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Perfidie di Stefano Torossi

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Granitica certezza

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

    19 maggio 2014

   GRANITICA CERTEZZA

 

    Johann Sebastian Bach. La nostra granitica certezza. Da sempre. La musica di Bach la puoi frullare, tostare, tritare, sempre commestibile rimane. Dalla toccata e fuga per organo trasferita all'orchestra in Fantasia di Disney, alle versioni jazzate di Jacques Lussier, Swingle Singers, Uri Caine, alla sigla di Piero Angela; è sempre lui, il monumento che si mantiene immacolato nella sua equilibrata perfezione, come il Marcaurelio, anche coperto da cacche di piccione.

Traumatica scoperta venerdì 9 maggio al Goethe Institut, dove ci siamo recati, spinti dalla temeraria audacia di voler confermare ancora una volta questa nostra certezza. La colpa è tutta di uno sconsiderato, a nome Denis Patkovic, giovane di origine slava, fra l'altro titolare della cattedra dello strumento di cui stiamo per parlare, al conservatorio di Tokio.

Tagliamo corto con la suspense. Il giovanotto aveva in mente di somministrarci le Variazioni Goldberg, e lo ha fatto eseguendole lui stesso alla fisarmonica.

Nulla di scandaloso, naturalmente. Dopo aver dichiarato che Bach resiste a tutto, sarebbe stato da bacchettoni contestare un "Bach all'accordeon", no?

No, sarebbe stato da saggi. Perché è proprio in questa occasione che il granito della nostra certezza si è screpolato. Come si sa le Variazioni Goldberg sono quasi tutte in tre quarti, un tempo che, sul cembalo di Bach, o magari con Glenn Gould al pianoforte, o ancora su un grand'organo può trasmettere la più sublime delle raffinatezze o l'imponente maestà di una cattedrale, ma che (per esempio nella prima variazione) alla fisarmonica diventa il zum-pa-pa di una mazurka da festa sull'aia.

Proprio perché il suono di questo strumento, non c'è niente da fare, è associato alla balera popolare. E ancora peggio accade con l'esposizione del tema iniziale da cui derivano le variazioni. Con tutta la sua pensosa sobrietà, suonato dalla fisarmonica si trasforma nel sottofondo di un bivacco di alpini sul Monte Grappa.

Forse siamo davvero bacchettoni, ma non abbiamo resistito e ce ne siamo andati. Con tante scuse agli amici fisarmonicisti.


Venti polari. Quelli che soffiavano mercoledì 14 (maggio, mica dicembre) verso le diciannove, mentre il sole tramontava dietro minacciosi nuvoloni. Insieme ad altri quattro stravolti sedevamo sulle gelide gradinate della cavea del Parco della Musica in attesa di un'annunciata performance propedeutica alla mostra di Francesco Fonassi.

Dopo il consueto ritardo romanesco (minimo mezz'ora), dagli altoparlanti piazzati ai fianchi dei suddetti stravolti è cominciato a uscire un rombo profondo come di motori, con ogni tanto qualche impennata del volume. Dieci minuti di questo pretenzioso nulla, mentre la tormenta infuriava, sono stati abbastanza per convincerci a puntare verso il bar e il terapeutico Negroni.

"Il lavoro di Fonassi si focalizza sulle dinamiche dell'ascolto e sui meccanismi della percezione uditiva, testandone limiti e potenzialità in termini intersoggettivi." Questo brano della presentazione, scritto in squisita prosa artistichese, vuol dire, per i semplicioni come noi e forse anche voi, che il suono parte alto o basso dall'altoparlante e arriva all'orecchio di uno che lo sente troppo forte o di un altro che lo sente troppo piano. Niente di più.

Gli altri, intellettuali duri e puri (c'erano anche alcuni anziani, probabilmente professori, accompagnati da graziose, pigolanti studentesse) congelati sul marmo. Voto zero alla performance. Ci siamo spostati allo Spazio Arte dove proseguiva la mostra vera e propria, e dobbiamo confermare il giudizio. Si trattava della proiezione di un filmato, commentato dalla stessa musica di prima, girato con grande, monotona ripetizione di inquadrature, tagli, luci, (probabilmente in altra sede gabellata per audace nonconformismo) dentro una cava di marmo. Movimenti della camera verticali-orizzontali-diagonali seguendo le fessure della pietra, o rotatori sui segni della sega circolare. Mah.

Il Parco della Musica è uno straordinario luogo di aggregazione; e anche quelle volte che non succede niente di speciale, ci permette di trovarci in mezzo a facce di artisti, serie, buffe, forse supponenti, ma di sicuro meno inquietanti e minacciose di quelle che si incontrano a un raduno di tifosi, o fra la folla dei ragazzotti ubriachi di Campo de' Fiori. 

E poi, a portata di mano, anzi di bar, c'è sempre il già citato Negroni.



PS. Fighetta Salsiccia. Il Cavalier Serpente vuole fare le sue più sincere congratulazioni alla donna barbuta che ha vinto l'Eurovision Song Contest. Non tanto per la canzone, un pezzo commerciale niente male, quanto per lo spirito con cui ha scelto il proprio nome d'arte, bisex e multinazionale: Conchita Wurst.

In Sudamerica "concha" vuol dire conchiglia, ma anche vulva, e il suo diminutivo conchita, oltre che per Concettina, sta per fighetta. In tedesco "wurst" significa salsiccia (anche salame, tanto per non farci mancare niente), come dovrebbero sapere tutti quelli a cui piacciono gli insaccati. I riferimenti ci sembrano trasparenti.

Conchita Wurst, ovvero Fighetta Salsiccia. Geniale.



                                          


 

 
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Il Quadrilatero delle Urine

 

  IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

  12 maggio 2014

      IL QUADRILATERO DELLE URINE


Dalle parti dei Caraibi hanno il Triangolo delle Bermude. Noi, qui a Roma, abbiamo il Quadrilatero delle Urine.

In mezzo a un mediocre e degradato quartiere di edilizia intensiva fine ottocento, dalle parti della stazione Termini, c'è Piazza Manfredo Fanti, e in mezzo a questa piazza è sopravvissuto un ritaglio di dignità architettonica: l'Acquario Comunale, oggi Casa delle Architetture.

E' un bell'edificio circolare in stile eclettico fine '800, al centro di un quadrilatero delimitato da un muretto con cancellata che racchiude un giardino. Che è ornato da scarsi resti delle mura serviane, mezze sprofondate in una fossa inaccessibile e da alcuni vasconi di legno in cui stentano a sopravvivere piantine di pomodoro, melanzane, salvia, prezzemolo e altri tentativi di riprodurre un orticello (con funzioni didattiche per gli scolari del vicinato?)

Tutto intorno, in compenso, svettano parecchi enormi, magnifici alberi secolari. Stessa età dell'edificio e dei quattro o cinque vecchietti, in giacca gialla con su scritto Roma Capitale, occupati a svolgere un precario sevizio d'ordine anti extracomunitari.

Sulle panchine si ammucchia una folla di cinesi, i colonizzatori del quartiere, occupati a chiacchierare e soprattutto a sputare per terra. Pare che neanche Mao sia riuscito a far perdere questa brutta abitudine ai suoi connazionali.

Fin qui siamo nella normale descrizione turistico-folklorica. Impensabile sperare di parcheggiare davanti all'unico ingresso, quindi un periplo a piedi, anche parziale, del muretto esterno con la sua cancellata è obbligato. A questo punto si entra nell'horror.

Tutto il perimetro del nostro quadrilatero è marcato da bottiglie rotte, stracci abbandonati e soprattutto un alone di stratificazioni ammoniacali, con i conseguenti caratteristici miasmi. Soffocanti. Notti e notti che devono aver visto un intenso traffico, forse di ubriachi, o magari di semplici poveracci privi di impianti igienici che da qualche parte dovevano farla. E l'hanno fatta, in tanti, proprio su quel muretto. Metro dopo metro, non trascurando angoli e lampioni. E nessuno pulisce da anni, questo è certo.

Noi, naso tappato e passo baldanzoso, martedì 6 maggio entriamo nel magnifica salone rotondo che riempie la circonferenza dell'edificio. E' uno spazio molto particolare. Una superba altissima cupola e tutto intorno due gallerie sovrapposte di grande effetto scenografico. Insomma, una specie di Panteon ottocentesco, certo meno monumentale ma quasi altrettanto impressionante.

Qui è allestita la mostra "Futuro anteriore" (forse dal titolo dovremmo immaginare che è quello che ci aspetta domani, o al massimo dopodomani?). Opere di Roberto Fallani. Come da foto: corpi parzialmente eviscerati, teste attaccate a filamenti semiputrefatti, e altre simili piacevolezze plasmate in materiali indefinibili ma affascinanti, travolte da una grande, malata inquietudine. Il tutto sottolineato acusticamente da una pulsazione incessante che riempie lo spazio cavernoso dell'Acquario con un micidiale rombo a bassissima frequenza.

Bisogna ammetterlo, la mostra fa un certo effetto. Di sicuro, non rasserenante, come non lo è la situazione all'esterno; ma almeno questa è arte, e nell'arte c'è sempre consolazione dalla realtà.

Poi, per fortuna (perché anche il corpo, oltre allo spirito, ha le sue esigenze) abbiamo trovato ulteriore conforto nell'offerta di uno squisito vino bianco, il cui aroma e la cui freschezza ci hanno somministrato un graditissimo antidoto al macabro, ma, ripetiamo, affascinante disfacimento delle anatomie dell'artista.



PS. La mamma italiana perdona. Leggiamo che la mamma di Ciro Esposito dichiara: "Io nel mio cuore ho già perdonato". Un branco di delinquenti le ha quasi (ancora non sappiamo se del tutto o in parte) ammazzato il figlio per stupide questioni di pallone, e lei li perdona?

Ecco la ricetta sicura per deresponsabilizzarci tutti e non farci  crescere mai. Il perdono è un perfido distillato cattolico, e ancora di più italiano, che annulla la indispensabile certezza della pena. Anzi, ne rafforza l'incertezza.

E quindi a che serve comportarsi correttamente? Esempio minimo ma quotidiano: sì, qui c'è lo spazio handicappati, ma proviamoci lo stesso a parcheggiare, magari il vigile non passa, o se passa ha altro da pensare. E se arriva il titolare dello spazio? Beh, si arrangerà, qualche altro posto lo trova di sicuro. Se poi scatta la contravvenzione, c'è sempre la speranza del perdono (amnistia, dimenticanza delle autorità, errore di consegna...) e così via, dalla multa all'omicidio d'onore. O di sport.  



                                          

 

 
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Sconcerto al concerto

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

  5 maggio 2014

   SCONCERTO AL CONCERTO

 

Dopo i fasti imperiali della settimana scorsa (Natale di Roma, Panteon, SPQR, ecc.), questa settimana dobbiamo volare più basso e accontentarci.


Espaces Acoustiques. 29 aprile, Teatro Studio, Parco della Musica. Non ci era mai capitato che la parte non spettacolare di uno spettacolo fosse più spettacolare dello spettacolo.

Riceviamo un invito alla serata in omaggio di Pierre Jodlowski e Laurent Durupt nel festival "Suona Francese". Naturalmente andiamo. I due performano all'elettronica e alle percussioni, accompagnati da alcuni solisti della PMCE (l'eccellente Parco della Musica Contemporary Ensemble). Vengono eseguite "opere visivo-acustiche di autori francesi contemporanei, in grado di costruire delle gabbie percettive sonore all'interno dello spazio scenico, spesso complementari allo spazio bidimensionale dello schermo". Questi i paroloni del programma di sala, per dire che mentre quelli suonano c'è una proiezione.

Il primo brano è di una lunghezza sadica (35 minuti), con fragorose e ripetitive percussioni in scena mentre sullo schermo si avvicendano immagini a bassa risoluzione, e a bassissimo gusto: traffico automobilistico notturno, raccolta di frutti, distillazioni di sidro e mani di contadini che accarezzano mucche, molte mucche. Baggianate ad alta presunzione pseudointellettuale.

Secondo brano. E qui viene il bello. Il flautista Manuel Zurria dà di piglio ai suoi strumenti e a forza di soffiare e sbuffare (come il lupo cattivo dei tre porcellini) provoca un cortocircuito, e tutto si spegne: luci, proiezione e microfoni. Il brano in esecuzione era talmente incasinato che nessuno del pubblico fa le mostre di accorgersi dell'incidente. Nessuno dal palco dice niente, nessun tecnico appare, e così, piano piano comincia lo sconcerto al concerto.

E' stato molto divertente. Bisbigli in sala. Risatine. Frusciare di piedi. E poi, prima per iniziativa di qualche singolo coraggioso, poi come un fiume esondato, la gente ha cominciato a sgattaiolare verso le uscite abbandonando con consapevole viltà la sala. Che in pochi minuti è rimasta mezza vuota. Ma questo molto umano intermezzo ha creato un'atmosfera di cordialità fra i sopravvissuti. Tutta l'insofferenza per la musica (o la sua latitanza) è scomparsa, e l'evento è diventato una specie di riunione di amici. Anche perché, forse consapevolmente, o forse per l'imbarazzo, fino alla fine nessuno ha pensato a fare un annuncio, a riaccendere le luci in sala, a creare qualche diversivo. Niente, ma proprio per questo divertente.

Purtroppo il guasto è durato poco, e poi il programma è andato avanti con "Time & Money" di Meyer, a cui dobbiamo riconoscere una certa abilità nel costruire qualcosa che non avesse addosso solo lo straccio malconcio di una casualità volutamente irritante, ma una struttura riconoscibile anche se non necessariamente apprezzabile. Anche qui, proiezione di un insensato video in cui un certo numero di persone in mutande facevano movimenti non in sincrono con la musica né in linea con una qualsivoglia ipotesi di racconto.

Ci sarebbe piaciuto uscirne scandalizzati, irritati, magari anche offesi, e non solo annoiati, com'è purtroppo successo. Abbiamo voluto rimanere fino alla fine per vedere dove gli autori andavano a parare.

Da nessuna parte, è stata la conclusione in finale di serata.

                           

 

PS. Sarebbe meglio che non facessero uso della parola. Più volte in passato siamo arrivati a questa conclusione, a proposito di colleghi dello spettacolo.

Ecco, dopo il caso (tre Sanremi fa) del senile (6 gennaio 1938) cantante-predicatore, di cui non è necessario fare il nome, siamo costretti a ripeterci quest'anno in occasione del concerto del primo maggio.

Si tratta di un altro cantante, entrato nella storia della musica principalmente per le ascelle, improvvisatosi commentatore politico, un po' meno anziano (10 febbraio 1962) ma sempre troppo per fare il rocker maledetto in canottiera (a meno di essere Mick Jagger, e non è certo il suo caso).

Cari solisti (e qui è d'obbligo aggiungere anche il sublime Allevi) e cantanti, aprite bocca solo per ficcarci dentro uno strumento, oppure per emettere note.

Per parlare, è meglio lasciar fare a uno pratico.


                                        




 

 
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Natale di Roma

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

   28 aprile 2014

   NATALE DI ROMA

                       

Natale di Roma. Lunedì ventuno aprile. Attraverso il foro al centro della maestosa cupola del Pantheon, ogni anno a mezzogiorno preciso di questo fatidico giorno il sole scende a colpire il portone d'ingresso, illuminando come un riflettore da un milione di watt l'imperatore che entra nel suo tempio, e con questo gesto diventa Dio. Noi eravamo lì, e siamo idealmente ascesi su questo raggio di luce al più alto dei cieli, accolti nella gloria della Città Eterna.

Seh! Questo ci sarebbe piaciuto raccontare. Invece...


La parte astronomica è precisa; la descrizione dell'evento va modificata come segue: intanto ci siamo dovuti ricordare che c'è l'ora legale, quindi mezzogiorno in realtà è l'una. Arrivati al pronao del Panteon lo troviamo formicolante di turisti chiassosi, e anche questo è logico. Ci mettiamo pazienti in fila per entrare a vedere il famoso raggio.

Davanti al colonnato, oltre ai soliti centurioni con la spada di latta, cinque carrozzelle i cui cinque cavalli la mollano abbondantissima sul selciato che è in discesa verso l'ingresso. I volenterosi vetturini pensano di far bene rovesciandoci sopra grandi secchi d'acqua attinta alla fontana barocca lì davanti, e ci inondano le scarpe. Intanto un'altra carovana fende la folla strombazzando con esagerati claxon da autocorriera montati sulle carrozzelle. I pellegrini ridono: "Molto pitoresko!" In mezzo alla piazza una violoncellista amplificata suona a tutto volume la morte del cigno. Accovacciato alla base di una colonna, in mezzo ai piedi della gente, un fagotto subumano mendica con la solita cantilena: "Fame! Bambini!" mentre uno sciancato ci sguscia fra le gambe a bordo di un carrettino montato su cuscinetti a sfere. Terzo mondo? Quinto!

Finalmente riusciamo a entrare. Certo un silenzioso raccoglimento sarebbe meglio del brusio da stadio che serpeggia. Non siamo senatori SPQR, ma anche noi turisti come gli altri, quindi va bene così.

Il momento si avvicina, il raggio comincia a sfiorare la sua inquadratura finale. Siamo tutti attenti, e bisogna dire che nell'aria vibra una grandissima magia.

Proprio nel momento in cui il rispetto dell'evento vorrebbe il silenzio, dagli altoparlanti rimbomba una voce imperiosa: "La chiesa chiude. Si prega di uscire".  La chiesa chiude? Succede una sola volta in un anno, e quelli, probabilmente a causa di beghe sindacali o straordinari da pagare, ci cacciano! A stento riusciamo a rimanere fino al momento in cui il sole centra l'ingresso con precisione astrale. Ed è molto più emozionante di quanto ci aspettavamo.

Però, non siamo mica qui per divertirci! Il minuto successivo, tutti fuori come pecore e il portone sbarrato in un baleno. Non male per una città a vocazione turistica. E sembra che questa sia una simpatica abitudine del locale.

Ecco una notiziola dai giornali di qualche mese fa: "Roma - Il Pantheon chiude. Concerto interrotto dalla custode. Quattro minuti di troppo e il concerto al Pantheon viene bruscamente interrotto, perché il monumento chiude tassativamente alle 18. E' accaduto domenica 28 febbraio a Roma, dove il quintetto russo Bach Consort si apprestava a eseguire l'ultimo movimento di Vivaldi quando è stato interrotto dalla custode della struttura che ha fatto cenno di fermare la musica. «Vergognatevi!» hanno urlato le 500 persone che stavano ascoltando e filmando il concerto, quando la voce dall'altoparlante ha invitato tutti a uscire velocemente per la chiusura".

 

La festa non finisce qui. Pare che ci siano rievocazioni storiche per tutto il centro. Ci avviamo di buon passo, ma a Via dei Fori Imperiali vediamo solo ambulanti, caricaturisti, indiani in levitazione (con la tunica gialla con sotto il palo che li tiene seduti a mezz'aria) e quella che ormai è la rievocazione più arcaica di tutte, ancora più di Romolo e Remo: gli Inti Illimani. Non certo loro personalmente, ma i loro sostituti, i quali, implacabili con flauti andini, tamburi, ponchos e lunghe chiome corvine eseguono per la milionesima volta "El condor pasa".

Finalmente al sole del Circo Massimo li troviamo tutti: latini, etruschi, daci, galli indaffarati a rifare sul prato (arbitrariamente? Forse, ma che ce ne importa) cerimonie di ogni tipo. Sembra una di quelle ammucchiate un po' imprecise di comparse di Cinecittà. Truci traci con moderni Rayban sul naso, unni avvolti in pelli di lupo molto sintetiche, bionde etère con lo Swatch al polso. Si sentono molti "Da" e "Nyet". Sta a vedere che vengono davvero dalle province danubiane dell'impero (che adesso sarebbero Romania, Bulgaria, Serbia).

La colonna sonora è la solita, vagamente esotica che all'orecchio del pubblico evoca per definizione l'antichità.

L'organico: arpe, pifferi, tamburi e cori di vergini vestali.



                                         

 

 
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Il Negroni

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

   21 aprile 2014

   IL NEGRONI

                 

Sufi Ensemble. Sabato 12 alla Sala Petrassi, Parco della Musica. Pejman Tadayon, un simpatico musicista persiano, furbissimo conduttore della serata, ci ha fatto ascoltare la musica di casa sua, ci ha fatto cantare tutti, insieme a lui, "la ilaha illa allah", ci ha fatto guardare un gruppo di volenterose ma non proprio provette ballerine che facevano le dervisce ruotanti, e avrebbe voluto farci applaudire anche il coro Naghshbandi se non che quest'ultimo, per una ragione che non ha ritenuto di comunicarci, ha dato buca al concerto.

Ecco una circostanza in cui il Negroni è indispensabile per il suo garantito effetto rasserenante. Dopo un bicchiere, va bene tutto. Non che la faccenda non fosse gradevole, ma certo poco di più. I suonatori in bianco, come le ballerine, erano belli da vedere, forse anche bravi (non ne siamo del tutto sicuri), il tamburo illuminato dall'interno, suggestivo. Pejman, come già detto, astuto intrattenitore con il suo pittoresco accento ha tradotto per noi alcuni dei testi cantati, che, forse perché non nella lingua originale, risultavano banalissimamente pieni di cuori, amori e occhi assassini, come a Sanremo, insomma; mentre i ghirigori decorativi proiettati per accompagnare l'esecuzione ricordavano molto, troppo, i centrini della nonna.

Non mettiamo in discussione la validità della filosofia sufi, l'importanza della preghiera che si fa musica e della musica che si fa preghiera, o la capacità di raggiungere stati estatici durante queste pratiche artistiche; tanto meno il potere ipnotico di un insieme di suoni che gira intorno a un pedale fisso (in questo caso modernamente prodotto da una tastiera) senza limiti di durata né promesse di sviluppo. Il fatto è che noi poveri spettatori normali, viziati da Mozart e da Strawinskji, anche se ce la mettiamo tutta per essere politically and artistically correct, una serata come questa, davvero, se non ci fosse stato il Negroni...


Incontro con Maria Luisa Spaziani. La voglia di conoscere di persona l'ultima grande poetessa italiana, ormai novantenne: Maria Luisa Spaziani, ci ha fatti abboccare all'amo, lunedì 14 aprile, ore 16, all'Istituto Statale per i Beni Sonori e Audiovisivi di Roma, nuovo pomposo nome della Discoteca di Stato.

Saletta semivuota. Per forza, con questo orario scemo, aggravato dal consueto ritardo romanesco (mezz'ora), e vincolato da scadenza sindacale per chiusura locali (alle diciotto).

Arriva la signora Spaziani, con passo malfermo ma intelletto saldissimo. Le vengono presentate un paio di ragazze che reciteranno per noi, e lei le ammonisce: "Leggere una poesia, per un attore è un fatto di castità: bisogna mettere da parte ogni emozione". Geniale precetto, in seguito puntualmente disatteso dalle due.

L'organizzatore sul palco sbircia continuamente l'orologio mentre ognuno dei comprimari parla e parla, rubando tempo e spazio alla star (e a noi). Le ragazze recitano a implacabili intervalli, e tutti fanno finta di interessarsi dell'ospite, ma è solo apparenza, perché, dopo uno sbrigativo omaggio al di Lei riverito nome, passano subito a raccontare quanto spesso La frequentano, com'è privilegiato il loro rapporto con Lei, e quanto Lei tiene alla loro opinione.

Manca una regia (anche una presentazione è spettacolo), quindi la faccenda si trascina faticosa e dilettantesca. Comunque la Spaziani, da vera regina, appena le mosche cortigiane che le ronzano intorno si posano un attimo, apre bocca e dice qualcosa di intelligente. Nell'insieme riusciamo a racimolare bei pensieri e osservazioni puntuali.

Peccato avere sprecato buona parte del tempo disponibile. Fortunatamente il cervello tende a cancellare le impressioni negative e a salvare quelle buone. E allora, in fondo, anche di questo pomeriggio sgangherato riusciamo a portarci a casa un bel ricordo.

 

Ruderi e aerei. Venerdì 18, invitati dalla giornata scintillante, ci facciamo la prima archeogita della stagione. A Ostia Antica. La brezza fa frusciare i pini e la mentuccia stuzzica il naso. Sopra questa distesa di mattoni rossi e marmi consumati si abbassano con un rombo soffice le miracolose macchine volanti che vanno a posarsi all'aeroporto. Sono meravigliose anche viste da sotto (ma come fanno a non cadere?). Giocattoloni con i motori e le code dipinti di rosso e le ruote già fuori per la pista.

Sul decumano massimo di Ostia il selciato è segnato dalle cicatrici dei carri di duemila anni fa, i mosaici spuntano dall'erba e l'edera si arrampica su ogni muro. Tutto molto quotidiano, poco monumentale, ancora quasi vivo. Ci piace così.



                                           

 
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Il grande narciso

Post n°273 pubblicato il 13 Aprile 2014 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

     14 aprile 2014

    IL GRANDE NARCISO

 

E' Eugenio Scalfari, di cui siamo andati a festeggiare i novant'anni lunedì 7 aprile al Teatro Argentina. Evento preparato da una serie di articoli su La Repubblica, Il Venerdì, e tutti gli altri araldi baronali del regno di cui lui è re. Lunga fila fuori del teatro; una volta dentro e dopo tre quarti d'ora di baci abbracci e saluti di Veltroni e Sorrentino e Paola Fracci e Benigni ha inizio la cerimonia. Che, essendo il compleanno di un novantenne famoso ha le sue formalità e i suoi tempi. Sullo schermo si inseguono foto sue insieme a tutti, ma tutti davvero. Una galleria di chiunque abbia contato qualcosa nel secolo.

La faccenda è condotta da Antonio Gnoli; brani vari dai libri del festeggiato sono letti da Silvio Orlando, il cui microfono, tanto per non smentire l'efficienza nazionale, gracchia e sputazza un bel po' prima di stabilizzarsi (siamo all'Argentina, il primo teatro di Roma, e per un evento di una certa importanza; ma siamo anche in Italia). Cinque amici/collaboratori, dopo aver presentato garanzie di antiretorica e di antipatos, raccontano, ma leggendo, quindi con un bell'effetto imbalsamato, omaggi, aneddoti, ricordi sul filo di cinque argomenti: viaggio, conoscenza, persone, amicizie, sfide. Fra costoro brilla, si fa per dire, Alberto Asor Rosa, che con il suo parlare noiosissimo e sonnolento da il colpo di grazia al pubblico. Raccontando dell'amicizia fra Scalfari e Calvino cita dalle Lezioni Americane la parola "rapidità", e poi (ci viene ancora da ridere) piomba in una pausa talmente lunga da far temere un coma irreversibile.

E' chiaro che non ci aspettavamo la torta con dentro la ballerina, ma tempi un po' più teatrali forse sì, visto dove siamo. Per fortuna appena il protagonista sale sul palco possiamo finalmente apprezzarne lo spirito, la proprietà di linguaggio, la chiarezza di idee, e la prontezza (sempre saldo sul suo piedistallo di magnifico narciso, intendiamoci). Dall'alto del quale riferisce le telefonate di auguri del Presidente del Consiglio, del Papa, del Presidente della Repubblica che, ci racconta con civetteria palese e modestia malcelata, avrebbe voluto venire a salutarlo, ma lui ha preferito di no per evitare troppa emozione. Arguto e instancabile, come sono spesso i vegliardi quando hanno un pubblico e parlano della loro vita, pilota con timone saldo la nave dei festeggiamenti.

Ahimè, a un certo punto della rotta il magnifico vascello di capitan Scalfari incontra un pericolosissimo scoglio e finisce col naufragare come se al comando ci fosse uno Schettino qualsiasi. Succede che il saggio, distaccato, ironico, cinico giornalista a un certo punto annuncia che ci leggerà alcune sue poesie, perché, sì, in tarda età ha scoperto di essere anche poeta. Tira fuori un fascio di fogli e attacca. Ed ecco che l'acuto polemista, il dissacratore di uomini e idee, ci diventa un paroliere da Sanremo.

Versi pieni di spiagge, di mare, stelle, brezze, perfino angeli. Ma come, da novant'anni stiamo in reverente ammirazione di quelle mura mantenute inviolabili da uno stratega emerito; e senza preavviso, da dietro il ponte levatoio, fa capolino il menestrello!

Di colpo, al posto del pilastro di saggezza e ironia che conoscevamo, abbiamo visto un nonno un po' andato a cui i fogli tremavano in mano per un inizio di Parkinson; che a un certo punto si era persa l'ultima poesia e continuava a cercarla fra l'imbarazzo di molti. E quando l'ha trovata, ha anche voluto leggerla.

Incrociatore affondato da questo siluro senile. Peccato.


Accendere la luce. La parola d'ordine della conferenza stampa del Festival Internazionale di Villa Adriana, venerdì mattina. Basterebbe far scattare l'interruttore per indirizzare l'attenzione sugli innumerevoli coaguli di bellezza e d'arte che abbiamo dalle nostre parti e che lasciamo stupidamente al buio. E l'Italia diventerebbe all'improvviso un paese ricco, ammirato, ricercato, non dalle forze dell'ordine, tanto per cambiare, ma dal mondo. 

La cerimonia, presenti Zingaretti, Regina e Fuortes, è introdotta dall'Assessore alla Cultura del Lazio, Lidia Ravera, la quale, come sanno quelli che leggono, scrive bene, ma bisogna ascoltarla per rendersi conto che parla ancora meglio. Poche parole, quelle che servono (come rispose Mozart all'Elettore di Sassonia che lo rimproverava: "Troppe note, maestro!", "Quelle che servono, maestà") chiare e coi tempi giusti. E sempre con una minima, efficace notazione di colore. Nella fattispecie, la difficoltà di trovarla, questa Villa Adriana, una meraviglia che dovrebbe essere segnalata fin dall'arrivo all'aeroporto di Fiumicino, e invece, bisogna andare a cercarsi un viottolo che incrocia la Tiburtina alle porte di Tivoli: la direzione è quella. Segue un garbuglio di sensi unici, e poi, con l'aiuto di Sant'Indiana Jones si arriva, ma non si può fare a meno di chiedersi il perché di questo andazzo cialtrone, quasi omertoso. Comunque stupido.


 

                                         


 

 
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Impressionisti danesi

 

  IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

 7 aprile 2014

    IMPRESSIONISTI DANESI

          

Impressionisti danesi. Pensavamo di sapere tutto di questa città. Invece oggi, lunedì 31 marzo ci si materializza dal nulla il Museo Hendrik Christian Andersen grazie a un invito all'inaugurazione della mostra "Impressionisti danesi in Abruzzo". Il nostro stupore non ha più confini. Impressionisti danesi? E chi mai ne aveva sentito parlare. E in più, dopo aver scoperto la settimana scorsa l'esistenza della JAA, Japan Abruzzo Association, sta a vedere che adesso questa nostra gloriosa regione si gemella anche con la Danimarca.

Così è. La Fondazione Pescarabruzzo, insieme con la Reale Ambasciata di Danimarca, si è fatta prestare per la mostra lo studio, ora museo, del maestro Andersen, scultore norvegese della prima metà del novecento (niente a che fare con Hans Christian, quello delle favole), il quale, una volta scoperta Roma, come molti scandinavi ci aveva messo su casa e non se n'era più andato.

Sarà bene chiarire subito la ragione per cui secondo noi la scuola impressionista danese è sconosciuta. E' esposta al piano superiore, questa ragione, in quella che era l'abitazione dell'artista: una bella quantità di quadretti, quadroni e quadrucci: paesaggi montani, pastorelli, contadini e mucche al pascolo. Non ce n'è uno che meriti di entrare nella storia dell'arte. Neanche uno.

Invece villa Andersen, appena fuori Porta del Popolo, è splendida. Grande terrazza con gazebo al primo piano; e al terreno due enormi studi, uno per lavorare, l'altro per esporre le opere: gessi e bronzi immensi, con marcata preferenza per nerboruti maschioni, turgide poppe e cavalli impennati (vedi foto), che l'artista non riuscì mai a esporre ufficialmente, né, ricco, si curò di vendere.

Opere che forse non possiamo definire capolavori, ma sono grandi, ben fatte, molto accademiche e molto autoritarie. E che soprattutto ci guadagnano dal confronto con i connazionali scandinavi, i famosi impressionisti danesi in Abruzzo.


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Sacre melodie e porchetta. Tutta la giornata di mercoledì 2 è dedicata da Musicaimmagine e IISM a Giacomo Carissimi. Approdiamo in tarda mattinata al Pontificio Istituto di Musica Sacra, sede dell'incontro. Bella la Sala Accademica, con un grande organo in fondo; una volta tanto la temperatura è giusta e le sedie comode.

Certo gli argomenti del convegno sono davvero ultraspecialistici: "Le cantate su testi di Sebastiano Baldini" (apprendiamo, con maligno compiacimento, che talvolta i testi, sacri e non, erano definiti "ordinaria rimeria") o "Giovanni Battista Mocchi, sirena del paradiso", e altre simili preziosità. Ci si sente precari a volare a queste altezze.

Per fortuna, insieme alla notizia per noi inedita che Carissimi, originario di Marino nei Castelli Romani, oltre a oratori produceva anche ottimo vino che aveva l'abitudine di servire ben fresco ai suoi musici, arriva a un certo punto l'annuncio di uno spuntino a base di prodotti tipici della zona, offerto appunto dal comune di Marino. Questo ci permette di perdere quota e di scendere al nostro rassicurante livello abituale, cioè a terra. Porchetta, prosciutto e vino bianco. Ci sono perfino le ormai introvabili coppiette, striscioline di carne secca, salata e piccante: una leccornia.

I primi minuti di ripresa pomeridiana sono un po' sonnacchiosi, poi l'attenzione ritorna, anche se lentamente, malgrado la mancanza di verve di alcuni relatori. Ok, è vero che il loro mestiere è la ricerca, e non l'esposizione, però, dato che il bello di qualsiasi piatto è anche nella sua presentazione, prima di parlare sarebbe consigliabile, per chi ne ha bisogno, un breve esercizio di retorica, di dizione o (riducendo al minimo le pretese) almeno di gestione di microfono e proiettore.

Finale in gloria con l'intervento, come sempre brillante per intelligenza, di Claudio Strinati che conclude con una saporita descrizione dell'oratorio del SS Crocefisso e dei suoi affreschi (Pomarancio e colleghi minori) postazione, per lunghi anni, dell'attività di Carissimi.


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Una trovata anni '60. Giovedì 3 a Piazza Pasquino 70, "Art is Real - Una collezione impermanente". Siamo in un palazzetto alto e stretto, svuotato dei suoi inquilini, e in attesa del cantiere che probabilmente lo trasformerà in un B & B. Rimane aperto solo oggi come galleria d'arte provvisoria per tutti quelli che hanno voglia di arrampicarsi su fino al quinto piano. Sculturine, spennelate di colore, giochetti di luci. Chissà come mai stavolta le scale ci sembrano molto più ripide di cinquant'anni fa, le stanze più anguste, le opere d'arte parecchio meno interessanti e l'evento piuttosto noioso. Dev'essere cambiato qualcosa da allora, ma ci sfugge cosa.





 

 
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Pienoni e vuotoni

Post n°271 pubblicato il 31 Marzo 2014 da torossis

 

   

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

  31 marzo 2014

 PIENONI E VUOTONI


Riceviamo un invito alla chiesa di S. Andrea della Valle (quella della Tosca, ma stavolta Puccini non c'entra) per un concerto vocale e strumentale di Hirari Sato. Ciò che stiamo per raccontarvi ha del fantascientifico. Ne abbiamo viste di serate, ma questa è speciale.

Con la preparazione l'evento si esaurisce quasi prima di cominciare, ma vale comunque la pena di seguire il tutto. Hirari Sato è una bambina giapponese di quattordici anni, cieca dalla nascita. Accompagnata dalla madre, arriva, grassottella e intortata in un vestito di tulle rosa, si siede alla tastiera, fa qualche accordo e comincia a provare il microfono. La chiesa è enorme e gelida. Ci saranno una settantina di persone, mentre ce ne entrerebbero comode almeno duemila (vedi foto). E qui c'è da chiedersi il perché di un posto così grande per un evento così piccolo.

Il microfono naturalmente non funziona e il ritardo è già di mezz'ora. Intanto sono arrivati alcuni giapponesi che si omaggiano con inchini profondi, emettendo preoccupanti suoni di gola (che in realtà sono cortesi saluti). La povera bambina continua a provare, e finalmente la fonica pare che sia a posto.

Diamo il via al concerto? Neanche per idea; ha inizio la estenuante cerimonia dei discorsetti, prima in giapponese, poi tradotti, postillati da sbrodolature del tipo "gli occhi della bambina non vedono, ma quelli del suo cuore, sì", "la musica è la sua vita, e la sua vista". Chissà perché quando c'è di mezzo un handicap si va sempre nel melenso. Qualcuno legge una poesia orrendamente patetica; poi si manifesta l'organizzatrice della serata: l'Associazione Abruzzo - Giappone, o meglio, la JAA, Japan Abruzzo Association, il cui delegato alla musica è il Maestro Ciufoletti (non stiamo inventando niente). Pare che, primi al mondo, abbiano pubblicato in giapponese una guida dell'Abruzzo che sta avendo un enorme successo editoriale nella terra del Sol Levante. Inaspettato gemellaggio fra Majella e Fujiyama!

Il programma del concerto comprende brani di Whitney Houston, poi naturalmente l'Ave Maria di Schubert, ma anche una serie di successi pop giapponesi con titoli da menù sushi: "Sukiyaki", "Furusato", "Nada soso", tradotti con: "Camminerò guardando in alto", "L'amato luogo natio" e "Pianto disperato". Leggendo, le nostre innate diffidenze nei confronti del traduttore si fanno certezza. Come è possibile che i giapponesi siano così generosi di sfrenato cattivo gusto? Qui si tratta dell'incapacità, proprio del traduttore, di penetrare nell'anima della lingua di partenza, per trasportarla (questo vuol dire tradurre) scegliendo le parole meno ridicole e più giuste allo scopo di mantenere lo spirito del concetto, nella lingua di arrivo.

 Per amore di verità, sorvolando sull'accompagnamento alla tastiera, davvero precario, dobbiamo riconoscere che la voce della ragazzina è pregevole e anche troppo matura per la sua età.

Il che non ci impedisce di guadagnare l'uscita dopo il secondo brano portandoci dentro una domanda senza risposta: perché questo scempio, neanche giustificato dalla richiesta di un'offerta finanziaria per qualche nobile destinazione? Perché esporre una bambina, che ha già i suoi guai, a questa inopportuna esibizione? Va bene, potrebbe commentare un cinico, che, data la sua menomazione, neanche si sarà accorta della chiesa troppo grande e troppo vuota, e della gente che sgattaiolava via alla spicciolata...

Poi abbiamo saputo che questa è la settimana dei non vedenti, e che l'indomani la ciechina si sarebbe esibita davanti al Papa. Però la domanda ci è rimasta dentro; e la risposta? Non pervenuta.

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Sabato ore 17,  per la Stagione di Musica Antica organizzata dal Museo degli Strumenti Musicali con Santa Cecilia, i concerti grossi di Corelli trascritti per due clavicembali. Qui parliamo di buona, anzi buonissima musica, e in più dobbiamo riconoscere che le due clavicembaliste, Vera Alcalay e Angela Naccari, oltre ad avere dita agili e sicure, hanno entrambe bellissimi capelli castani, lunghi e lisci: uno spettacolo certamente più garbato di come doveva apparire ai suoi tempi il parruccone incipriato di Arcangelo.

Purtroppo la sala del museo è piccola e afosa (come sempre in questi casi, guai ad aprire una finestra, perché, come si sa, aria di filatura, aria di sepoltura, e l'età media del pubblico è piuttosto elevata), e in più non c'è una sedia libera. In compenso, a disposizione degli spettatori in eccesso, c'è nell'ingresso un magnifico schermo di almeno duemila pollici, con una visione limpidissima e luminosa, ma senza sonoro. Trattandosi di un concerto, questo ci è parso a dir poco inspiegabile.

Comunque, successo e pubblico soddisfatto, a conferma della bontà dell'iniziativa.

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Al contrabbasso Mark Dresser, al contrabbasso Daniele Roccato, il mio contrabbasso... e qui Paolo Damiani che avrebbe dovuto annunciare se stesso come terzo contrabbassista del concerto, ha preferito presentare il proprio strumento.

Siamo alla Sala Accademica di S. Cecilia per la domenica dei Percorsi Jazz 2014. Il concerto si intitola "Triple Bass", facendo il verso al nome dello strumento che in inglese è double bass. Tre i contrabbassi sul parco per una serie di improvvisazioni a uno, due, o tutti e tre insieme (vedi foto).

Un piatto per palati forti. Un bel gioco di pizzicati, arcate, manate, bastonate, pinzette sulle corde, ribattuti e trucchi elettrici vari. Squittii e barriti, cantatine in ottava, suoni imprevedibili, talvolta sgradevoli in sé, ma funzionali se inseriti nel gioco. Ci è particolarmente piaciuto un brano eseguito a solo da Roccato, basato sull'uso di armonici e corde vuote, impeccabile per agilità, inventiva e soprattutto (che su questo strumento è sempre un miracolo) intonazione.


                                          


 

 
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Il granchio di fiume

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

24 marzo 2014

  IL GRANCHIO DI FIUME

 

  Il titolo lo spieghiamo alla fine.


18 marzo, martedì sera. Si fa musica a casa Scelsi. Flauto solo: Annamaria Morini. Musiche di autori vari, fra cui il fu padrone di casa, Giacinto Scelsi. Compositore di musica contemporanea piuttosto noto anche per le sue stranezze. Dedito al misticismo orientale e allo zen, si dice che avesse una fissazione per il numero otto. Infatti, anche se morto il 9 agosto, la data che circola è invece l'8/8/88. Il suo sistema di comporre pare che consistesse nell'improvvisare, registrare su nastro quello che gli veniva, e affidarne la scrittura a collaboratori; tanto è vero che, subito dopo la sua morte, un paio di questi, Tosatti e Vlad, dichiararono che alcuni dei brani firmati da Scelsi erano in realtà opera loro.

Pettegolezzi di cui non ci importa niente. Della serata possiamo dire che dalle finestre della sala da musica c'è il più bel panorama del mondo: l'intera distesa del Foro Romano, illuminata per l'occasione da una magnifica luna piena. Dentro (tendine lilla con la rouche e divani gialli), meno suggestione e qualcosa di più simile al masochismo. Perché, già il flauto da solo risulta di faticosa assimilazione, a meno di trovarsi, in un pigro pomeriggio d'agosto, sulle rive del mare a contemplare qualche graziosa ninfa danzante. In sala, niente ninfe danzanti, e in più, per via del trattamento piuttosto estremo dello strumento, come usa nella contemporanea, siamo finiti vittime di un ansiogeno trapano, con frequenti punte di petulante pigolio. E non certo per colpa della solista che ci è sembrata ottima.


Venerdì 21 marzo. Conferenza stampa di presentazione del progetto "Suona francese". Tutti a Palazzo Farnese. Che è un bell'immobile. Un cielo/terra di circa dodicimila metri quadri, senza contare cantine, soffitte e giardino, nel centro di Roma, messo su da Sangallo, Michelangelo, & altri bravi artigiani, con affreschi, stucchi e marmi di buon livello. Insomma una cosina di lusso. E' dello stato italiano ma in affitto all'ambasciata di Francia (simbolico; pare si tratti di un euro l'anno), la quale ci ha radunati per raccontarci il programma di questa loro iniziativa, una serie di più di cento eventi, da aprile a luglio in varie città d'Italia. Un bel fatto, soprattutto in questo periodo di morte apparente.

Discorsi dell'ambasciatore e di altri funzionari, i quali, e non ce n'è uno che si salva, parlano tutti come l'ispettore Clouseau. Forse non bisognerebbe tanto prendere in giro gli stranieri che pronunciano male l'italiano, perché anche noi, quando andiamo all'estero...però questi sono personalità, studiosi, addetti culturali. Insomma, un po' di buona volontà e un livello linguisticamente più accurato ce lo saremmo aspettato.

Finita la "conferansa stompa", un rinfreschino e poi tutti a casa. Cioè, a spasso per il centro storico. La giornata è magnifica e la città splende.


Sabato 22, giornata del FAI. Apertura eccezionale di alcuni siti archeologici normalmente chiusi: il Teatro di Marcello, il Mausoleo e il Foro di Augusto. Naturalmente ci siamo precipitati: impossibile entrare se non avvilendosi in code interminabili. Mai avremmo immaginato che ci fossero a Roma tanti sfaccendati anziani (perché l'età media in questi eventi è piuttosto elevata) interessati all'archeologia.

Comunque, e qui finalmente arriviamo al nostro titolo, forse non avremo sfiorato capitelli o calpestato marmi pregiati, forse non avremo ammirato busti di imperatori o altari pagani, ma di sicuro ci siamo imbattuti in un documento particolare che domina la balaustra sovrastante i Fori Imperiali. Un poster bene illustrato che, tralasciando qualunque cenno alla storia di Roma, ci illumina su un argomento (presumiamo) di vivissimo interesse per un gran numero di turisti in transito: la presenza fra le rovine del granchio di fiume!

La bestiola, di abitudini  notturne e quindi non facile da vedere, a quanto dice il testo (che abbiamo fotografato sullo sfondo dei Mercati di Traiano), risalendo dal Tevere attraverso la Cloaca Massima, é venuta a stabilirsi fra i marmi e le fondamenta dei grandi monumenti e ci si è trovata così bene che ha messo su famiglia e ormai la colonia è diventata numerosa e, di sicuro, felice. Vai a immaginare a chi, oltre agli archeologi, avrebbero fatto comodo colonne e cornicioni crollati millecinquecento anni fa.



                                         



 

 
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Salvagente

Post n°268 pubblicato il 18 Marzo 2014 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

    17 marzo 2014

    SALVAGENTE


Siamo d'accordo sul fatto che autocitarsi è un po' sbrodolarsi addosso, però...

Siccome nel corso della settimana non c'è stato un solo evento che abbia stimolato le ghiandole velenifere del Cavalier Serpente, e siccome lui non vuole lasciare i suoi lettori senza una conferma  della sua esistenza in vita, abbiamo deciso di recuperare e usare come salvagente il primissimo uovo avvelenato deposto in questa covata ormai pluriennale.

E' roba di quasi quattro anni fa, e precisamente del 2 settembre 2010. E' passato tanto tempo, ma già i morsi del nostro erano letali.

Ci pare che l'uovo non sia andato a male. Eccolo:


        JAZZ, ABBIGLIAMENTO E BUONA EDUCAZIONE


Che dire? Non c'è dubbio che Gino Paoli sia l'autore di tre o quattro canzoni fra le più belle della nostra generazione.

Lo abbiamo verificato ancora una volta al suo "Un incontro in Jazz" del 25 agosto 2010 nel Festival "Odio l'Estate" a Roma. E certamente di livello altrettanto alto era l'accompagnamento: un formidabile quartetto composto da Danilo Rea piano, Flavio Boltro tromba, Rosario Bonaccorso contrabbasso e Roberto Gatto batteria, il meglio del jazz in Italia.

Bene, sulla qualità della musica niente da obiettare. Applausi.


E' sul modo in cui questa ottima pietanza ci è stata servita che abbiamo qualcosa da dire.

Il concerto di cui vi parliamo lo usiamo unicamente come esempio. Solo per generalizzare a tanti, troppi eventi jazz.


Non ci sembra giusto che la star della serata (come del resto qualunque accompagnatore) entri in scena con l'espressione di chi magari vorrebbe essere altrove, non accenni neanche un minimo saluto verso il pubblico, confabuli con i colleghi musicisti voltandoci la schiena, attacchi la sfilza delle canzoni senza una parola, una presentazione, un aneddoto, sempre con un atteggiamento di noia. Forse è timidezza, forse è la faccia di tutti i giorni, ma dal momento che uno sale sul palco, un minimo di obblighi ci sono: tra cui mettere su proprio una faccia di scena.

Certo, ci sono i rockettari violenti che sputano sul pubblico, o gli tirano le chitarre, ma è un comportamento prevedibile, anzi previsto, anzi addirittura pregustato, e soprattutto è viva azione scenica. Quello che invece stronca le esibizioni di molti jazzisti è proprio questa aria di distacco, di noia (snob?), di chissenefrega.

Ma perché? Come mai non hanno l'aria di divertirsi, visto che fanno una cosa che il resto della gente gli invidia? Che ci vuole a prepararsi una battuta, quattro movimenti coordinati, evitare le stupide pause in cui il bassista, mentre infila un qualche jack in qualche buco, chiede al pianista la tonalità del pezzo, perché alla gente non basta ascoltare; al concerto si è portata anche gli occhi e vuole usarli.


I salti di Lionel Hampton? E le camicie di Miles Davis?


A proposito: ma come si vestono i jazzisti! Non ci si può presentare con jeans sformati e sporchi, camiciole di brutti colori, magliette di quel tono indefinibile, ma con suggestioni di sporco, fra il marroncino, il viola scuro e il nero, soprattutto quando si hanno superato i sessant'anni, o gli ottanta chili, e madre natura, generosa con il talento musicale, non lo è stata altrettanto con la presenza.

Non diciamo che i componenti di un gruppo dovrebbero essere tutti in smoking (anche se ci piacerebbe - non erano eleganti quelli del Modern Jazz Quartet?), però un minimo di decenza, un pantalone con la piega, una giacca che copra i rotoli, le panze, i seni penduli degli anziani, forse, estrema audacia, perfino una cravatta. Oppure anche una follia di lustrini, ma scelti dentro un progetto di spettacolo, perché suonare è anche spettacolo. Sempre per il rispetto, a nostro parere dovuto al pubblico, che, lui sì può essere malvestito, ma la sua parte l'ha fatta perché ha pagato.


Insomma, stare su un palcoscenico a fare una cosa ben precisa, la musica, e di solito farla anche bene, non basta. Bisogna, assolutamente bisogna, dedicare un minimo pensiero a quello che ci si mette addosso. Proprio così: che il vestito racconti al pubblico che l'artista lo ha scelto dopo averci pensato, e anche parecchio, e non come se fosse sceso di casa a portare fuori la spazzatura.



                                              

 
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Interni d'Artista

Post n°267 pubblicato il 10 Marzo 2014 da torossis


  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

   10 marzo 2014

    INTERNI D'ARTISTA

            

Sono le 18 di lunedì 3 marzo. La Galleria Nazionale d'Arte Moderna inaugura una mostra intitolata "Interni d'Artista", che è la ricostruzione degli studi in cui lavoravano Balla, Capogrossi, Cavaliere, Ferrazzi, Mazzacurati, Morelli e Palizzi. Non sarebbe una grandissima idea. E' già stato fatto. La differenza è che la GNAM possiede, appesi ai muri e in magazzino, una tale quantità di quadri degli artisti riesumati, che nelle ricostruzioni, insieme alle sagome in bianco e nero dei pittori, c'è posto anche un bel po' delle loro opere, non fotografate ma vere.

L'effetto è carino e piace al pubblico, fatto di signore un po' imbalsamate, di anziani critici e di curatrici giovani, carine e stremate per il troppo prestare attenzione ai precedenti due della lista. La fauna tipica di queste manifestazioni. Si chiacchiera, ci si riconosce e si esita prima di uscire all'aperto dato che in questa fine di un inverno meteoropatico, ieri faceva caldo, ma oggi è un freddo birbone.

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Federico Secondo di Prussia, metà settecento. Quello che si dice un sovrano illuminato. Rimette a posto le finanze della sua nazione, introduce la coltivazione della patata e così salva dalla fame parecchi sudditi. Soffre di gotta, perché lui invece mangia pernici, ed è un po' guerrafondaio, il che si spiega perché è pur sempre prussiano.

Ma soprattutto ha due fissazioni: gli "Spilungoni" e il flauto. I primi sono i soldati della sua guardia personale, che lui vuole assolutamente sopra il metro e novanta, una specie di corazzieri; e siccome due secoli e mezzo fa, la gente alta, anche da quelle parti, non era facile da trovare, li compra dove può (allora le persone si compravano), scialacquando parte del bilancio militare. Per la musica basta sapere che sua maestà si piccava di essere un ottimo esecutore (e di ciò è impossibile avere conferma), e anche un valido compositore.

E questo ci porta all'evento di oggi, 6 marzo, al Goethe Institut, sede obbligata per un autore tedesco, e in più re. In gemellaggio con Santa Cecilia, l'istituto ci offre un concerto-saggio di allievi e professori che eseguono composizioni, di cui parecchie inedite, di Federico. Alcuni brani sono suonati su strumenti dell'epoca: traversiere, viola da gamba, tiorba; altri con gli equivalenti moderni: flauto di metallo, violoncello, clavicembalo. Tralasciando il livello non sempre professionale delle esecuzioni (siamo stati informati che per gli allievi si tratta di veri e propri esami, e quindi da ascoltare con benevolenza), è inevitabile il confronto tutto a sfavore degli strumenti antichi, meno sonori, meno precisi e soprattutto meno intonati dei loro successori. Per non parlare della sottile ma pervasiva noia ad ascoltare le scadenti regali melodie.

Insomma, a fine serata, e salvando la bontà dell'iniziativa didattica, ci è parso inevitabile arrivare a due granitiche certezze: la prima che quando un utensile, e fra questi possiamo senz'altro comprendere gli strumenti musicali, si estingue, ci sono sempre delle buone ragioni (e lasciamo da parte la nostalgia). E poi, che fortuna che Federico Secondo ha continuato a fare il re invece di dedicarsi alla musica!          

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Da quattordici anni, l'otto marzo, inaugura senza mimose la sua stagione di lavoro la Era Dea, un'associazione di artiste che in momenti di rispetto per la cultura come qualche anno fa, o in salita come adesso, è andata avanti per la strada dell'arte al femminile.

Ci hanno ospitati per la proiezione di un durissimo, bel video sull'amore violento: "La scelta - Amare da morire; vivere per amare" di Didi Frank, poi per una divertente e allo stesso tempo tosta interpretazione dello stupro, ma fra animali del Tevere, una nutria e un topone di chiavica (si può anche sorridere e nello stesso tempo raccontare un dramma). Alla fine siamo stati ben bene strigliati da un accorato e forte richiamo del presidente Rosa Di Brigida alla disattenzione che, spesso per colpa delle stesse donne, continua a penalizzare l'argomento. Una serata intensa.

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Santa Cecilia ha messo il turbo! Eravamo domenica 9 alla Sala Accademica per la inaugurazione del Festival Percorsi Jazz 2014 diretto da Paolo Damiani e Danilo Rea, con un  concerto assai interessante del quartetto di Claudio Leone, seguito dal suono di seta e velluto di Enrico Pieranunzi. Il quale, malgrado la sua aria di austero ecclesiastico anglicano, quando si presenta non fa mancare battute e sottigliezze molto divertenti e dello stesso velluto della sua musica. Un one-man show completo.

        In realtà, il turbo lo ha messo il nuovo direttore, Alfredo Santoloci. Basta fare i conti: in questo momento stando rullando a pieno regime il Festival Percorsi Jazz, di cui sopra, la serie dei concerti del sabato sera al MAXXI, la rassegna di concerti di musica antica al Museo Nazionale degli Strumenti Musicali, la Musica di Federico Secondo al Goethe Institut. Ci pare abbastanza, no?


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PS. Donna Forza Otto. Venerdì 7. Al Tempio di Adriano, consegna dei premi alle migliori imprese femminili del Lazio. Tanto di cappello. La nostra perplessità è sull'uso, come dire, un po' scemo dell'aggettivo. Iniziative rosa, lavoro rosa, quote anche. Ridicolo, non il concetto naturalmente, ma la sfumatura. Qualcuno ha mai pensato di definire Agnelli un industriale azzurro, o Totti un campione blu. O verde?



                                      

 
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Thr Burning Room

Post n°266 pubblicato il 02 Marzo 2014 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

   3 marzo 2014

    THE BURNING ROOM


Venerdì 21 febbraio. E' morto Gianni Borgna. Camera ardente alla Protomoteca del Campidoglio. Moltissimi i presenti: artisti, autorità, sindaci di Roma, in carica ed ex. Fuori, una giornata scintillante e un panorama da guida turistica: da una parte la piazza del Campidoglio con il Marco Aurelio a cavallo, dall'altra i ruderi del Foro Romano. Questo, se le finestre fossero state aperte. Invece, per rispetto dell'occasione, tutto chiuso da tendoni scuri. Quindi, niente vista e in più temperatura disumana e affollamento claustrofobico.

Prima di scappare fuori per un filo d'aria abbiamo ascoltato discorsi, bisogna dire, piuttosto sobri e anche commossi, con uno svolazzo che non ci saremmo aspettati da Veltroni, al quale è scappato un: "Adesso Gianni è lassù che parla con Pasolini per cercare di chiarire il mistero della sua morte".

Che fifa che mette la nera signora, eh? Perfino un intellettuale laico come si presenta Veltroni non può fare a meno di sparare questa bambinata consolatoria. Proprio non si riesce ad accettare l'idea che la vita finisce con assoluta banalità, casualità e ineluttabilità senza inventarci sopra qualcosa di: (a seconda dei casi, e di chi parla) magico, religioso, favoloso, infantile, rassicurante; mai semplicemente realistico.

Ah, prima di andare, facciamoci un sorrisetto. Il termine "camera ardente" lo abbiamo sentito tradotto in "the burning room" (da cui il nostro titolo) da un cicerone piuttosto scalcinato a un gruppo di altrettanto scalcinati turisti americani che gli chiedevano il perché di quella folla ai piedi della scalinata.


Sotto casa nostra c'è Francesco, parrucchiere per signora. Personaggio eclettico, ospita ogni tanto a bottega eventi particolari. Martedì 25 da lui, fra specchi e caschi per capelli, c'era Josefa Idem, accompagnata da Pino Strabioli a presentare il suo libro: "Partiamo dalla fine".

A prescindere dai pregi letterari dell'opera, che non conosciamo, ci siamo trovati di fronte una dignitosa, bella signora, mezza tedesca e mezza italiana, ancora sgomenta e incredula per quello che le era successo. La vicenda, che alcuni certo ricordano verteva su un modesto abuso edilizio, commesso dal suo geometra e da lei prontamente sanato pagando la relativa multa. Il fatto increscioso, anche se minimo, era purtroppo emerso, o forse era stato fatto emergere, subito dopo la sua nomina a ministro delle pari opportunità.

Ebbene, raccontava, la sua metà tedesca le aveva imposto le immediate dimissioni, mentre quella italiana era ancora lì a meravigliarsi di essere l'unico ministro dimissionario di tutta la legislatura, mentre tanti altri continuavano a papparsi la carica senza un minimo di vergogna.

E in più, e questo vale la pena di annotarlo, da atleta abituata a un'attenta amministrazione delle energie, non riusciva a non indignarsi per lo spreco della politica, dove, testuali parole: "Il trenta per cento del tuo potenziale lo dedichi al lavoro, l'altro settanta a guardarti dai colleghi".

                                                

Mercoledì 26 ai Santi Apostoli, inaugurazione del festival Girolamo Frescobaldi con una cerimonia religiosa e l'accensione sulla sua tomba, che è proprio lì a sinistra dell'altar maggiore, di una lampada dove arde olio offerto dagli organisti e cembalisti italiani, e con un breve concerto del SantiApostoliBrassQuartet, più un piccolo coro. Belle e di sublime noia le sue "Canzoni per sonare a quattro", in cui il pastoso insieme degli strumenti si mescola benissimo alle voci umane, e si spande arricchendosi nelle infinite riverberazioni rilanciate dalle volte della chiesa.

Che è magnificamente ricca, e grande, e splendente di innumerevoli lampadari, il cui scintillio si riflette nei marmi delle pareti e in quelli del pavimento. E nelle quattro piccole pozzanghere della condensa di trombe e tromboni che goccia a goccia si sono andate formando, anche un po' ambigue, fra i piedi dei quattro suonatori.

                                    

Museo dell'Alto Medioevo, all'Eur. Si parla di chiuderlo perché costa troppo e non rende niente. Ineccepibile, se si trattasse dell'investimento di un capitale privato. Ci siamo stati recentemente. Spazi immensi, architettura fascista, ma quella bella, monumentale. Marmi e scaloni, soffitti vertiginosi e grandi finestre sul verde. Vuoto.

Nelle due ore che abbiamo girato intorno alla sorprendente ricostruzione della domus di Porta Marina a Ostia: un bulimico fulgore di marmi e intarsi, non abbiamo incontrato un'anima. I custodi, più numerosi dei visitatori (ovvio, dopo quello che abbiamo detto) chiacchieravano fra loro e giocavano coi bambini portati da casa.

Certo, sarà antieconomico, però, in primo luogo è un investimento pubblico, e poi basterebbe un minimo di intelligente pubblicità per far sapere a tutti che lì c'è più roba, non diciamo del Louvre, ma, per esempio, del Getty Museum, molto più famoso e molto più frequentato.


                                      

 
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Sanremo duemilaquattordici

Post n°265 pubblicato il 24 Febbraio 2014 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

     24 febbraio 2014

     SANREMO DUEMILAQUATTORDICI


Eccoci qui, in postazione con bottiglie e bicchieri. Che Dio ce la mandi buona.


Martedì 18 - LA PARROCCHIA


Mondaini e Vianello, ovvero Littizzetto e Fazio, solita formula: lei monella sgangherata, lui professorino perbenino. Forte insistenza di lei su: "me la sto facendo addosso" in apertura; minaccia di rima sui nomi di Gualazzi e Baglioni; "merde!" alla Casta (che, siccome è francese...); e addosso alla povera Arisa, che di cognome fa Pippa, e quindi si offre indifesa alla battuta.

E poi, l'ennesimo tuffo minacciato da parte di due poveracci, veramente (o forse per finta, altrimenti come avrebbero fatto ad arrivare in cima al ponte luci?) disperati. Inevitabile rivedere Sordi, "Un americano a Roma", disoccupato in cima al Colosseo che minacciava lo stesso tuffo, e la sacrosanta voce fuori campo: "Bùttete!" E invece nessuno si butta mai, che sarebbero cinque minuti di spettacolo assicurato. Anzi, il ricatto rientra sempre. Peccato.

Dichiariamo la nostra riluttanza verso canzoni come "Creuza de ma", in cui il testo schiaccia la musica in una nenia ripetitiva (è un po' tutto il repertorio di De Andrè). Eppure il termine canzone dovrebbe garantire par condicio tra parole e musica. Potremmo suggerire (ma forse non è carino) il confronto con "Father and son" di Yusuf Islam, venuto poco dopo, in cui davvero i due elementi sono allo stesso livello, peraltro stratosferico, e questo forse fa la differenza.

Blandissima, parrocchiale trasgressione le stanghette di colori differenti sugli occhiali di Frankie Hi-nrg, insieme alle scarpotte, alla molletta al pantalone e alle mosse da bamboccione impacciato, in contrasto con il visibile tentativo di apparire rivoluzionario grazie al modernissimo concetto: "Hai voluto la bicicletta, pedala più in fretta".

Trionfo del riempitivo, sempre parrocchiale, con la scenetta fra Fazio e la Casta. Testo tirato con l'elastico sul solito gioco: lei bellissima e irraggiungibile (e senza un briciolo di umorismo), lui timido e imbranato, un po' in italiano e mezzo in francese, con mossette di repertorio e, nel vaso sul tavolo, il fiore finto che si ammoscia o si drizza a seconda delle battute. Applausini e velo pietoso sull'intonazione di Laetitia.

Pochi per fortuna, ma apparentemente inevitabili, i saluti con lo sguardo alzato verso le nuvole (dove sicuramente stanno dirigendo il coro degli angeli) a due illustri trapassati: Jannacci e Freak Antoni. Un po' di patetico ci sta sempre bene, in parrocchia.


Mercoledì 19 - IL PASSATO RITORNA


Prefestival di Pif. Continua l'andazzo parrocchiale con lo sketch floreale Pif - Casta basato su un argutissimo gioco di parole tra il ranuncolo e il foruncolo. Un momento autorale di grande livello. Un momento di vero horror lo viviamo invece con un primissimo piano del sudore di Grillo scalmanato (mentre qualcuno della folla si lamenta: "Quanto sputa questo!").

Apertura con sbrodolatura sociobuonista. Claudio Santamaria legge la lettera del maestro Manzi ai suoi allievi di quinta. Anche se troppo lunga, la lettera un suo significato ce l'ha. Che manca del tutto al banale e non necessario pistolotto di commento dell'attore. Bastava e avanzava la lettera. Mai improvvisarsi filosofi se non lo si è.

Il passato ritorna, e uno. Le mitiche Kessler sgambettano ancora molto elegantemente. Come con la Carrà ieri, stiamo oltre la settantina, eppure le gambe volano sciolte. Quello che con loro non ha mai decollato è l'accento (italiano, naturalmente) perché quello tedesco, bello forte, è ancora lì dopo cinquant'anni dichiarati di permanenza da noi.

Anche lui con un fortissimo accento, ma altoatesino, si presenta Armin Zoeggeler, campione italiano di slittino. La vera caricatura dello sportivo tonto. Non un lampo di ironia, che forse è chiedere troppo. Ma almeno di vaga consapevolezza. Niente: sta lì come un tronco di abete, testardo ripete la lezioncina fino in fondo, e poi se ne va.

Seguono aforismi di Fazio & Littizzetto. Ma non cinque o sei, non dieci o dodici. Di più, troppi. Rischio nausea per eccesso di offerta.

Il passato ritorna, e due. Franca Valeri. Novanta e passa, ma a parte l'atroce fatica di ascoltarla parlare, che classe, che tenuta di palcoscenico. Fa una delle sue famose scenette al telefono, di bachelite anni cinquanta. Trionfo.

Segue un momento che ci è sembrato ingiustificabile. Con la Valeri seduta ferma e zitta in scena, arriva la Littizzetto, che a sua volta fa un lungo monologo al telefono, ma stavolta a un cellulare di ultima generazione. Anche divertente, però ci viene da chiederci perché invitare una gran dama in età, e poi tenerla ferma e muta mentre una giovanetta (si fa per dire, ma al confronto...) la sbertuccia con lo stesso tipo di trovata, ma scioccamente più giovanile. Ci hanno detto che andava interpretata come un omaggio. A noi è sembrato cattivo gusto e niente di più.

Attenzione, arriva un altro sportivo: il pugile Clemente Russo. Quando i muscoloni sono solo tonti, va bene, ma quando, come lui, cercano di fare gli spiritosi, aiuto! E' che l'arguzia non è prevista nella dotazione di un atleta. Speriamo che non ci legga perché ci è sembrato piuttosto temibile.

Anche in questa puntata, per fortuna c'è l'ospite straniero, che rialza il livello. Rufus Wainwright. Canta benissimo, con una sensibilità straordinaria. Simpatico, anche se del tutto superfluo, il suo outing. Si capiva comunque.

Per completare il ritorno del passato (relativo, perché ha solo sessantadue anni) abbiamo avuto anche Baglioni sul quale, per prudenza, è meglio non dire niente di male.

In tutte le quattro ore del programma, neanche un saluto ai cari estinti, e questa è una buona cosa. L'altra buona cosa è che pare accertato che i due finti suicidi della prima serata siano dei disturbatori professionisti, finiti regolarmente al commissariato. Almeno ci rimane la consolante speranza che la maggior parte di chi ha problemi veri non va a fare il buffone a un varietà televisivo.


Giovedì 20 - LA STANCHEZZA


Da Pif, nel suo prefestival, siamo informati che i biglietti per le cinque serate costano 670 € in galleria, e 1.200 in platea. Non è una grande notizia, ma riferiamo e andiamo avanti.

Apre lo spettacolo un altro omaggio al caro estinto. Più che meritato. E' Claudio Abbado, rappresentato sul palco da Diego Matheuz che dirige l'Orchestra della Fenice con gesto che ci appare sorprendentemente privo di eleganza e di carisma. Dev'essere un inganno ottico per noi spettatori, perché lui è considerato un ottimo direttore della scuola per giovani patrocinata appunto dal commemorato. O forse sarà la stanchezza che comincia ancora prima di cominciare?

Peccato perché il tema della bellezza, scelto come guida del festival di quest'anno, è sempre stato caro ad Abbado, e, ci eravamo dimenticati di dirlo, ottimamente sostenuto ieri sera da Gian Antonio Stella con la semplice e nello stesso tempo fortissima annotazione che invece la bruttezza è, insieme al degrado, l'alleata perfetta delle mafie. Se tieni le persone lontane dal bello, non avranno mai la forza di reagire, mollare l'immondezza e andare a cercarlo, anche solo e semplicemente perché non sanno che esiste.

Stanco e scollato il monologo moraleggiante della Littizzetto. Sull'handicap, sull'accanimento contro le rughe, i segni dell'età, le tette mosce (testuale), argomento non proprio freschissimo. Lungo, lungo, lungo. Accompagnato da stanchi applausi e risatine di cortesia, con un guizzo, l'unico che ci è parso spontaneo del pubblico, su indovinate cosa? Ma un "vaffanculo" naturalmente!

Un momento di riscatto con la trovata degli A Cappella All Stars. Ben congegnata, buona musicalmente e divertente l'ammissione di Fazio che stavolta il disturbo lo aveva organizzato lui.

Bene Arbore, che è sempre garbato e piacevole. Poi anche lui sconfina nella festa di piazza: tutti in piedi a battere le mani a tempo, e via con "Come facette mammeta".  Nazionalpopolare.

Come lumache strisciamo in avanti in attesa del sonno che sentiamo arrivare. Ci sorbiamo il non antipatico astronauta Luca Parmitano, che però anche lui, dopo accorti (e nazionalpopolari) accenni culturali al Piccolo Principe, scivola alla fine sulla melassa dell'immensità del cosmo che scompare di fronte all'amore per la famiglia. La sua, naturalmente, ma anche quella di tutti gli altri italiani.

Amen.


Venerdì 21 - LA GARANZIA


La garanzia di ascoltarci un bel po' di canzoni sicuramente belle, perché filtrate e confermate dal tempo. Stasera non stiamo in pensiero: l'unica variante è l'interpretazione. Per il resto, tranquilli: il Club Tenco è responsabile della qualità.

Dopo un patetico siparietto, nella solita anteprima, di poveracci che fanno i sosia di Pavarotti e di Venditti, e ci credono, comincia lo spettacolo con big o meno big che provano, rischiando molto e non riuscendoci troppo spesso, a rifare brani famosi del passato.

Apre Mengoni, che va a riesumare "Io che amo solo te". Non ha la malinconia, e soprattutto la voce di Endrigo.

E da qui parte una bella sfilza di audaci sfide che vi risparmieremo, salvo comunicarvi la seguente nostra classifica: il migliore, Ron con "Cara" di Dalla; il peggiore Gualazzi con "Nel blu" di Modugno; la più bella schiena del festival, Simona Molinari, insieme a Rubino in "Non arrossire"; la più ricca bigiotteria, i chili di anelli, braccialetti, collane che bardano Renga in "Un giorno credi"; il momento più inquietante in "Il mare d'inverno", il duetto Ferreri - Haber con quest'ultimo in stato confusionale e camicia aperta da vecchio playboy su un decolletè grigio che sarebbe stato meglio celato sotto una cravatta ben stretta.

Impagabile momento di involontario (?) umorismo di Paoli, il quale cita tutti gli artisti della scuola genovese: Lauzi, Bindi, Tenco, De Andrè ma lascia fuori sé stesso. A Fazio che gli chiede perché, risponde: "Perché io sono ancora vivo".

Il che ci induce a proporre un paio di formazioni di riferimento fra gli storici autori delle storiche canzoni di questa serata speciale (così facciamo pubblica la nostra inclinazione verso lo spirito funerario): la squadra dei vivi e la squadra dei morti.

Della prima fanno parte (in ordine di esecuzione): De Gregori, Zucchero, Conte, Fossati, Bennato, Battiato, Paoli, Ruggeri, New Trolls, Daniele, Lolli. Della seconda: Endrigo, Dalla, Lauzi, Tenco, Bindi, Modugno, De André, Gaber, Mia Martini. Vincono i vivi per 11 a 9.

Per rimanere in tono, ecco a un certo punto l'annuncio del decesso in un incidente stradale di Francesco Di Giacomo, Banco del Mutuo Soccorso.

Basta. Chiudiamo qui l'argomento.


Passiamo all'esilarante numero di prestidigitazione in cui la perfida Littizzetto nel ruolo della cavia riesce a spiazzare quel salame in frak del mago Silvan, smontandogli ogni mossa, ogni comando, ogni agitare di bacchetta e trasformando la magia in sghignazzo. Brava!

E vale la pena di chiudere con Brignano e il suo omaggio ad Aldo Fabrizi. Uno di quei numeri del vecchio varietà, che molti ricordano con nostalgia, e della cui scomparsa, speriamo definitiva, noi invece ringraziamo il cielo. Il comico, in frak, canta accompagnato da smorfiette, occhiatacce e prevedibili spernacchiamenti del trombone; e conclude ogni ritornello con battute da vecchia provincia povera: puzza di piedi, mortacci tua, e simili.

R.I.P.


Sabato 22 - BASTA


Siamo in ritardo, quindi cominciamo precariamente l'ascolto dell'ultima serata alla radio di bordo mentre acceleriamo per essere a casa entro un'ora decente. La scenetta del matrimonio Fazio - Littizzetto celebrato da don Matteo probabilmente diverte da vedere, non altrettanto da ascoltare.

  Mentre invece, 30 chilometri di autostrada (qualche volta abbiamo superato il limite di velocità) con Crozza ci sono sembrati francamente troppi. Non c'è dubbio che qualche peperoncino Crozza riesce sempre a infilarlo nel pappone, ma se poi la porzione è troppo abbondante, va a finire che il tutto diventa indigesto. E ancora ci sfugge, ma forse lo capiremo in seguito, perché, nella sua imitazione, Renzi abbia la voce di Jerry Lewis.

Alle 23.09 sprofondiamo nel divano davanti alla TV con la Littizzetto in maniche a sbuffo che fa la picciona, poi c'è Rubino e la sfilata dei concorrenti.

Salamelecchi dei presentatori alla Cardinale che, civettando sulla propria bellezza, legge i premi della critica. Da quasi coetanei ci corre l'obbligo di esternare un nostro vetusto concetto di gestione del pericoloso binomio vecchiaia e bellezza.

La prima arriva implacabile (l'alternativa è peggio), l'altra altrettante implacabilmente se ne va. Chi ci si trova in mezzo deve avere la capacità di mettere a frutto quel poco o tanto di esperienza che è entrato in magazzino, e il buon senso di abbandonare, appena si rende conto che è arrivato il momento, qualsiasi bamboleggiamento e insistenza sul perduto fiore dell'involucro esterno.

Facile da dire, certo, e difficilissimo da mettere in pratica.


Scendiamo dall'olimpo della saggezza e occupiamoci, prima di chiudere, di Stromae, cantante spilungone, metà belga, ma con l'aria di stare meglio nell'altra metà, quella ruandese. Costui presenta la canzone di un ubriaco maleducato e infelice che tenta malamente di avvicinare una passante. Drammatizzazione di un buon brano, ma con linguacce e barcollamenti davvero un po' troppo pesanti e insistiti, e con un discutibile finale: lo sbronzo cade a terra fulminato dall'alcool. E quando è giù cosa fa? Accenna a rialzarsi e grida "Sanremo! Viva l'Italia!"

Si può essere più scemi? (o più furbacchioni?)


                                         



 

 
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Relax presanremese

Post n°264 pubblicato il 17 Febbraio 2014 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

     17 febbraio 2014

    RELAX PRESANREMESE


CURIOSITA'

Saremo anche impreparati, ma, dopo avere interrogato amici architetti e consultato libri, ci sono due domande alle quali dobbiamo ancora trovare una risposta.

Prima domanda: perché molte chiese di Roma, le cui facciate e gli interni sono stati abbondantemente imbarocchiti all'epoca del rinnovamento architettonico, hanno mantenuto i campanili romanici? Solo i campanili, perché tutto il resto, basta guardare, è ricoperto di marmi, stucchi, intonaci, le facciate coronate da statue. I campanili, no. Eccoli lì, tutti di mattoni, con le loro bifore e trifore: immutati.

Sono parecchi: S. Maria Maggiore, S. Eustachio, S, Croce in Gerusalemme, S. Maria in Trastevere, S. Sisto Vecchio, S. Crisogono, S. Silvestro (vedi foto) e tanti altri.

Seconda domanda: perché in molti palazzi di Roma, non terminati per ragioni che non sappiamo (finiti i soldi, morto il proprietario, caduta in disgrazia papalina la famiglia residente), il muro di facciata, e solo quello, nel punto in cui si è interrotta la costruzione, è rimasto grezzo? Eppure la casa è stata in seguito regolarmente abitata. Un esempio facile è Palazzo Incontro, a Via dei Prefetti (vedi foto). L'edificio è chiaramente a metà, basta guardare dove si trova il portone, ma per il resto non manca niente; eppure il muro di facciata è lì, con lo spigolo rimasto come lo hanno lasciato i muratori, dal primo piano al cornicione. E non è a dire che ci si possa aspettare una ripresa dei lavori al più presto: l'interruzione è di almeno quattro secoli fa. Quindi non è mancato il tempo. Ci dev'essere un'altra ragione.

Aspettiamo notizie.

SCORCI                      

Dove siamo? Non è facile indovinare. La prima foto uno può far finta di non riconoscerla per l'imbarazzo. La seconda, perché davvero non si capisce. Risposta: siamo a Roma. A sinistra potremmo pensare a un condominio un po' trascurato. Però, guardando meglio, in primo piano ecco un magnifico fiore di marmo; quello sullo sfondo è senza dubbio un capitello romano. Il resto è meno artistico: un carrello, due pezzi di tubo e parecchi sacchi di immondezza. E l'ingresso della Sovrintendenza ai Beni Culturali di Roma in una mattinata qualsiasi.

La casupola campestre con porticina, scaletta e bordura di ortica non è a Rocca Canterano, ma nel centro del centro di Roma, e precisamente a Via della Tribuna di Campitelli numero sei. Una catapecchia fuori, probabilmente una reggia dentro con vista stupefacente sul Teatro di Marcello e sul Portico di Ottavia.


SCEMENZE

Ma senza esagerare perché dobbiamo tenerci leggeri in preparazione dell'indigestione di Sanremo la prossima settimana.

Cavillosità ciclistica. Proposta di modifica al codice della strada: i ciclisti possono andare contromano ma solo su strade col limite di 30 all'ora (per le auto), se la carreggiata è larga almeno 4 metri, se la strada è vietata ai mezzi pesanti, e infine non deve esserci parcheggio sulla sinistra (in pratica o sapete a memoria misure e topografia, sennò multa!)

La Repubblica, 4/1/2014, pag. 19, a proposito dell'incidente di Schumacher: "... Schumacher sciava con il maggiordomo accanto". Ve l'immaginate Ambrogio, impeccabile in frak, con il vassoio dei drink in perfetto equilibrio.

Alleluia! Pare che finalmente sia stato nominato il nuovo sovrintendente di Pompei, E' un esimio professore di archeologia che si chiama Massimo Osanna. Alleluia! Capito l'accostamento?

Sempre Repubblica del 18/1/2014, pag.18, a proposito della suora di Rieti che accusava una colica e invece era incinta. Il referto del pronto soccorso dell'ospedale S. Camillo De Lellis, testuale: "sospetta gravidanza in suora".

Archeostupore. Recuperi archeologici: "...rinvenuti anche gli affreschi di una domus sottostante (e precedente)". Meraviglia del cronista nello scoprire, fra parentesi, che in uno scavo la parte di sotto è più vecchia di quella di sopra.


                                        

 

 
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Malati gravi

Post n°263 pubblicato il 10 Febbraio 2014 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

  10 febbraio 2014

   MALATI GRAVI


Collezionismo. Un argomento al quale sembra che nessuno possa rimanere indifferente: o non lo capisci, oppure ti fa ammalare. Domenica 2 febbraio all'Hotel Aran, settima edizione del Music Day di Roma, organizzato, bene, da Francesco Pozone. Ci raggiunge verso mezzogiorno di una infernale giornata di pioggia (la famosa bomba d'acqua che ha allagato mezza città, Tevere in piena e sobborghi impantanati) un nostro amico, dermatologo nel mondo reale, cacciatore di vinile in quel mitico universo di forsennati che costituisce il pubblico dell'evento. E' su di giri per l'occasione, ma distrutto di stanchezza per essere andato, sempre sotto l'infernale diluvio, alle sei di quello stesso mattino al mercato di Porta Portese in cerca di qualcosa di speciale. Malato grave, si definisce. Ma questo non gli impedisce di continuare la caccia a qualsiasi pezzo raro da aggiungere alla sua modesta (!) raccolta di venticinquemila dischi.

Il salone è gremito, molti gli stand. Ospiti vintage come Stelvio Cipriani. Si parla di compilation di vecchie colonne, si presenta "Discomania", catalogo-bibbia di settecento pagine destinate a gratificare le morbosità del vinilofilo. "Nuovo Ciao Amici", un periodico rinato dalle ceneri del passato festeggia Don Backy; e così via in una giornata proprio retrò.

A questo ritorno nel tempo ha davvero contribuito Tarantino. Per fortuna, invece di starsene tranquillo a Hollywood a fare i suoi film è venuto a ficcare il naso dentro la cassapanca della nonna dove stavano a fare la muffa colonne, temi, sonorità di qualche anno fa, e ha tirato fuori tutto. Benissimo per chi ha visto un bel revival di diritti SIAE da brani che ormai si davano per defunti. E anche per qualcun altro che vorrebbe essere nei suoi panni, e che può continuare a illudersi che non si passa mai di moda.

La manifestazione è anche un mercato in cui si trattano soprattutto vecchi LP, o forse potremmo dire le loro copertine, che all'epoca offrivano un perfetto spazio per invenzioni grafiche, fotografiche e pittoriche. C'erano addirittura quelle che si aprivano in tre. Trittici sull'altare del rock. Altra cosa dai miserelli CD di adesso. Ma i collezionisti, dentro le copertine ci vogliono anche i dischi. E non solo perché, già che ci sono, tanto vale tenerli. No, potrebbero essere proprio i dischi l'oggetto del desiderio. Però si tratta di supporti deperibili, e spesso deperiti, e allora neanche ci si pensa a metterli sul piatto e suonarli.

E' un po' una raccolta fantasma: il materiale sta piazzato su uno scaffale, e lo si tira giù di rado, per un minuto, per riguardarselo, per mostrarlo a qualche amico fidato o a qualche rivale da ingelosire. Forse il collezionista non ha nessun desiderio (e neanche il tempo. Abbiamo calcolato che per suonare venticinquemila LP ci vorrebbero dodicimilacinquecento ore, ovvero cinquecentoventi giorni, quasi due anni senza fermarsi mai) di ascoltare il suo amato, raro LP; gli basta sapere di averlo. Sta lì, al sicuro dentro la sua bella copertina. Non serve altro.

Da queste ultime righe forse si capirà che noi non siamo fra i forsennati, ci troviamo piuttosto dalla parte degli scettici. O meglio, non proprio scettici, tolleranti. Gli amici dall'altro lato della barricata, anche nel loro furore malato, speriamo che scuseranno la nostra insensibilità.


 

Basterebbe pensarci. Venerdì 7, alla libreria Koob (capito la trovata? book-koob) si presenta "Il sonno del reame" di Annarosa Mattei. Lo stanzone sotterraneo in cui ha luogo il fatto, raggiungibile in modo labirintico e anche un po' claustrofobico, ve lo andiamo a raccontare: piastrelle granulari verdoline a terra, quadri indescrivibili, anzi, sarebbe meglio dimenticabili, alle pareti, tavolo dei relatori miserando, un cannone zincato di aereazione che squarcia il soffitto. Particolari migliorabili, certo, ma con qualche spesa. E va bene, si sa, i soldi sono finiti. E' che questa cronaca è lo specchio di tanti altri pomeriggi del nostro gironzolare letterario, uguali, in stanzoni uguali; e ogni volta ritroviamo un'uguale imperdonabile disattenzione a un fatto.

L'illuminazione! L'elemento meno costoso, più intuitivo, più semplice da manipolare, e di effetto garantito. Bastano due faretti puntati sul tavolo; magari due piccoli abat-jour che facciano emergere dalle tenebre libri e occhiali; basta illuminare chi parla e lasciare nella penombra chi ascolta. Tanto più che la merce in vendita non è un'orata di cui è saggio riconoscere la freschezza dall'occhio, o un tessuto la cui trama potrebbe essere fallata. Si tratta di idee, sensazioni, emozioni. Roba che non richiede la vista, ma orecchio, cuore e un po' di immaginazione. E in più, sviando l'attenzione in questo modo, si risparmia sull'arredamento.

Invece, niente: sempre bianco, livido neon. Che proprio non dona né agli autori né ai lettori né, ancora meno all'opera.

Come detto in testa: basterebbe pensarci.

Del libro nulla possiamo dire perché non l'abbiamo letto, anche se le abili e affettuose parole dei relatori ce ne hanno fatto venire voglia. Abbiamo solo notato quanto sia fotogenico il De Chirico (uno dei suoi magici panorami urbani) che illustra la copertina. Ma questa è una osservazione frivola, mentre forse avremmo dovuto parlare con profondità dei contenuti. Un'altra volta.



PS. Credevamo di avere chiuso con l'argomento. Invece, di ritorno, pochi minuti fa, da un'altra presentazione ci ritroviamo a dover ripetere le stesse cose. Stavolta niente da dire sull'ambiente, il magnifico Museo Ebraico sotto il Tempio Maggiore. Salone strapieno; alle pareti preziose stoffe rituali e testimonianze dell'antica comunità di Roma; fra il pubblico rappresentanti di mondanità e cultura. Eppure le due poltrone e il tavolino riservati al presentato e al presentatore, Fabio Benzi e Paolo Mieli, anche questa volta erano smarriti in una mezza luce indistinguibile dal resto della sala, con il risultato di rendere appena visibili le espressioni e di dirottare l'attenzione perfino del più vivace fra i presenti. Eppure, anche qui, una lampada a stelo, due spottini, mica tanto di più...



                                         

 

 
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Protagonisti scomodi

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

    3 febbraio 2014

  PROTAGONISTI SCOMODI

                              

Venerdì 24. Ci vuole sprezzo del pericolo per sedersi come tre formichine a un tavolo sotto il grandioso Ercole di Canova. Siamo alla presentazione, nel salone del Mito, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, del libro di Fabio Benzi: "Arte in Italia tra le due guerre". I tre presentatori: la Signora Clarelli, direttrice della GNAM, il Filosofo Marramao, e il pericolo pubblico Claudio Strinati.

Chiamare pericolo pubblico un intellettuale garbato, posato e dalla sterminata cultura; perché? Spiegazione. Claudio Strinati è per sua (involontaria?) vocazione, un protagonista scomodo. Nel senso che quello che dice, come quello che scrive, è talmente bene articolato, esposto con così assoluta proprietà di termini, e soprattutto farcito di tanta limpida e naturale intelligenza che rischia di proiettare un'ombra annientatrice su chi gli sta intorno e sull'oggetto delle sue attenzioni. Lo abbiamo ascoltato analizzare il libro di Benzi in un'autopsia dei suoi flussi interni talmente colorita da rischiare alla fine di toglierci la voglia di leggerlo, questo libro, del quale ormai erano stati esposti scheletro, muscoli e linfa.

La signora Clarelli, che ha aperto l'incontro, ha schivato il confronto grazie a una presentazione tradizionale e cortese, da perfetta padrona di casa; il filosofo Marramao, che è venuto dopo, è invece rimasto, come un delfino spiaggiato, a boccheggiare senza ossigeno.

Insomma, un evento con tre protagonisti scomodi: la montagna di immenso, candido, vivo marmo sullo sfondo (vedi foto) e il sornione, seducente, vivo intelletto al tavolo.

Tranquilli. Il terzo protagonista, che poteva anche diventare la vittima del massacro: il libro, ce lo stiamo leggendo e possiamo assicurarvi che il confronto lo regge benissimo.


La sera stessa, al Parco della Musica, forte attesa per la talk opera "Conversazioni con Chomsky". Delusione, e protagonisti evanescenti. L'offerta comprendeva una serie di filmati muti e sonori, la presenza sul palco dello stesso Noam Chomsky, guru parlante in inglese tradotto in diretta, e l'esecuzione dal vivo della musica di Emanuele Casale. Solisti del Parco della Musica Contemporanea Ensemble diretti, come sempre benissimo, da Tonino Battista.

La faccenda è stata piuttosto noiosa. La musica (in prima assoluta, se non sbagliamo) ci è sembrata vecchiotta soprattutto per la scelta di sonorità provocatorie, sì, ma quarant'anni fa; oggi diventate di uso quotidiano, se non addirittura commemorativo (piripiri dei fiati, interminabili pedali degli archi, percussioni a scatafascio e fonemi sparati in (per noi) insensate raffiche da un soprano). Il povero Chomsky, presenza scenicamente poco carismatica, tutto il tempo sprofondato in una poltrona al buio, tranne quando veniva interrogato da un signore seduto lì accanto. A quel punto, occhio di bue sul filosofo, risposta alle domande, ovviamente in inglese; voce fioca sopraffatta da quella di una traduttrice simultanea. Con il risultato di ricreare quel fastidioso effetto delle interviste televisive in cui per i primi attimi ascoltiamo il vero personaggio, poi lo perdiamo nel sottofondo.

Non abbiamo la minima intenzione di contestare i concetti supercollaudati del nostro ospite. E' che se si mette su una serata, lo spettacolo si dovrebbe presentare con l'opportuno corredo di suoni, luci e ricchi cotillon, altrimenti, un buon libro a casa, e via. In sala, parecchie postazioni da bella addormentata, con quelle espressioni finte assorte che imparano a esibire anche nel sonno gli accorti frequentatori di questo tipo di eventi.

Ricapitolando: musica non protagonista per scadenza dei termini; spettacolo non protagonista per mancanza di vita; filosofo poco protagonista perché in ombra per troppa parte della serata.


All'uscita faceva un bel freddo, e questo ci ha offerto il pretesto per rimpiangere l'ormai perduto uso del cappello fra gli uomini. Perché quasi a tutti il cappello di taglio tradizionale dà un tono. Il che davvero non si può dire di quei bruttissimi berretti di lana a calza (vedi foto), molto amati dai ragazzi (i quali sono giovani e gli sta bene tutto, o comunque non importa come gli sta) e purtroppo anche dai vecchi (i quali sono vecchi e non gli sta bene quasi niente, a meno che non sia della più classica eleganza). Con l'aggravante che i colori di questo accessorio, non si sa perché, sono sempre mosci: sul grigiolino, marroncino o beigetto, e l'accostamento davvero non dona alle guance intirizzite, all'occhio lacrimoso e ai cernecchi che spuntano di là sotto. Saranno anche pratici, però...



                                           

 

 
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La Nera Signora

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

 27 gennaio 2014

   LA NERA SIGNORA

  

Allegro inventario cattolico apostolico romano.

Roma. Chiesa di S. Maria dell'Anima. Scolpiti nel marmo, intagliati nel legno, modellati in stucco o dipinti su tela: 2 teschi con tibie, 7 teschi semplici, 2 teschi alati dall'aria mansueta, 1 scheletro intero, 1 clessidra (tempus fugit); e per consolazione 21 putti belli grassocci.

S. Agostino: 3 teschi semplici, 2 teschi alati con riccioli ribelli, corona d'alloro e aria strafottente (vedi foto), 17 putti di taglia media.

S. Luigi dei Francesi: un teschio, due putti: una miseria. Meno male che hanno i tre Caravaggi.

S. Maria in Vallicella: né teschi né scheletri; in compenso una miriade di putti sparsi su soffitto, pareti, organi (nel senso musicale). Con il barocco che avanza, la morte indietreggia.

S. Agnese in Agone: putti 56: solo la testolina, alata e no; testolina più corpo, con o senza ali, in alto e bassorilievo. Nessun teschio scolpito, in compenso ce n'è uno vero in una teca di vetro: quello, appunto, di Sant'Agnese.

S. Salvatore in Lauro: poca roba, solo 6 putti. Però ci sono molti Padri Pii in giro per la chiesa a lui votata, insieme a reliquie dello stesso: stola, mantello, mezzi guanti e sangue delle stimmate.

S. Giovanni dei Fiorentini: un teschio, 8 putti e, rivestito d'argento, il piede di Maria Maddalena, in una cappellina al cui ingresso un cartello dice: "Il primo piede a essere entrato nel sepolcro di Cristo risorto".

S. Lorenzo in Damaso, la chiesa più buia di Roma: niente tranne un immenso scheletro alato che si libra fieramente tutto bianco su un fondo di marmo nerissimo. Impressionante.

S. Maria sopra Minerva: anche qui un bello scheletro che abbraccia l'ovale con il ritratto del caro estinto. Più quattro teschi semplici, tre teschi con tibie e ben sei tibie incrociate senza teschio. A questo punto una domanda anatomica: tutti diciamo che sono tibie, quelle due ossa incrociate; non è che invece sono femori?


La morte di Claudio Abbado, che molto ci addolora, è un'occasione per condividere un piccolo appunto su come di solito gli amici del defunto rendono pubblico il loro ricordo attraverso interviste, Facebook e articoli di giornale (anche se sappiamo bene che la scelta dei titoli e degli occhielli è spesso dei redattori, piuttosto che degli autori).

Prendiamo dalla pagina 29 di Repubblica del 21 gennaio tre brevi sommari in testa ad altrettanti articoli, tutti dedicati al grande direttore, che rappresentano il campionario standard dell'elogio funebre.

"Una bacchetta magica per tutte le emozioni, così fece diventare popolare anche Mahler". C'è un cronista che non teme i luoghi comuni (la "bacchetta" "magica" del direttore d'orchestra), non ha mai conosciuto l'illustre defunto e, su commissione della redazione, ne fa un ritratto genericamente elogiativo. Meritatissimo, aggiungiamo noi, soprattutto per essere riuscito, se ci è riuscito davvero, a rendere popolare quel noioso di Mahler.

"Sessant'anni insieme, con lui ho scoperto l'anima della musica". A parlare, quasi da vedovo, è Daniel Barenboim, direttore e pianista, che da amico e compagno di studi di Abbado ricorda la loro sintonia di pensiero e riconosce quanto la frequentazione del defunto abbia arricchito la sua vita. Gratitudine e commosso omaggio.

"Quella volta in cui lo convinsi a tornare alla Scala". E questo è il classico caso in cui (qui a scrivere è Lissner, sovrintendente e organizzatore) chi prende la penna lo fa per parlare principalmente di sé, usando la morte dell'illustre come un megafono per far saper al mondo quanto lui stesso è stato importante per l'altro, o semplicemente che lui c'era, o addirittura per lanciare un "ve l'avevo detto, io!".


PS. Abbiamo visto "La grande bellezza", e non diteci che non siamo in argomento, perché il film sguazza nella putrefazione di una città, di una società, soprattutto di un personaggio.

Che dire? E' un film girato bene, recitato bene, che ci ha irritato per il suo snobismo aggravato da un fellinismo eccessivo. Ossequiare il maestro, certo, ma insomma... C'è la nana, c'è la Saraghina, la bambinaccia, le suore e i preti, la incongrua giraffa fra i ruderi delle terme; c'è perfino (aggiornamento postfelliniano?) Venditti con il suo abituale incarnato color mogano.

Le inquadrature turistiche e gli arredamenti sono così insistiti e curati da rubare spazio alla storia che alla fine si sfilaccia anche per via del montaggio a mosaico. Snobissima pure la musica di Lele Marchitelli, con le sue sonorità vocali da depressione scandinava. Imperdonabile il finale: raccontare per simboli va bene, ma chiudere con la morale della storia spiegata al popolo attraverso il pistolotto del protagonista, davvero non ci sembra un gran che.

Certo, un regista che riesce a far recitare la Ferilli è un mago. Che però ci appare un po' troppo compiaciuto della sua stessa magia. Un altro tipico film italiano di visioni, impressioni, schizzi, purtroppo anche macchiette; grande bellezza (appunto) formale, ma manca quel robusto pilastro che regge tutto il cinema americano: una buona storia.


                                  


 
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Andreotti tira ancora

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

     20 gennaio 2014

     ANDREOTTI TIRA ANCORA


La St. Louis Music School ci ha invitati lunedì 13 a una master class di Gegè Telesforo: "Vocal Jazz Concept". Tanti ne abbiamo ascoltati di vocalisti jazz, e anche alle lezioni di parecchi professori abbiamo assistito, ma mai ci era capitato di trovare qualcuno come Gegè, capace di trasmettere nel corso di un'apparentemente semplice chiacchierata tante nozioni utili, addirittura indispensabili a chiunque ci voglia provare (a fare il vocalista), o comunque a fare jazz cantando, suonando, o anche solo ascoltando consapevolmente.

L'amico Telesforo, oltre a essere un polistrumentista, un mago delle corde vocali, un presentatore e promotore di talenti, è un bel signore dall'abbigliamento e i toni normali, capace di citare i nomi più famosi del jazz americano con cui ha collaborato senza darsi arie. Il suo incitamento agli studenti è "Segui la passione!". Nelle sue chiacchierate fa spesso riferimento allo scudo che gli ha permesso di difendersi dalle insidie della siringa durante la sua adolescenza in provincia, e di girare per Harlem di notte, unico bianco, senza beccarsi una coltellata. E' che sono di Foggia, ripete, e pare che questo fatto, oltre ad averlo aiutato in passato, sia tuttora un amuleto contro le cattiverie della vita. Senza andare troppo nel dettaglio, lo abbiamo visto chiamare al microfono ragazzi intimiditi, e in due battute dargli la chiave per sentirsi bene dentro, e anche, il che non guasta, funzionare meglio fuori. Avercene, di insegnanti così!


Martedì. Cambiamo genere. Dal vocalismo jazzato alla poliedricità politica. A Via delle Coppelle c'è Palazzo Baldassini (Sangallo il Giovane, 1518), un sobrio edificio di purissimo stile rinascimentale, cui cinque secoli di vita non hanno fatto alcun danno: integro nella sua assoluta eleganza. Non grande, con un meraviglioso cortile e una ancor più bella loggia che vi si affaccia. In questo luogo delle meraviglie ha sede l'Istituto Luigi Sturzo, che nel 2007 ha acquisito l'archivio personale di Giulio Andreotti (che oggi compirebbe 95 anni), composto da 3.500 faldoni dai titoli variegati e chiarificatori: Democrazia Cristiana, Vaticano, ma anche Divorzio, Cinema.

L'occasione: la presentazione di un curioso libretto contenente alcuni suoi discorsi, e però anche varie testimonianze di amici fuori del coro politico, Pippo Baudo: "Ironia e leggerezza in video", Totti: "Giallorosso come pochi". Ci aspettavamo la solita barbogia cerimonia istituzionale. Invece, folla da concerto rock. Nessuna possibilità di entrare nel salone della cerimonia, buttafuori alla porta e delirio di ogni genere di persone già mezz'ora prima dell'inizio.


Non stiamo esagerando. Abbiamo dovuto rinunciare a ogni tentativo e ce ne siamo andati, con il libretto in tasca (invece delle proverbiali pive nel proverbiale sacco) ma senza perderci d'animo. A Roma basta girare l'angolo e da una meraviglia si passa a un'altra. La Chiesa di S. Agostino è sì e no a cento metri. Facciata tirata su con i blocchi di travertino caduti dal Colosseo. C'è il suo bravo Caravaggio (la Madonna dei pellegrini), il suo bravissimo Raffaello (il profeta Isaia) e altre squisitezze. In più ci si può permettere il lusso di camminare su un pavimento di preziosi marmi tagliati a quadrati, losanghe, rombi, e soprattutto a fette. Ci spieghiamo: tutta la superficie è intarsiata di tondi di vario colore e provenienze: cipollino greco, rosso di Verona, serpentino del Peloponneso, bigio numidico, giallo tunisino; ma un occhio attento capisce subito cosa sono questi tondi: fette di colonna. All'epoca si usava. Una colonna romana caduta, magari spezzata e non più utile per sostenere un architrave, diventava un utilissimo salame di marmo. La si tagliava a fette uguali e, hoplà, ecco bell'e pronta una serie di tondi colorati da mescolare ad altre fette di altre colonne, e farci un bel pavimento.

Prima di uscire, un'occhiata la merita, nella cappella sinistra del transetto, la statua di un santo, Tommaso di Villanova che fa l'elemosina. Si tratta di una straordinaria opera d'arte al servizio di un messaggio efferato. Il santo, ammantato di sontuosi abiti, elegantissimo e visibilmente ricco, si sporge dalla sua nicchia sull'altare e fa cadere con gesto di condiscendenza una moneta nella mano protesa di una povera donna con due bambini (di sicuro figli della colpa) attaccati alle sottane, collocata fuori dalla nicchia e un gradino più in basso del santo, tanto per far risaltare la sua condizione di peccatrice, e quindi di meritatissima miseria. Ma, niente paura: purché rimanga sul gradino di sotto e non alzi la cresta, c'è la Chiesa che la soccorre. Il gruppo, davvero notevole per la sua perversa armonia, è attribuito a Ercole Ferrata.


Facebook, miniera inesauribile. C'è la rubrica "Roma sparita" che pubblica vecchie foto curiose della città. Oggi ne abbiamo vista una del 1942, in cui appaiono, di schiena, un prete con l'a-spersorio, un chierichetto con il secchiello e sullo sfondo, oltre il fossato dello zoo, due enormi orsi scarsamente interessati alla cerimonia. La didascalia: "Benedizione degli orsi per la festa di S. Antonio". E ci sono venute in mente le tante simili cerimonie di qualche anno fa, oggi, ci pare, un po' passate di moda: benedizione delle carrozzelle a S. Pietro, degli autobus al deposito ATAC, dei netturbini in divisa, degli scolaretti e dei campi sportivi, delle prime pietre e dei vari delle navi. C'era sempre un vescovo in servizio. Che faranno in questa epoca atea i benedicenti di professione?


                                        

 
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Pigrizia postnatalizia

Post n°259 pubblicato il 12 Gennaio 2014 da torossis

  IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

   13 gennaio 2014

    PIGRIZIA POSTNATALIZIA

                                                                                                   

Evidentemente il clima delle feste ancora fluttuante, sommato ai postumi da sovralimentazione ed eccessi etilici continua a produrre i suoi effetti. Fatto sta che uno di questi effetti, la pigrizia, aggiunto alla sollecitazione a cui da parecchi giorni ci sottopongono le pagine dei giornali che pubblicizzano la prossima uscita sul mercato di ben cinque CD di Ludovico Einaudi ci ha spinti, anziché scrivere qualcosa di nuovo, ad andare a frugare in archivio e a ripresentare un nostro vecchio uovo avvelenato del 24 settembre 2012, intitolato appunto: "Einaudi e gli spinelli". Eccolo.

                   

Parco della Musica di Roma (ricordiamoci che siamo andati indietro al 24/9/2012). La conferenza stampa di presentazione della Stagione Contemporanea è piuttosto moscia, non per il progetto, interessante, o per l'organizzazione, puntuale e corretta, ma perché i tre signori al tavolo: Fuortes, amministratore delegato; Regina, presidente; Pizzo, curatore; risultano incapaci di raggiungere la soglia della nostra attenzione. Atmosfera che precipita nel funereo con l'intervento di Einaudi che proprio non ha il dono dell'eloquenza. Le sue lente parole escono faticosamente picchiettate di ehm, e beh, e mah soporiferi (continuiamo a pensare che la maggioranza dei musicisti dovrebbe aprire bocca solo per ficcarci dentro uno strumento).


Si comincia il 22 settembre con "The Elements" del medesimo: prima assoluta. Il colpo d'occhio è magnifico. La sala dell'Auditorium è un'immensa caverna arcaica per i legni che la foderano tutta, moderna per i ponti sospesi dei fari e le curve fonodinamiche delle superfici. Scenografia essenziale ed elegantissima, con la sapiente esposizione di ogni percussione esistente, più qualcuna che ci è parsa inventata per l'occasione (più tardi ascolteremo anche lastre di metallo fatte vibrare nell'acqua). Cinque grandi sfere traslucide sospese, che vedremo salire e scendere lungo i cavi e illuminarsi di luci candide, e cinque solisti: quattro percussionisti della PMCE più Robert Lippok, pilota dell'elettronica. Tutti in nero, su fondo nero, con i loro strumenti scuri o incendiati di bagliori metallici sotto i fasci bianchissimi dei fari. Festosa l'atmosfera di attesa di un evento che sa già di buona riuscita. Poco a poco il teatro si riempie di un pubblico ben disposto. Schizzo di colore romanesco quando un burino si affaccia dalla galleria e a gola spiegata chiama un suo fratello in platea: "Aho! Poi se n'annamo a cena!" Non stiamo allo stadio, ma loro non lo sanno.


Buio in sala, scenografico riaccendersi graduale di poche luci bianche in tutto quel nero ed ecco che, mentre intuiamo i cinque compagni di avventura, neri su nero, ai loro posti sul fondo, entra Ludovico Einaudi (e qui ci sentiamo costretti a riproporre una nostra fissazione: l'abbigliamento di scena, inteso anche come rispetto per il pubblico) con addosso la solita giacchetta, la solita maglietta, i soliti pantaloni sformati. Naturalmente non abbiamo qui intenzione di sbertucciare chi non veste Armani. Vogliamo solo dire che quando uno sale sul palcoscenico ha prima di tutto l'obbligo (o almeno dovrebbe avere l'astuzia) di guardarsi allo specchio, magari con l'aiuto di un consulente, e poi adottare i provvedimenti del caso (abito, trucco e look in generale). Il maestro si avvia al gran coda, piazzato con la tastiera verso il pubblico, e la serata ha inizio.


Comodi nella nostra poltrona ci lasciamo andare all'ascolto, e a un certo punto, circa a metà della faccenda (che in tutto durerà un'ora e mezza) abbiamo la sensazione che ci manchi qualcosa. La musica va: molto rarefatta, molto ripetitiva, priva di filo melodico o di sviluppo armonico riconoscibile, anche se ricca di qualche bella sonorità, e noi a nostra volta riandiamo a un nostro momento in India, esattamente trentanove anni fa, sulle rive del Gange, al tramonto, mescolati a un gruppo di fricchettoni figli dei fiori ad ascoltare per ore e ore il sitar di un Ravi Shankar locale, convinti di essere a un passo dall'illuminazione. Per renderci poi conto che la scalata verso l'immenso non dipendeva dalla musica, ma dal forte quantitativo di spinelli (o peggio) consumato durante l'ascolto.

Ecco cosa ci manca in sala: un bello spinello! Peccato, perché dopo questa raggiunta consapevolezza ci siamo trovati ad affrontare altri tre quarti d'ora di suoni rarefatti, ripetitivi, privi di filo melodico e di sviluppo armonico; e senza nessun supporto psicotropo.


Applausi deliranti, standing ovation, richiesta di bis, concessi, e fuoruscita di pubblico felice.

E noi; che dire? Non vogliamo certo sostenere che se una composizione non contiene melodie, armonie e contrappunti, insomma una struttura articolata, non ci piace; anzi le novità, ma quelle vere che provano a scardinare il sistema, ci entusiasmano, ci irritano, ci seminano la testa di dubbi; comunque ci fanno pensare.

Anche la musica di Einaudi ci ha fatto pensare, ma solo agli spinelli sul Gange.



                                      

 
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Opinabili opinioni

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

   6 gennaio 2014

  OPINABILI OPINIONI

 

Ultimo giorno del 2013. Sera. Prima di andarcene a spasso per Via dei Fori Imperiali, abbiamo acceso RaiUno sul solito spettacolone di capodanno, in cui a un certo punto è apparso un Umberto Tozzi tristemente abbigliato in giubbotto di cuoio da motociclista, maglietta slabbrata, e imbarazzante pappagorgia da ultrasessantenne qual è. Lasciatecelo dire: l'unico che si può ancora e sempre permettere, anche se decrepito, qualsiasi look è Clint Eastwood. Tutti gli altri no, e soprattutto Tozzi, che sul palco (proprio dove uno dovrebbe essere al meglio) appariva decisamente fuori posto, e anche un bel po' sciatto.

Effetto simile ce lo ha fatto Grillo, presentatosi stavolta tra il ruffiano e il finto mansueto, cui abbiamo dedicato qualche minuto del suo faticoso (da seguire) e un po' risibile discorso di capodanno, concluso da un fumettistico "Che la forza sia con voi!" Addosso una camicia da boscaiolo del Wisconsin, anche questa scarsamente coerente con l'età e la situazione. Meglio, molto meglio Napolitano, vestito come si conviene, che potrebbe (ma non crediamo che vorrebbe) essere suo padre.

Sbirciatina a "L'attimo fuggente", film esemplare del perché gli americani sono più bravi di noi: sceneggiatura superba, recitazione stratosferica, anche dei ragazzini, riprese magnifiche, storia emozionante. Ci è venuto in mente, e ce ne scusiamo perché nelle Feste bisognerebbe essere buoni, come rappresentante nazionale dell'ottava musa ed eventuale campione da contrapporre, Rocco Papaleo, di cui in uno spot abbiamo visto annunciata la prossima uscita sugli schermi.

E poi siamo andati per Roma. Erano tutti in strada. Abbiamo visto spettacolini caserecci, modesti e dall'aria improvvisata, ma anche bei giochi di laser; e finalmente il conto alla rovescia in cifre luminose. Che sarebbe in sé una faccenda piuttosto banale. Ma quando la proiezione atterra sul Colosseo, ecco che qualunque banalità diventa speciale. Questo significa purtroppo che per mettere su qualcosa di memorabile in questa città non serve nessuno sforzo. E così, viziati come siamo, l'andazzo pressapochistico lo tiriamo avanti fin dai tempi di Numa Pompilio.

E' passata ormai la mezzanotte. Siamo a mercoledì primo gennaio duemilaquattordici. Tempo soleggiato e tiepidino. La notizia (una di quelle rassicuranti) è che il Conservatorio di Santa Cecilia, ora in mano all'energetico nuovo direttore, Alfredo Santoloci, si è inventato un evento straordinario: Il Museo che Suona. Succede che il magnifico Museo degli Strumenti Musicali, piazzato in uno dei più interessanti siti archeologici della città, il Palazzo Sessoriano, benissimo allestito e da noi frequentemente visitato, ogni volta in totale solitudine nelle sale deserte, oggi pomeriggio era tutto un ribollire di persone. Perché, con intelligente quanto semplice idea, Santoloci aveva organizzato, intanto un ingresso gratuito, e poi gruppi di musicisti del Conservatorio itineranti nel museo a suonare per il pubblico vecchi o vecchissimi strumenti che fino a quel momento erano rimasti chiusi nelle bacheche come mummie imbalsamate.

E qui permetteteci, dopo la sfilza delle precedenti, di esporre un'altra delle nostre opinabili opinioni. Un quadro, una statua, un reperto archeologico non hanno bisogno di niente altro che la loro stessa esistenza per trovare posto in un museo. Sono belli così come sono, e questo basta. Uno strumento (musicale, ma anche industriale) a cui viene tolta la sua funzione, che è produrre suono, o forza, sarà anche interessante come oggetto, ma se non lo si fa vivere diventa, appunto, una mummia imbalsamata.

3 gennaio, primo funerale dell'anno. L'amico Roberto Ciotti, chitarrista. Naturalmente alla Chiesa degli Artisti. Ogni funerale è lo specchio del mondo al quale apparteneva il defunto. In questo caso quello del blues. E allora, eccoci in mezzo a una folla sorprendente di anziani baffuti, barbuti, selvaggiamente capelluti, con code di cavallo, cappelloni e stivali. Naturalmente il tutto striminzito e scolorito dagli anni (tranne qualche caso di restauro, tentato ma non sempre riuscito), per cui le code di cavallo sono ridotte a due spaghetti, i baffoni e i barboni, un po' tarlati, sono candidi, o meglio gialli di nicotina (c'era fuori della chiesa una puzza di fumo esiziale) e i capelli, se e quando ci sono ancora, così radi che ci si vede attraverso. Molti occhi rossi e sguardi spenti, non più nascosti dai sexy Ray-Ban di ordinanza, ma quasi sottolineati da inequivocabili occhialetti da presbite.                                                  

Ultima opinabile opinione. Noi ritroviamo nei pittoreschi particolari di questa scena i simboli di un periodo eroico, che purtroppo ormai risulta degradato a semplice passato, senza più eroismo. Allora forse sarebbe meglio metterli in archivio, questi simboli di ieri, per evitare che oggi diventino patetici. O ci sbagliamo?



                                         

 

 
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