora ci risparmiamo la fatica e facciamo un bel copia incolla del nostro uovo avvelenato di fine 2013. Avvertenza: quest'anno l'albero è ancora più grosso di quello dell'anno scorso.
"Nella nostra città esiste un luogo in cui avventurarsi è più pericoloso che entrare disarmati nella jungla: Piazza Venezia. Disseminata di dislivelli che trasformano il selciato in una pista da fuoristrada e assediata giorno e notte da un traffico diabolico. Niente semafori automobilistici o pedonali. Il centro della piazza è una grande aiuola tagliata a metà dall'unico corridoio di relativa sicurezza per l'audace che ci si avventura: un attraversamento pedonale regolarmente segnalato da belle strisce bianche dipinte sui sampietrini. Lì ci si dovrebbe sentire più o meno protetti.
Ma nel turbamento di questi giorni di festa dev'essere successo qualcosa in giunta perché il funzionario preposto ha pensato bene di piazzare l'obbligatorio albero non nell'aiuola dove era infilato negli anni scorsi, quindi "fuori dalle balle", come abbiamo sentito dire a un irritato turista, ma esattamente al centro del percorso pedonale.
Così che chiunque si trovi ad attraversare la piazza su questo sentiero, fra l'altro rigidamente costretto dagli archetti della recinzione, incontra un ostacolo che è quasi impossibile superare".
Tale e quale nel 2014. Guardare per credere. Si vedono i pellegrini che arrivati all'albero non sanno cosa fare. Compreso il cinese smarrito al quale il compagno fa cenno di tornare indietro.
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
29 dicembre 2014
SANTITA' E SGHIGNAZZI
Buio mistico
"Che fortuna trovare un parroco come questo!"
E' la prima cosa che ci ha detto l'amico Michele Gasbarro, organizzatore dell'ottimo Roma Festival Barocco quando, dopo una insolita attesa sul sagrato di S. Giovanni dei Fiorentini (normalmente a questi concerti si entra alla spicciolata) ha aperto alla folla che si era radunata il portone della chiesa.
E abbiamo subito capito il perché. Appena entrati, buio. La poca luce, misteriosa e mistica veniva da una fila di alberelli di ferro battuto piazzati lungo la navata, sui cui rami erano appollaiati decine di lumini accesi. L'unica altra fonte, elettrica: un faro sapientemente puntato a illuminare il mirabile altorilievo dell'altar maggiore, un Battesimo di Cristo di Antonio Raggi.
S. Giovanni Battista dei Fiorentini a Via Giulia è un edificio di proporzioni nobili; secondo noi la chiesa più elegante di Roma. Anche se finita nel '700, il progetto è di due secoli prima. Architettura rinascimentale perfetta, bianca e grigia: tutto intonaco e niente ori o stucchi, solo le linee armoniose degli archi. Con inaspettati colpi d'occhio su cappelle e altari che più barocchi non si può. Eppure, proprio grazie a questo equilibrio, l'eccesso presente in piccole dosi evita la nausea da indigestione che talvolta, in altri luoghi, colpisce per il troppo abbondante condimento.
E' dedicata al Battista, un santo a cui l'acqua (del battesimo) era familiare. Per questo si pensò di costruire la sua chiesa con i piedi nel Tevere. Decisione imprudente per tutti i prevedibili problemi di statica. Le sponde del fiume su cui poggia l'abside erano e sono ancora di sabbia instabile e infida, e all'epoca non c'erano i muraglioni. Il problema fu risolto brillantemente, anche se non sappiamo come, da Antonio da Sangallo il Giovane, che per fortuna era anche un architetto militare, quindi abituato a terreni difficili e commissioni impossibili. Seguito da una sfilza di illustrissimi collaboratori; per concludere, appunto nel '700, con la facciata di Alessandro Galilei.
In questa chiesa troviamo curiosità e storia, dalla tomba del Marchese del Grillo a quelle di Maderno e Borromini. C'è perfino una vetrinetta contenente una inverosimile reliquia: il piede sinistro di Maria Maddalena, ben confezionato in uno scarponcino d'argento, certificato da targa: "Il primo piede a essere entrato nel sepolcro di Cristo risorto".
"Peggio di un cane in chiesa", si dice. Normalmente non si può. Qui sì, anzi, si deve. Tutti gli anni, il 17 gennaio, festa di S. Antonio abate, c'è benedizione degli animali, e allora la chiesa si riempie di cani e gatti (obbligatorio portarsi dietro i padroni). Negli anni ci abbiamo visto anche un paio di furetti, un visone, una capra e una piccola volpe. Promesso, il prossimo 17 ci saremo a documentare altre eventuali, forse inquietanti, presenze.
Torniamo alla musica. Meno male che al parroco è piaciuta l'idea dei lumini. "Pazienza - ha detto - se cade della cera sul pavimento, lo puliremo". E così Gasbarro ha potuto creare quella miracolosa atmosfera in cui ha immerso, affidandolo alla Cappella Mariana, il suo concerto di autori del '500, epoca in cui la musica come la conosciamo oggi era ancora in gestazione, o appena nata.
Brani solo vocali che ancora non inseguono effetti virtuosistici, né si appoggiano alle grandi masse corali delle epoche successive. Pura musica da meditazione. Suoni che, dobbiamo ammetterlo, complici l'oscurità e l'efficiente riscaldamento della chiesa, più di una volta nel corso dell'esecuzione ci hanno fatto scivolare in una lieve, e riteniamo non colpevole, sonnolenza; quasi una blanda estasi mistica.
Sghignazzi di fine anno
A questo punto, dopo tanto rispettoso misticismo, ci tocca fare spazio a una bella sghignazzata, che nasconde un rigurgito di rabbia. E ce la facciamo, questa sghignazzata, leggendo un dolente articolo di Federico Fubini che parla, guarda un po', della disastrosa gestione della cultura in Italia.
Noi facciamo quasi quotidiane visite ai musei, soprattutto, ma non solo, a Roma. Alla fine delle quali ci confrontano due costanti: l'immensa (delle volte anche eccessiva) quantità di arte esposta, che ci piazza, come sappiamo, in testa al resto del mondo; e la scadentissima qualità dei servizi: bar, ristoranti, librerie, vendita di souvenir, custodi, perfino gabinetti, che invece ci condanna a una sempiterna coda.
Pochissimi numeri, e poi la piantiamo lì per il 2014. La vendita dei biglietti di tutti i musei, siti archeologici, castelli e palazzi rende in Italia 380 milioni di euro l'anno. Meglio non confrontarsi con le cifre, dozzine di volte superiori, di altri paesi europei. Però quanto segue lo dobbiamo dire: paragonati ai 380 milioni di tutta una nazione, la nostra, il Louvre da solo porta ogni anno alla Francia due miliardi e mezzo!
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
22 dicembre 2014
PIU' LIBRI PIU' LIBERI
Più libri più liberi
Innumerevoli i demeriti del fascismo, ma sull'architettura niente da dire. Questo meraviglioso scatolone è il Palazzo dei Congressi, progettato da Adalberto Libera nel '38 per essere il perno dell'E42, faraonica, anzi imperiale e megalomaniaca esposizione celebrativa del Ventennio.
Solo che i calcoli erano sbagliati (non quelli architettonici, quelli politici) e l'E42, è diventata l'EUR, un qualunque quartiere cittadino. Malgrado il vecchio trucco di cambiare nomi e sigle, l'edificio, insieme agli altri sopravvissuti dell'epoca, rimane magnifico. Anzi, ci sembra ogni giorno più bello, come tutta la nostra architettura di regime, uffici postali, tribunali, stazioni, scuole.
4 - 8 dicembre: Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria, "Più libri più liberi". Molti editori, diverse sale per convegni, poche toilette, due minuscoli bar, e solo una porta per entrare e uscire, delle circa venti che si aprirebbero sulla facciata del palazzo se non fossero sbarrate; con imbarazzanti botte ai fianchi e inutili code. Scarsità di personale? Mah. Forse solo di organizzazione.
Far frullare i cervelli e provocare domande. Bersaglio centrato, soprattutto per gli incontri con autori, critici, editori. Non ce li siamo fatti tutti, ma qualcuno sì, e ci ha lasciato delle impressioni.
In Sala Rubino, Marcello Fois, scrittore sardo un po' snob, ne dice una che non ci convince un gran che. Come molti intellettuali (fra cui qualcuno, secondo noi, sclerotico) è contro i media, soprattutto il grande satana, la TV, e per darci un esempio racconta di un certo arcipelago dei mari del sud (di cui non ricorda il nome) dove la televisione era fuorilegge per decreto del locale capotribù, fino a quando anche lui dovette cedere, e i suoi sudditi cominciarono a guardarla.
Non l'avessero mai fatto! Scoprirono che c'era un mondo diverso dal loro, si resero conto di essere tutti grassi, quindi brutti, e di conseguenza aumentarono in modo spropositato i suicidi.
Fin qui la parabola. Stiamo banalizzando, ovvio, ma allora quale dovrebbe essere il rimedio? Il buon suddito selvaggio tenuto nell'ignoranza della realtà, oppure il filtro, se non l'eliminazione di tutti i mezzi di comunicazione - corruzione? Si chiama censura. Un po' stalinista, ci pare. Forse l'idea potrebbe essere non di escludere, ma di preparare fin dall'inizio a quello che c'è là fuori (che sarebbe la vita, compresa l'odiata tecnologia). La conclusione dello scrittore sul tema ci è sfuggita: c'era un po' di confusione.
Passiamo alla Sala Smeraldo dove "Sale di Sicilia" di Mariacristina Di Giuseppe è tenuto a battesimo dall'arguto, facondo, spiritoso Umberto Broccoli, un signore al quale invidiamo facilità e felicità di parola. Si manifesta qui una delle situazioni più pericolose di questi eventi: il relatore è talmente brillante che rischia di consumare tutto l'ossigeno a disposizione del futuro lettore, prima che questi riesca ad affrontare il libro. Che noi non abbiamo ancora letto, ma ci dicono che non corra alcun pericolo, essendo più che robusto.
In realtà si tratta di una specie di rodaggio che, se funziona, fa bene al motore e prepara il veicolo a scendere in strada.
Sempre in Sala Smeraldo, il giorno dopo. Lidia Ravera interroga Dacia Maraini: "Esiste ancora una società letteraria?" O, per capirci: "C'è ancora la trattoria con il tavolo degli artisti?"
Cioè, il luogo e il pretesto di riunioni non a tema né programmate, ma casuali, generate solo dal piacere, dall'abitudine, talvolta dal bisogno di stare insieme. Appunto il tavolo alla trattoria.
"Perché sono finiti questi cenacoli, questi appuntamenti? E' forse colpa dei social, dello schermo del computer dietro il quale non c'è nessuno, e sulla cui rappresentazione non si può intervenire? Cioè della tecnologia che disumanizza i rapporti personali"?
Ravera chiede, Maraini non dà risposte.
Noi un abbozzo di spiegazione l'avremmo. E ci viene dall'avere frequentato a lungo una tavola di questo tipo alla trattoria da Otello alla Concordia, in Via della Croce.
Il tavolone del cinema, quando noi cominciammo a esserci, naturalmente molti anni fa e ai margini, riuniva a cena Gassman, Monicelli, Scola, Gregoretti, Maselli, Pontecorvo, Scarpelli, De Bernardi, Arlorio, Delli Colli. Il condensato del cinema italiano. Tutti più o meno coetanei. Abbiamo continuato a frequentare osservando: parecchi se ne sono andati definitivamente, altri hanno cominciato a non uscire più tanto da casa, finché la barca si è arenata da sé per mancanza di passeggeri e pilota. E in tutti quegli anni, ben pochi dei più giovani si erano fatti vedere.
La nostra ipotesi è che la colla di questi gruppi sia proprio l'appartenenza alla stessa generazione. Certo, conta anche fare lo stesso mestiere o avere le stesse idee politiche. Ma l'elemento principale rimane l'età. Perduta quella coincidenza, finisce anche il gruppo.
Un'esperienza personale e singola. Potrebbe non essere abbastanza; a noi sembra di si.
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
15 dicembre 2014
SINITE PARVULOS VENIRE AD ORGANUM
Sinite parvulos venire ad organum
Così sta scritto in testa al programma. Certo una manifestazione che di questi tempi esibisce un motto del genere rischia di attirare la indesiderata attenzione del telefono azzurro.
Invece si tratta di un innocentissimo, anzi, di un benemerito festival organizzato da Giorgio Carnini: "Un organo per Roma" che ha debuttato con Olga di Ilio (l'organum) e un coro di voci bianche (i parvulos) il 10 dicembre nella Sala Accademica di Santa Cecilia, dove c'è (e meno male che almeno lì c'è) l'unico organo laico di Roma.
Per spiegare la faccenda dobbiamo risalire a una notizia di qualche tempo fa.
"Nel 1995 Renzo Piano, progettando il Parco della Musica di Roma, aveva previsto nella Sala Grande lo spazio per installare un organo da concerto. La delibera era firmata, i soldi pronti da spendere, eppure l'organo non si fece. Per l'opposizione (così si dice) di Luciano Berio, allora sovrintendente dell'Accademia di Santa Cecilia. Mai spiegata del tutto questa decisione, che definire stupida sarebbe troppo generoso. Il risultato è che in tutta la città, al di fuori di chiese e istituti vaticani, c'è un solo organo, diciamo così, profano. Quello, appunto, della Sala Accademica del Conservatorio. Per l'ottusità di un sovrintendente una capitale come Roma sta più indietro di una qualsiasi piccola ma civile, forse proprio in questa parola sta la differenza, cittadina europea".
Riuscirà il nostro eroe (Giorgio Carnini) a raccogliere consensi e fondi per il nuovo strumento?
Sono ancora tutti vivi.
...e la RCA si fece mangiare dalla BMG...e la BMG si fece mangiare dalla Sony...e la Sony, nell'attesa (forse) di farsi mangiare da qualcun altro ha deciso di tirare fuori un magnifico cofanetto di CD, che ci è stato presentato il 10 mattina.
Tutti sul posto e in ottima salute i componenti originali del gruppo: Giovanni Tommaso, Bruno Biriaco, Tony Sydney, Franco d'Andrea, Claudio Fasoli. Insomma, il gloriosissimo Perigeo, che per la RCA Italiana aveva inciso negli anni settanta una serie di LP uno più bello dell'altro. E soprattutto nuovi.
Che sono quelli, recuperati e abbinati a un paio di DVD e a un libretto molto ben documentato, che riempiono il cofanetto. Un riassunto completo di tutta l'attività storica di questo storico gruppo.
Che piacere, adesso che ogni mattina leggiamo sul giornale di qualcuno dei nostri colleghi che se n'è andato, vederli ancora tutti insieme: un Buena Vista Social Club nostrano, a farsi i selfie come dei ragazzi e a cazzeggiare insieme!
Sappiamo tutti in che condizioni sta il mercato discografico. Perciò dobbiamo riconoscere alla Sony il merito di aver recuperato questo capolavoro per il quale probabilmente non rientreranno neanche delle spese, ma che a noi ridà, fresco e ripulito, un gran bel momento di quarant'anni fa.
Panza di Biumo, Muso di Velluto, Puffo Morbidone...
Tre pupazzi di pelouche per bambini piccolissimi? Gli ultimi due forse; il primo, no di sicuro.
Si tratta di Giovanni Panza di Biumo, sfortunato proprietario di quel cognome improbabile, ma fortunatissimo detentore di un bel gruzzolo, che per tutta la vita ha continuato a spremere per collezionare arte contemporanea, minimalista e concettualista.
A lui l'Accademia di San Luca, che pure è una delle istituzioni più tradizionali della città, dedica il 12 una mostra intitolata "La Passione della Collezione".
Non abbiamo fatto in tempo a passare alla vernice, e non ce ne addoloriamo troppo perché, a dire il vero non siamo estimatori del genere. Ma dobbiamo comunque e con entusiasmo ripetere: mecenati come lui, ce ne fossero!
Cento sax in libertà
La mattina di domenica 14 la GNAM ospita nel suo grandioso Salone dell'Ercole questa divertente faccenda organizzata da Alfredo Santoloci: quattro sassofonisti professionisti, guidati da Enzo Filippetti e piazzati intorno all'Ercole del Canova eseguono "La bocca, i piedi, il suono" di Salvatore Sciarrino.
E fin qui non ci sarebbe niente di strano. Il bello viene quando da tutti gli ingressi cominciano a scorrere nel salone e a girare intorno a noi del pubblico cento, anzi, per la precisione centoquattro suonatori di sassofono di tutte le età e di tutte le misure (i sax, ma anche i ragazzi), allievi dei conservatori di Roma, Frosinone, Latina, Perugia, del Saint Louis, e dello Ials. Insomma un'allegra baraonda che è durata un po' e che ha portato i giovanotti a sfilare non solo davanti a noi, ma anche sotto quei quadroni ottocenteschi un po' scollacciati che tappezzane le pareti.
I ragazzi imperturbabili. Noi pure.
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
8 dicembre 2014
SANTA CECILIA V M
Sabato 22 novembre, Santa Cecilia Vergine e Martire.
Grazie a un'amicizia giusta eccoci (stavolta come effettivo cavalier servente) ai Musei Vaticani, alla visita-concerto-cena per l'onomastico di Santa Cecilia.
In gran tiro, ci troviamo numerosi all'ingresso, dove, divisi in plotoni, siamo presi in carico da guide che ci accompagnano attraverso le Stanze di Raffaello. Splendida escursione, ma i tempi stretti ci espongono a un'overdose di notizie, alcune interessanti, altre no, e soprattutto ci privano della calma indispensabile per assimilare l'arte. Pena: essere travolti dal plotone successivo.
In un battibaleno, passate le Stanze, ci troviamo seduti in prima fila (sempre l'amicizia giusta) nel Salone di Raffaello. Concerto dedicato a Ciaikowskij con un eccellente sestetto di archi, un paio di ottimi cantanti e niente di meno che Antonio Pappano al pianoforte. Esecuzione squisita, e su questo non avevamo dubbi, con la sorpresa di scoprire in Pappano non solo un buon pianista, come ci si aspetta da un buon direttore d'orchestra, ma un superlativo virtuoso.
Nelle pause della musica leggono la corrispondenza fra Piotr Ilic e la sua mecenatessa Madame von Meck Giulio Scarpati e Sonia Bergamasco, il primo con la sua leggera ma persistente ombra di inflessione romanesca, la seconda adagiata su una dizione molto strascinata. Non proprio il massimo per due personaggi emersi della Russia dell'ottocento. Nostra opinione.
Terzo tempo: a cena al tavolo giusto. Con il maestro Pappano e signora, l'ubiquo Zio Gianni Letta, il presidente dell'Accademia Bruno Cagli, l'Assessore alla Cultura del Lazio, e altre personalità, nella Galleria Chiaramonti gremita di statue. Ci inquietano gli occhi bianchi di tutti quegli imperatori di marmo fissi su noi, poveri esseri in carne e ossa, sorpresi a gustare il buon cibo. Ma al terzo bicchiere di pinot non ci si fa più caso.
Fantastica serata. Ci rimane una curiosità, non gastronomica ma artistica.
Perché, nel ritrarre Santa Cecilia, Raffaello ha creduto bene di affidarle (vedi foto del dettaglio) un piccolo organo, e questo è logico, dato il suo ruolo di patrona della musica, ma di seconda mano e così malconcio, che quattro o cinque canne sono mezze staccate e sembrano sul punto di cadere?
"Il dubbio che vibra"
Alla cassiera: "Tania, dije d'attaccà er telefono!" Lei: "Dijelo tu e nun rompe!" Un cameriere: "'N cioccolato c'aa panna!" Il barista mentre prepara il nostro caffè fischia a tutto vapore la marcia dei bersaglieri, anzi, "'a marcia delli berzajeri". Dietro il bancone, una masnada di bellimbusti in giacca bianca strepita e si scambia battute a gran voce come se fossero all'osteria del vicolo.
Invece siamo al gran bar dell'Auditorium Parco della Musica, incontro di artisti, intellettuali e pubblico di tutto il mondo. Un salone dove, visto che non si riesce a essere professionali nel servizio (siamo a Roma, e ciò rende impraticabile l'ipotesi), almeno ci si potrebbe aspettare un po' di discrezione.
Ma il caffè è buono. E questa, anche se non lo sappiamo ancora, sarà l'unica consolazione del pomeriggio.
E' martedì 2 dicembre e siamo diretti al Museo degli strumenti musicali per la presentazione di un libro sul compositore Francesco Pennisi, cofondatore di Nuova Consonanza. "Il dubbio che vibra", bellissimo titolo e unico guizzo di vita prima di sprofondare in un evento sulla cui durata ci eravamo illusi con un preventivo di una mezzoretta (che ci aspettavamo frizzante come il titolo), mentre ci siamo trovati con un consuntivo di più di due ore, esiziali.
Ognuno di noi ha le sue fissazioni, certo. La nostra, oltre a pretendere che sul palcoscenico gli artisti ci vadano o in costume o ben vestiti, è basata su una conclusione che deriva dall'esperienza: non è detto che chi scrive bene, sappia bene parlare.
Appunto. Tutti e sette i relatori, un po' troppi per un libro solo, saranno anche bravissimi a investigare, a catalogare, ad archiviare, ma quando prendono il microfono, aiuto!
Il top lo raggiungiamo con l'intervento di *** (come nei romanzi dell'ottocento: asterischi invece dei nomi, che peraltro rimangono riconoscibilissimi dagli addetti), egregio critico musicale, il quale, chiamato in causa, si assesta ben bene nella sedia, sfodera la sua voce più commossa ed esordisce dichiarando che preferirebbe non parlare dell'amico Pennisi perché il ricordo della sua scomparsa gli fa ancora male al cuore. Dopo di che parte per non fermarsi più, sempre con la voce a lutto, le pause disumane e un eloquio dimesso nella forma, ma pomposo nell'intenzione.
Per fortuna il bravo Massimiliano Scatena, con qualche esempio al pianoforte, ci permette di tanto in tanto di uscire dall'apnea, ma, certo, due ore per raccontare un libro ci sembrano davvero tante. Troppe. Più di quanto serva per leggerlo, se ancora ne rimanesse la voglia.
Salvando sempre la nostra amatissima Nuova Consonanza, che non ha nessuna colpa.
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
1 dicembre 2014
PURO MASOCHISMO
Il Circolo scandinavo. Nessuna foto potrebbe descrivere le nostre sensazioni, solo le parole. Dunque: esiste a Roma il Circolo Scandinavo, una foresteria che ospita per brevi soggiorni in un appartamento a Via della Lungara artisti svedesi, norvegesi, finlandesi, danesi e islandesi.
Riceviamo l'invito a un incontro (con rinfresco) con gli ospiti residenti. Decidiamo di andare a vedere.
Portone chiuso, nessuna traccia di accoglienza. Citofono. Dopo un po' una voce bianca ci risponde e ci apre. Saliamo al secondo, dove troviamo un bambino (la voce bianca) che ci introduce in un appartamento tristissimo, fiocamente illuminato da poche lampadine, massimo 20 candele. Una sala con qualche sedia, deserta. Un pianoforte. Poltrone e divanetti con centrini sui braccioli: il salotto della nonna. Nell'altra stanza, su un tavolo, tre bottiglie di vino dei Castelli e un piattino di pretzel: il rinfresco.
Arrivano signori e signore grigissimi, polverosi, di assoluta ineleganza. Non per essere snob, ma quando loro ci si mettono a dare il peggio, ci riescono molto meglio di noi del sud Europa. Parlottano nelle loro lingue impossibili; per fortuna reagiscono positivamente all'inglese. Ma è tutto moscio, l'atmosfera è stantia, la muffa ricopre ogni cosa, un mortorio.
Con il cuore intirizzito dal gelo scandinavo, ci facciamo forza, aspettiamo la scadenza della mezz'ora di cortesia; non succede niente. Allora via a gambe levate con la ferma intenzione di non farci mai più vedere. Non sapremo nulla sull'opera degli artisti o sulla qualità del vino. Pazienza.
"Festa della Musica per il Cinema" al Teatro Argentina. Stavolta la foto la mettiamo, anche se è riuscita male, perché la ragazza in stile Botero che regge il premio destinato a Morricone merita un'occhiata. In apertura di serata, la Sonora 2014, organizzatrice della faccenda, onora la carriera del grande maestro, il quale, ascoltata l'esecuzione di un suo brano, ritira la targa e scappa a casa. Segue una troppo lunga sfilza di autori di musica per documentari, film, fiction, tutti premiati, anche se non tutti noti.
Bravi o no, non ci interessa. Ci colpisce il fatto che, con qualche lodevole eccezione, quasi tutti si presentano con addosso non diciamo capi di civile abbigliamento, oppure (folle esagerazione!) giacca e cravatta, ma quotidiani stracci. Su questo argomento tendiamo a ripeterci, lo sappiamo, ma quando sali sul palco di un teatro (prestigioso) per prendere un premio (prestigioso o no), mettiti almeno una camicia pulita, un pantalone stirato, magari qualcosa di bizzarro, se proprio ci tieni, ma non la maglietta di tutti i giorni. Perché il palcoscenico è un altare, e qualunque fatto avvenga lassù è una cerimonia.
E all'organizzazione vorremmo suggerire una valletta un filino meno scosciata e magari un po' più snella.
Mostra del peperoncino. Una manifestazione di cui si sentiva proprio la mancanza. Piante e campioni di peperoncini piazzati sui tufi di un tratto delle Mura Serviane di Roma (VI secolo a.C.) salvato dalla furia edilizia del secolo XIX e valorizzato nel XX, nella sede del Corpo Forestale dello Stato, organizzatore e ospite. Inutile dire che noi eravamo lì, convinti della futilità dell'evento, ma comunque curiosi, e in seguito premiati da quello che abbiamo imparato.
Ripassiamo insieme: l'Italia non è in grado di soddisfare la richiesta interna, quindi importa il 70% del fabbisogno da Pakistan, India e Messico. Il capsicum annuum è la specie più coltivata da noi. E' originario del Sud America ed è stato portato in Europa da Colombo. La piccantezza non è un gusto, ma una sensazione; infatti l'alcaloide che la provoca è incolore e insapore. Il suo grado si esprime in punti di una scala vertiginosa, quella di Scoville. Il campione fino al 2006 era l'Habanero Red Savina, messicano, con 577.000 punti. Surclassato l'anno dopo dall'ibrido indiano Naga Jolokia, 1.041.427 punti, e oggi siamo arrivati a un milione e quattrocentomila con il Trinidad Moruga Scorpion. Numeri per noi esagerati (forse si potrebbero eliminare alcuni zeri), ma, ci dicono, ufficiali.
E dopo questa lezioncina, tutti in trattoria per un piatto di penne all'arrabbiata.
Ah, dimenticavamo: il peperoncino è ricchissimo di vitamina C. Molto più degli agrumi. Per ognuno di noi, una puntina sarebbe sufficiente per tutta la giornata. Certo, poi, la scala Scoville...
Ikebana. All'Istituto Giapponese di Cultura, l'ultima autoflagellazione: una dimostrazione di ikebana, l'arte orientale di disporre i fiori.
Ogni ikebanista ci guida al fragrante risultato di una preparazione meticolosa, elegante, ma necessariamente lunga e inevitabilmente noiosa, resa ancora più pesante dal cicaleccio incessante di una signora italiana che credendosi obbligata a riempire i silenzi racconta cose che vediamo benissimo da soli.
"Ecco adesso Yoko taglia questa foglia con cura perché deve essere della lunghezza giusta". "Ecco, adesso Yoko dispone le due margherite gialle simmetricamente come vuole la scuola ikenobo". E poi, via con i nomi giapponesi delle forbicine, del vasetto, della spugna, dei rami, dei fiori, delle scuole, delle tecniche, dei maestri...
Una faccenda estenuante, che ci porta a benedire la nostra TV, la quale, almeno, nei programmi di cucina non ci tiene impegnati per le ore di effettiva preparazione e cottura. Vedi un coltello che taglia gli ingredienti, la mano del cuoco che li versa nell'acqua, un mestolo che li gira e, miracolo del montaggio, dopo quattro secondi la pasta e fagioli è bell'e pronta.
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
24 novembre 2014
MUFFA E SPLENDORE
Cominciamo con la muffa.
Un pomeriggio di noia travolgente, ma ricco di approfondimenti sulle umane debolezze (sotto la coperta della cultura).
Tempo, luogo e occasione: mercoledì 19; Sala della Crociera al Collegio Romano, un magnifico ambiente zeppo fino al soffitto di libri plurisecolari; presentazione di "NOW, art before the future", curato da Crescentini e Domenicucci, un bel catalogo futuribile delle opere di una quarantina di artisti contemporanei e viventi.
Cinque i relatori annunciati: Bagnato, D'Amico, Siciliani, Lombardi, Nazio, ma siccome per caso c'è anche il pittore Ennio Calabria, ne approfittano per chiamarlo al tavolo a parlare. Non l'avessero mai fatto! Il maestro, dopo essersi schernito con un pericoloso: "Non mi aspettavo questo onore", attacca una tirata di venti minuti parlando molto di sé, del suo rapporto con l'arte, e di un collega morto recentemente, pace all'anima sua, che era suo carissimo amico.
Sopravviviamo, ma prima di sgattaiolare via durante l'ennesimo applauso di compiacenza, ci dobbiamo sorbire un altro po' di chiacchiere di quel genere particolare, chiaramente destinato alle orecchie dei colleghi.
Qui di seguito i tipi umani che si sono esibiti, un vero campionario da presentazione. Tutti nella lista dei relatori, ma non diciamo in che ordine.
Quello che recita la lezione senza prendere fiato, con la tipica concitazione ansiosa e ansiogena del primo della classe che vuol riuscire a dire tutto quello che sa, e fare bella figura. Molte parole inglesi, nomi di intellettuali a pioggia, fra i quali abbiamo sentito perfino Allevi! Faticoso da ascoltare perché ti condiziona sfavorevolmente la respirazione.
L'altro che arriverà tardi perché è in TV a farsi intervistare a "La vita in diretta", ma lo sostituisce un collega che però ha poco tempo anche lui perché è appena arrivato dal Messico, e ha un treno che lo aspetta per portarlo a Torino. Gente importante.
Ancora uno che deve scappare per altri impegni, ma fa in tempo a darci un sunto del suo inglese piuttosto casareccio. Risatine d'intesa della combriccola.
Durante tutta la faccenda ci assilla da uno schermo, in un loop senza fine, un insulso filmato di bambini che fluttuano in una specie di liquido amniotico. Naturalmente in bianco e nero un po' sfocato. Roba da video-art alla Biennale di Venezia, ma di trent'anni fa.
Questa fiera dell'autocompiacimento ci intristisce e ci spinge ad allontanarci prima della fine, non senza darci il pretesto per manifestare il nostro stato d'animo con un commento forse poco intellettuale, ma, ne siamo certi, comprensibile a tutti.
ZZZZZZZZ!
...ma continuiamo con lo splendore.
Ore 21, stesso giorno. Un pomeriggio come quello appena trascorso avrebbe potuto portarci a una serata rovinosa.
Invece, evviva! Ci è capitato uno dei più bei concerti degli ultimi anni. Letteralmente. Alla Sala Sinopoli del Parco della Musica: "Swinging Duke" con Fabrizio Bosso, il suo trio e una big band ridotta (due trombe, un trombone e tre sax) fatta dei migliori strumentisti in circolazione.
La ricetta dell'evento: i pezzi di Duke Ellington, che sono comunque belli; gli arrangiamenti pieni di poesia e di gusto di Paolo Silvestri, un audace che ha osato rifare i già perfetti originali migliorandoli, se è possibile; facendoli comunque diversi e certamente più moderni (che questa parola non sembri una bestemmia, ma è proprio il caso) e le ottime esecuzioni del gruppo.
E in cima a tutto l'assoluta padronanza di Bosso della tecnica, della voce, del gusto e del pensiero musicale applicato alla tromba. Perfezione. Ci si chiede come ha fatto in così pochi anni ad accumulare l'esperienza di una vita. Forse in questo consiste il genio. Chiedere a Mozart.
Sala esaurita, pubblico felice, e i suonatori, entrati con giacche inappuntabili, che poco a poco cominciano a spogliarsi nel fuoco dell'esecuzione fino a rimanere con le maniche arrotolate e l'espressione beata di chi si diverte a fare il proprio lavoro.
E anche noi: non era certo il primo concerto a cui assistevamo, eppure non un minuto di noia, di distrazione, di pensare ad altro.
Un piacere completo dall'inizio alla fine.
Un altro discorso.
Chiusura di settimana con l'inaugurazione del Roma Festival Barocco diretto da Michele Gasbarro. Una magnifica esecuzione dell'Officium defunctorum di Victoria nella chiesa nazionale spagnola di S. Maria in Monserrato, l'unica chiesa a Roma, oltre a S. Maria dell'Anima, illuminata come si dovrebbe. Tutta la luce in alto, verso Dio, e non in basso, negli occhi di noi peccatori.
Musica mistica, abbiamo detto, lontana dal jazz, ma non dalla bellezza, e benissimo eseguita. Prima dell'inizio, discorsetto introduttivo del parroco, spagnolo naturalmente. Beh, fra il tono morbido della voce e l'accento esotico, bastava chiudere gli occhi, ed eccocelo lì davanti: Antonio Banderas con i suoi tarallucci del Mulino Bianco.
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
17 novembre 2014
SWING, CANNONI E PAPI
Trenta e lode allo swing. L'11 novembre il Roma Jazz Festival apre il programma con una piccola cerimonia alla LUISS, presenti due illustri professori, un illustre giornalista economico e, per fortuna, l'illustre musicista Gegè Telesforo con l'illustre "Max Ionata Hammond Trio".
E' necessaria una breve spiegazione, altrimenti non si capisce il nesso fra jazz ed economia, di cui l'Università LUISS è il tempio. Quest'anno il tema del festival è lo swing, modalità jazzistica emersa all'epoca della grande depressione americana del'29 e del New Deal. Due fatti economici. Ecco il perché di questa location, fra professori e giornalisti, insieme a un gruppo che più swing non si può.
Tutto bene, tranne un inciampo, inevitabile quando si è ospiti in casa d'altri, verificatosi allorché l'illustre giornalista, di sicuro un ottimo professionista nel suo campo, è uscito dalle proprie competenze, ha afferrato una chitarra e si è intrufolato prima con l'accompagnamento e poi purtroppo anche con un solo, in un "All of me" che, da questa incursione è uscito piuttosto malconcio.
Cosa dire ancora? Che una volta tanto i musicisti erano vestiti impeccabilmente (senza quelle magliettacce e jeans da battaglia che troppo spesso i jazzisti, con nostro dispiacere, indossano), e che hanno suonato benissimo. Voto: trenta a tutti, dato che siamo in un'università, ma con in più la lode allo swing, e anche alle divertenti smorfie del geniale hammondista Alberto Gurrisi.
Cannoni puntati! E' il cinquantunesimo Festival di Nuova Consonanza. Mezzo secolo di vita merita una salva. Che c'è stata, non di bocche da fuoco ma di applausi, nel Grand Salon dell'Accademia di Francia a Roma, Villa Medici, il 12, alla fine del primo concerto della rassegna, con l'Ensemble Orchestral Contemporain di Lione.
"Non aprite quelle orecchie", ci verrebbe da dire con una battuta un po' frusta quando leggiamo sul programma di sala che stiamo per ascoltare una musica spettrale. Poi ci tranquillizziamo: "Gli spettralisti parlano di suono non come oggetto in sé concluso, ma come campo di forze, porzione di spazio-tempo, parte di un puro divenire sonoro".
Malgrado il critichese del testo, inteso soprattutto a complicare la faccenda, è vero che si tratta di materiale che arriva in tutta semplicità e facilmente all'ascolto, senza dover passare attraverso serialità ferree o metodologie vincolanti.
E il bello è che questi suoni assolutamente non tradizionali, anzi, che potrebbero essere presi per blasfemi, si spandono esteticamente nello spazio di un salone ultraclassico con soffitto di dodici metri, e arazzi barocchi alle pareti. Quando è roba buona va bene in qualsiasi ambiente. E non c'è scandalo.
"L'ultimo palazzo del Papa". Nessuno scandalo, neanche qui. Anzi, quanto sopra ci è tornato in mente nella Sala Torlonia di Palazzo Braschi, ora museo di Roma, la sera dell'8.
Alla performance dell'ottimo spettacolo messo in scena da Rosa Di Brigida per la Associazione Era Dea, fra specchi e divani rococò, con una impostazione moderna e antica insieme, musica dal vivo, e costumi che definire visionari sarebbe poco.
Già tutte prenotate con grande anticipo, le due repliche dell'8 e del 9 sono la cronaca, fedele ai fatti, senza concessioni, a tratti beffarda (Pasquino e le sue satire: l'attore Francesco D'Ascenzo), del papato di Pio Sesto Braschi, l'ultimo Papa Re a lasciarsi andare a una vergognosa politica di sfrenato nepotismo e di spese talmente folli (naturalmente a carico della Camera Apostolica) da mandare in rovina, dopo averla innalzata, prima la sua stessa famiglia e poi il faraonico palazzo costruito a Piazza Navona.
Che malgrado tutto andò avanti con la sua storia; anzi, a un certo punto, e questo la dice lunga sulla sua gestione sconsiderata, fu addirittura messo in palio come primo premio dell'estrazione del lotto: gioco, anzi rapina legalizzata del governo pontificio ai danni del cencioso popolo dell'Urbe. Ma anche l'estrazione andò buca.
Ancora una prova della nostra teoria: arbitrario o fedele, critico o visionario, uno spettacolo, se è buono, funziona dappertutto.
Ancora e sempre Negroni. A questo punto, chiuse le manifestazioni di cultura, usciamo dai saloni e scendiamo ai piedi del palazzo. Qui, proprio nell'atrio che si affaccia meravigliosamente con un portone su Piazza Navona (la più bella piazza del mondo, e non solo secondo noi), c'è il Braschi Bar.
E noi lo citiamo, non solo per lo splendore dell'ubicazione, ma anche per quella che è, lo sappiamo bene, la nostra fissazione: il Negroni.
Loro lo fanno benissimo.
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
10 novembre 2014
LA DISTRIBUZIONE DEL TALENTO
L'apocalisse annunciata da Pulcinella. Roma 6 novembre. "Non uscite di casa se non in caso di estrema necessità". "Scuole e siti archeologici chiusi". Questi i titoli dei giornali stamattina. Senza dimenticare la sempre evocata bomba d'acqua. In tutta la giornata abbiamo visto solo una violenta ma assolutamente normale pioggia di novembre che non ci ha impedito di scendere al bar per il quotidiano cappuccino. E per l'allarmatissimo giornale.
In cui i titolisti allo sbaraglio ci servono la meteorologia drammatizzata: Roma in ginocchio per la pioggia, l'Italia nella morsa del gelo, o del caldo, paura a nord (o sud, est, ovest). Ore di caos, strade come fiumi, paralisi del traffico, voragini, emergenza.
Ci pare il solito teatrino di pulcinella che affronta la normalità stagionale come un dramma apocalittico (per poi farsi fregare dall'emergenza vera). Ancora ci ricordiamo i tre centimetri di neve a Roma e la conseguente totale paralisi urbana.
Comunque, il resto delle ventiquattrore non è che sia andato un gran che meglio.
Blanda fregatura con l'inaugurazione della mostra "Artisti dell'800 - Temi e riscoperte" alla Galleria Comunale d'Arte Moderna. Una modesta riproposta delle opere in deposito al museo stesso. Paesaggi, ritratti e qualche gesso o bronzo. Tutta roba vista e stravista; i temi, sempre gli stessi e, quanto a riscoperte, non ci siamo accorti di niente.
Grossa fregatura invece a fine giornata, quando ormai la bomba (d'acqua) aveva fatto cilecca, alla proiezione in anteprima del film biografico televisivo "Non escludo il ritorno", titolo preso dallo spiritoso epitaffio suggerito da Califano per la sua tomba. Quasi due ore di luoghi comuni, recitazione mediocre, location al risparmio, banalità, canzoni, sdilinquimenti sentimental-parolacciari, con l'attore protagonista che lo imita (bene, ma senza darci un attimo di tregua) biascicando in romanesco.
L'unico spazio per una risatina in tutto il film: al ristorante, Califano paga il conto, poi dice al cameriere: "Il resto..." "E' noia", fa il cameriere, spiritoso. "No, è mancia", ribatte il Califfo. Pochino, no?
C'è una domanda che ci perplime ogni volta che ascoltiamo le sue poetiche canzoni. Che poi è buona per tutte le epoche e per quasi tutti gli artisti. Com'è possibile che in una persona greve viva un'anima leggiadra? Eppure succede. Continuamente.
La conclusione è lampante: il talento è un regalo distribuito senza criterio.
Foto contro sguardo. Domenica 9. Malgrado il calendario è un'altra giornata primaverile. Ne approfittiamo per visitare una zona archeologica appena recuperata e aperta al pubblico sull'Appia Antica, la tenuta di Santa Maria Nova.
Facile e sbrigativo descriverla, anche perché assomiglia a tante altre. C'è un bel prato, parecchi pini e cipressi, mozziconi di muri antichi, un casale medievale nato sulle fondamenta di un edificio romano. Probabilmente terme in uso alla guardia scelta della Villa dei Quintili.
Nella quale, dopo averla scippata, eliminandoli, ai legittimi proprietari, appunto i fratelli Quintili, l'imperatore Commodo andava spesso a fare delle scampagnate, e naturalmente aveva bisogno della guardia del corpo.
Ci sono pavimenti in mosaico, vasche e ambienti riscaldati; insomma, la solita attrezzatura delle terme dell'epoca.
Naturalmente non è per fornire questa banale descrizione che riferiamo la nostra visita.
All'ingresso della tenuta, in cima ai resti di una grossa cisterna hanno costruito un moderno belvedere, da cui si ha un'ottima visuale panoramica di tutti i dintorni, dai Colli Albani, alle tombe dell'Appia Antica, agli aerei che decollano da Ciampino.
Tutti contenti ci siamo saliti, abbiamo lasciato spaziare lo sguardo, poi lo abbiamo abbassato, e qui abbiamo avuto la sorpresa, da cui il nostro titolo.
Tutto intorno, sui quattro lati della terrazza, ci sono, bene incorniciati e fissati alla ringhiera, dei pannelli a colori che riproducono esattamente quello che si vede affacciandosi da quel lato. Normale amministrazione? Ce ne sono parecchi di quei pannelli in giro, ma sempre arricchiti da indicazioni per riconoscere la tal cupola, o il talaltro monumento nella foto, e di conseguenza identificarlo nel panorama.
Qui, invece no; c'è la foto e basta. Ha tutta l'aria di essere un omaggio al potere che in questa nostra epoca dell'immagine ha acquistato l'immagine stessa.
Se io vedo, a mezzo metro dagli occhi, fotografata su un pannello a colori, la stessa cosa che vedo se gli occhi li alzo e guardo un po' più in là, vuol dire che quel panorama è importante, e sono autorizzato a ricordarmelo con legittimo orgoglio: io c'ero e ho visto proprio le stesse cose che stavano stampate sul pannello.
Come turista sono a posto.
Come persona pensante, un po' meno, ma che fare?
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
3 novembre 2014
IN TRINCEA
Conferenza stampa in trincea. Alla minacciosa intimazione: "Fermi tutti, le porte sono allarmate!" non solo ci siamo fermati, ma abbiamo cominciato ad allarmarci anche noi. Giovedì 30, intorno a mezzogiorno al Campidoglio di Roma, dove eravamo invitati alla conferenza stampa di presentazione del festival TorBellaMusica, curato da Piji per la Casa dei Teatri e il Teatro Tor Bella Monaca (che è il nome dello spazio, da cui il gioco di parole).
Fallisce il primo tentativo di entrare dall'ingresso abituale. Cacciati e spediti alla Protomoteca, su e giù per scale e scaloni. Niente da fare neanche lì. Incomprensibili dichiarazioni del personale: ragioni di sicurezza. Mah, noi non avevamo avvertito minacce nell'aria. Comunque, torniamo tutti al portone di prima; qui siamo intruppati da un vigile che ci fa passare quattro alla volta e quando siamo nella portineria, ma non ancora autorizzati a procedere, ecco la minacciosa intimazione.
Per camminamenti interni che ricordano i sotterranei del Colosseo (ci è parso di udire il ruggito dei leoni) arriviamo alla sala, dove finalmente ci viene dato, in letizia e con la vivace partecipazione degli artisti coinvolti, l'annuncio del programma, ricco e bene articolato, della manifestazione.
Ultimamente, a proposito della cultura, abbiamo sentito dire spesso: "Di questi tempi il teatro (o la musica, o la danza) è in trincea". Senz'altro vero; e ci è sembrato un giusto adeguamento al sentimento diffuso fare in modo che in trincea siano organizzate anche le conferenze stampa.
Fratelli coltelli? Niente di tutto ciò in una serata della serie "Fratelli nel Cinema" organizzata dalla Cineteca Nazionale il 29 allo Spazio Trevi. I fratelli sono Paolo, Vittorio e, protagonista dell'evento, Franco Taviani. Incontro guidato con garbo e discrezione da Amedeo Fago, ma quasi sabotato, soprattutto per la pessima mira, dalla co-moderatrice Patrizia Pistagnesi. La quale, invece di puntare su Franco, ha parlato soprattutto di sé e della sua ammirazione per gli altri due fratelli.
Non si fa così a casa del festeggiato, no?
Saletta gremita, e, in attesa della proiezione di "Gli sconosciuti", l'ultimo film di Franco Taviani, ci è stato servito un delizioso copione a tre voci di battute, ricordi (d'infanzia e di carriera), riconoscimenti e manifestazioni di affetto e rispetto reciproco che alla fine ci hanno portato inevitabilmente a riconoscere che, quando funziona, la famiglia è una gran bella cosa.
Se manca l'opera è quasi meglio. Il nome della mostra è "Open museum, open city". Inaugurata il 23 ottobre al Maxxi. La prima domanda è: perché un titolo inglese? La seconda, appena entrati: dov'è la mostra? Poi abbiamo capito tutto: la mostra non è visiva ma acustica. Il programma dichiarato dal curatore Hou Hanru è svuotare totalmente il museo per riempirlo di suono.
Splendida iniziativa perché l'edificio, dentro, è straordinariamente bello: volumi immensi, linee curve, passerelle sospese, pavimenti inclinati. E' lui l'opera d'arte (dobbiamo aggiungere che tutto quello che ci abbiamo visto nel corso di varie esposizioni non ci è sembrato mai neanche lontanamente all'altezza del contenitore).
Quindi siamo totalmente d'accordo con la prima parte del progetto: svuotarlo.
Meno sul riempirlo di suoni. Qui parte l'equivoco, anche un po' stantio: il suono organizzato è musica, consonante o dissonante non fa differenza. Il suono in sé non è niente. Può essere pauroso, certo, inquietante, ossessivo, ipnotico, rasserenante, ma, malgrado i molti tentativi delle avanguardie, da solo non va mai abbastanza lontano da rappresentare un fatto autonomo, uno spettacolo, una riflessione. Rimane una sensazione. E questo non basta.
Così ci siamo trovati con gli occhi felici per le estensioni quasi infinite a disposizione, ma con le orecchie, ormai troppo smaliziate per stupirsi davvero, inutilmente costipate di rombi profondi, pulsazioni nevrotiche, sibili e grattugie. Roba ormai vecchia, anzi, nata già vecchia.
Sull'inglese del titolo: boh?
Cinquant'anni. E' l'età della galleria "Il segno" di Via Capo le Case a Roma. Festa di compleanno il pomeriggio di mercoledì 29, con una mostra in cui ai muri non c'è appeso un bel niente. Ci sono scritti, in compenso, i nomi di tutti gli artisti le cui opere sono state davvero attaccate a quei chiodi in questo mezzo secolo.
Certo non sapremmo cosa suggerire come alternativa. Rimane il fatto che queste pareti scarabocchiate ci ricordano i tanti ristoranti turistici del centro storico, decorati con foto e firme taroccate di ospiti illustri; o addirittura qualcuno dei pochi jazz club ancora vivi, omaggiati, sempre sull'intonaco, da improbabili Duke Ellington o Louis Armstrong.
Solo che spaghetti o note musicali non si possono certo appendere, mentre i quadri sì, si potrebbe.
Insomma, l'impressione è di una trovata un po' furba.
Ma, per citare un contemporaneo piuttosto famoso (quel signore sempre vestito di bianco): chi siamo noi per giudicare?
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
27 ottobre 2014
CON LA SCUSA DEL METEO
17 ottobre, ore 12. Mentre Genova spala il fango, e Parma conta i prosciutti perduti, noi ci troviamo, in una mattinata incredibilmente balsamica (maniche di camicia e brezzolina tonificante) al parco dei sepolcri della Via Latina, appena riaperto dopo una esemplare sistemazione.
Qualche moralista penserà che è ingiusto che dalle nostre parti sia ancora estate a metà ottobre, mentre lassù piove a rotta di collo, ma approfittarne non crediamo che sia peccato, e la gratificante bellezza dell'escursione funziona benissimo per allontanare ipotetici sensi di colpa.
Adagiati su una panchina sotto un aromatico pino con vista sui ruderi suggestivi e con il traffico lontano, ci viene da fare una considerazione.
Non ci sembra proprio che il clima sia cambiato tanto da mettere in pericolo la nostra sopravvivenza. Temporali e mareggiate sono le stesse da sempre; è la gente che, moltiplicandosi, ha cambiato le cose. Trecento anni fa una frana in Valsugana avrebbe fatto fuori al massimo un paio di camosci distratti. Oggi la stessa frana butta giù una seggiovia, due baite e mezza dozzina di villette, con relativi morti e feriti e dichiarazione di stato di calamità naturale.
18 ottobre. Stesso meteo. Da venti secoli fa, passiamo all'altro ieri. E ai suoi monumenti. In fondo anche un gazometro abbandonato ha la sua eleganza. Ed è lui stesso la testimonianza di un guizzo di modernità in una città come Roma che, dopo la fine dell'Impero e un medioevo catastrofico, si era addormentata fra le braccia di Santa Madre Chiesa, la quale aveva ben provveduto a tenerla costantemente sotto sedativo.
C'è un'area, cosiddetta industriale, a sud del centro storico. Cosiddetta perché, in confronto a una vera città industriale, fa la figura di un laboratorio artigianale, e pure antiquato. C'è, appunto, un gazometro, una centrale elettrica trasformata in museo, un ponte ferroviario che sembra un giocattolo e poco più. Il resto è tetti caduti, mura annerite e immondezza.
Per fortuna, da un po' di tempo qualcuno ha deciso di dargli una ripulita: è nato un giardinetto qua, là c'è il Teatro India che spolvera un po' di cultura sulle macerie; il nuovo ponte pedonale unisce tratti asfaltati di un Lungotevere che prima o poi si collegherà a quelli esistenti per creare una passeggiata lungo il fiume, e, perché no, per sfruttare il fascino crescente dell'archeologia industriale. Noi ci saremo.
Un Nuovo Negroni. Colpo di scena! Cachaça brasiliana (invece del gin), Martini Gran Lusso e Campari (roba italiana), una grattatina di fava tonka (dipteryx odorata, venezuelana); miscelato, lasciato riposare in botticella per tre settimane, e servito, naturalmente sul ghiaccio. Si chiama Trilusso e la sua madrina è Lela (foto), bar woman, di "Spirito", uno speakeasy, dove siamo capitati domenica 19 per ascoltare l'amico Ettore Zeppegno al pianoforte con Sebastiano Forti, sax soprano e clarinetto.
Musica anni '30, mentre noi mettevamo sotto i denti un buon piatto di fish'n chips, e davamo un'impostazione etilica alla giornata con la scoperta del misterioso ma indiscutibile affiatamento del Nuovo Negroni con merluzzo fritto e patatine.
Siamo al Pigneto, una zona di Roma che, malgrado i tentativi della stampa modaiola di farne uno spicchio di città trendy, rimane a nostro parere un ex quartiere popolare poco dotato, scomodo da raggiungere, difficile da girare, impossibile da parcheggiare. In compenso il locale è bello, bene arredato e ben gestito. Speakeasy perché l'ingresso alla vera sala è mascherato da una porta nascosta, come usava ai tempi del proibizionismo in America. Una volta entrati, niente paura: buona cucina, buon servizio e un banco bar spettacoloso e ottimamente governato, appunto da Lela.
E meno male che abbiamo avuto il buon senso di limitarci a un solo assaggio, perché la tentazione era forte, la batteria di bottiglie formidabile, e la varietà delle proposte pericolosa.
L'attimo fuggente. E' martedì 21, le previsioni per domani sono di gran vento, ma per oggi continua il caldo. E allora, passeggiata finale di stagione per rivedere quello che per noi è il restauro più geniale (e poetico) mai visto: le ultime due campate del Colosseo.
Dopo secoli di abbandono, demolizioni e furti, si decide, a inizio '800, di costruire un enorme sperone di mattoni per impedire che l'anello esterno si sbricioli. L'anfiteatro è un'ellisse che si regge per spinte contrapposte: togli un arco e senza più il suo sostegno, parte l'effetto domino e crolla tutto.
Normalmente il restauro di un edificio riporta le cose a un ipotetico ordine precedente, spesso arbitrario, oppure ripulisce le rovine lasciandole come sono state trovate.
In questo angolo del Colosseo, no. Qui il restauro ha magicamente bloccato l'inizio della catastrofe, con le crepe che si allargano, gli archi che collassano, i cornicioni che si incrinano, pietrificando l'attimo fuggente. Geniale. E poetico.
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
20 ottobre 2014
IMPROBABILE CITTA'
Luci sbagliate. Un curioso concerto a S. Maria in Vallicella, la Chiesa Nuova, lunedì 13. Il pretesto: la imminente beatificazione di Papa Montini. Qualche aneddoto e dei pensieri su Paolo VI, intrecciati a una discreta esecuzione di Bach e Haendel. Pubblico attento e devoto, una chiesa che è un esempio di barocco senza eccessi, ma con tutti i suoi caratteri di sontuosa armonia: bellissima, insomma.
E con un'illuminazione (è il nostro pallino) che è un attentato alla meditazione, al buon gusto e alla vista, oltre che un forse involontario, ma diabolico marchingegno per mortificare l'equilibrio dell'edificio.
Una fila di intense lampade, concepite per uccidere, puntate ad alzo zero direttamente nelle pupille dei fedeli, e sei violenti riflettori che dal più alto cornicione incombono sul povero cristiano il quale, alzando lo sguardo non vede altro se non quel barbaro barbaglio. Nell'improbabile caso che a qualcuno venga in mente di orientarli (i riflettori, non gli occhi) verso il soffitto, l'effetto sarebbe meno villano e a costo zero. Forse il parroco è talmente occupato a pregare che non ha il tempo per pensare. Peccato.
"Parole liberate oltre il muro del carcere". Una notevole iniziativa presentata martedì 14 nella sala stampa della Camera dei Deputati. Promosso dal Festival di Lunezia, è un concorso fra i carcerati d'Italia per le parole di una canzone. L'ha vinto Lupetto (nome d'arte di un recluso) e il suo testo sarà musicato da Ron. Il quale era presente e ci è parso commosso e onorato del compito.
Secondo noi Ron assomiglia sempre di più al nostro caro amico Lelio Luttazzi, come lineamenti, come accento e come modo di parlare. Chissà se ne sarà contento. Dovrebbe.
Mentre stavamo entrando ci ha colpiti un'improbabile combinazione fra artigianato storico e tecnologia contemporanea. Anche l'ingresso alla sala stampa del Parlamento (installata a Montecitorio, il magnifico edificio barocco del Bernini che ospita una delle due istituzioni fondamentali della Repubblica) è naturalmente dotato di un varco elettronico progettato per sventare l'introduzione di armi o altri oggetti pericolosi.
La porta c'è e suona, ma l'apparato di sicurezza (vedere foto) è collegato a un cavetto volante, abbandonato all'esterno sui gradini d'ingresso, che parte da una normale presa, neutralizzabile da chiunque in mezzo secondo. Si può dire che garantisce lo stesso livello di sicurezza di una stufetta elettrica in una baracca abusiva. Ma siamo a Roma, in Italia e nel 2014. Mica nel futuro.
Astronavi e broccoletti. Mercoledì 15. Siamo lieti di annunciarvi che eravamo presenti all'inaugurazione della mostra "Fantascienza 1950/70, l'iconografia degli anni d'oro". In pratica, marziani e astronauti fra i finocchi e le banane del mercato coperto di Via Cola di Rienzo. L'idea è "trasformare i mercati rionali storici in una piattaforma culturale non convenzionale stabilendo una sinergia innovativa nel rapporto commercio-cultura-città".
Siamo sicuri che gli operatori ai banchi, non avranno alcuna difficoltà a comprendere questa facile prosa. A noi non addetti ai lavori (né frutta, né verdura) si è presentata una banale immagine di massaie indaffarate, e di pescivendoli e fruttaroli preoccupati di intrufolarsi, con la loro mercanzia, nelle inquadrature delle cineprese, ma tutti ugualmente indifferenti alla fantascienza e alla sua iconografia.
E' una nobile iniziativa il cui merito sfugge al cinico occhio del Cav. Serpente, oppure un opportunistico tentativo di sfruttare un'occasione, con scivolata, probabilmente casuale, nella più totale improbabilità?
Red carpet. E siamo al quarto appunto su questa nostra improbabile città. L'evento, intitolato "Pinocolus mutationem habet", è organizzato dall'Associazione culturale Pinocchio e ha luogo nella meravigliosa Sala dei Papi attigua al fantastico chiostro del convento di S. Maria sopra Minerva, per l'occasione pieno di grilli che si godono, frinendo, la temperatura semiestiva (è la sera del 15). Una lettura con musica di brani del libro di Collodi, e una mostra di quadri su episodi della favola.
Vogliamo segnalare il punto d) dello statuto associativo che dice: "...ci proponiamo la diffusione e la promozione dell'eccellenza produttiva italiana attraverso la storia di Pinocchio". Ci sfugge qualcosa: forse si riferisce alla produzione, da noi fiorente, di gatti e volpi?
Insomma, la sala bellissima, ma con una pessima acustica; il pubblico, una dozzina di persone compresi due frati dell'attiguo convento; i quadri, sul cui valore artistico sorvoleremo per carità cristiana, esposti tutti in fila in penombra, e quello che ci ha davvero colpiti: il red carpet, una sontuosa passatoia scarlatta che guida i visitatori dal portone fino al chiostro, con, a dare il benvenuto, un magnifico buco piazzato esattamente al centro.
Una volta i conventi avevano delle volenterose zitelle che si preoccupavano del fabbisogno di abiti e arredi sacri. Magari un rammendino, una toppa...
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IL CAVALIER SERPENTE
Perfidie di Stefano Torossi
13 ottobre 2014
ACCIDENTI A CARAVAGGIO
Villa Medici, o meglio, Académie de France à Rome, lunedì 6. Mostra "I bassifondi del Barocco, la Roma del vizio e della miseria".
Un eccellente esempio di quanto siano importanti presentazione, promozione e soprattutto il titolo per fare un evento.
Folla oceanica e forse pruriginosa all'inaugurazione. Mondanità, gossip, eleganza, più champagne e grappoli d'uva per gli ospiti (i grappoli evidentemente perché in tutte le rappresentazioni della dissolutezza, dall'antica Roma al '600, sono presenti come simbolo, chissà di che, dato che l'uva è un frutto innocente come sapore e per niente allusivo come forma).
Mancava Michelangelo Merisi; in compenso erano presenti pittori caravaggeschi in gran copia (gioco di parole per intenditori). Il che ci spinge a esibirci in una stagionata ovvietà: la quantità non fa la qualità.
Insomma, per farla breve, questa furbissima mostra (e lo dimostra il successo di pubblico) vuole raccontare le cattive abitudini della Roma barocca. I quadri sono addirittura raggruppati seguendo uno schema per sottocategorie del genere: la crapula viziosa, la crapula violenta, quella malinconica, quella disperata. Le scenette sono naturalmente ambientate nelle sudice osterie o nei mercati dell'epoca, dove si consumavano i vizi seicenteschi, se non eterni, dell'uomo: ubriachezza, gioco, prostituzione, furto, violenza e quella che per l'epoca era una novità scandalosa: il fumo. In fondo più innocenti di quelli tecnologicamente avanzati di oggi (droghe sintetiche, musica psichedelica, cocktail micidiali, eccetera).
E Caravaggio che c'entra? Intanto perché non c'è. E poi perché, dopo che lui ha dipinto una scena in un certo modo, nessuno mai riuscirà a farlo meglio. E quindi, spatola o pennello, i Caravaggeschi, presenti numerosi, rimangono imitatori più o meno bravi (di solito meno) mentre il caposcuola se ne sta lassù irraggiungibile.
Ecco perché questa mostra, disposta, guidata, e illuminata con consumata abilità commerciale, per noi è risultata una raccolta piuttosto noiosa di quadri da abbastanza belli, a solo modesti, a, in alcuni casi, decisamente brutti.
Il fatto è che per noi fortunati romani, in un raggio di poche centinaia di metri da lì (chiesa di S. Maria del Popolo, S. Luigi dei Francesi, S. Agostino, Galleria Borghese) i Caravaggi garantiti autentici si sprecano. Quindi, bene lo champagne e l'uva, benissimo la mondanità che in luoghi speciali come Villa Medici riesce meglio, ma poi, una breve passeggiata nei dintorni, e possiamo rifarci gli occhi con l'arte vera.
Contemporanea Mente. GNAM, sabato 11, sei artisti per la X giornata del Contemporaneo. Ecco come, al contrario del precedente di Villa Medici, un titolo che vorrebbe apparire furbo, risulta solo un po' scemo, e fa pensare a fatterelli della domenica camuffati da eventi: "Nonsolotarli" (mercatino di mobili vecchi), "Bau beach" (spiaggia per i cani a Ostia), "BicchierdiVino" (enoteca con degustazione), eccetera.
La Galleria Nazionale d'Arte Moderna è un magnifico edificio dove si gira bene senza urtarsi, e si incontrano amici in buona disposizione d'umore, quindi ogni occasione è piacevole. Stabilito questo, andiamo a parlare degli artisti in esposizione.
Il primo, Gianni Politi rischia grosso perché inserisce i suoi dipinti (collage e non, comunque sull'astratto) qua e la fra i figurativi nelle sale dell'ottocento. Basandoci sulla nostra impressione diremmo che, anche se i suoi quadri non sono affatto male, nel confronto con gli altri ci rimettono, senza peraltro riuscire a scandalizzarci.
Saltando Pietro Ruffo che espone un biplano della Prima Guerra fatto di cartone, molto piaciuto ai numerosi bambini presenti, arriviamo all'aria fritta di Chiara Dynys. Uno scatolone di vetro intitolato "Non c'è nulla al di fuori", a proposito del quale vale la pena di riportare una parte della presentazione fornitaci all'ingresso: "L'artista si interroga da sempre sulla potenzialità della luce (la non materia) e dei materiali, realizzando labirinti, spirali, luoghi dove perdersi ritrovando paradossalmente la propria strada e la propria identità. Davanti alla sua opera è inevitabile incorrere nell'inganno: ribaltamenti prospettici, slittamenti semantici, e bla bla bla...". Se non è aria fritta questa (in fondo è uno scatolone di vetro, e nulla più).
Nel bello spazio del cortile Aldrovandi un'istallazione di cinque elementi che "attraverso il movimento auto generativo si ripiegano su se stessi acquistando la forma di volumi conclusi". Presente l'autore, Pietro Fortuna, che si affanna a spiegare ai visitatori il significato dell'opera. Vecchi lo siamo di sicuro, rimbambiti forse non ancora, comunque ci capita di pensare che un'opera che abbia bisogno di una spiegazione per essere capita e non sappia parlare da sola, mah...
In uno dei giardini abbiamo reincontrato la fontana di Cloti Ricciardi, un tubo montato su supporti da cui, il giorno dell'inaugurazione, cadeva una cortina perfettamente parallela di getti. La deprecata componente calcarea dell'acqua di Roma, e la altrettanto romana mancanza di manutenzione, hanno trasformata l'installazione artistica in una malandata doccia da motel. Molti buchi otturati, altrettanti che buttano di traverso; quel povero tubo avrebbe bisogno di un intervento idraulico d'emergenza.
Certo, uscendo in uno scintillante mezzogiorno di un tiepido ottobre si capisce, anche non giustificandolo, il menefreghismo storico dei romani. Sul sole che c'è non serve intervenire. Sul resto, perché affannarsi? Prima o poi ci penserà qualcuno.
Ancora una mostra, quella di Valerio Adami alla Galleria Andrè, che non ci ha colpito per le opere, ma perché l'autore, nella sua autopresentazione, accostandola alle linee nette dei propri quadri, inserisce una sorprendente e a noi sconosciuta citazione di Arnold Schönberg del '22. "La piega dei pantaloni è uno degli ornamenti più belli dell'uomo. Quindi l'uomo elegante è obbligato a tenere la piega, sebbene, a dire il vero, essa non sia stata stirata per essere portata così; al contrario, è stata fatta per non essere portata così, ma per essere messa in valigia". Diavolo di uno Schönberg!
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