faria

del "buonismo"


Come promesso e come accennato nel messaggio n. 19, arrivo a dire quel che penso del termine buonismo e del suo uso.Di recente, da qualche anno, è stato introdotto un nuovo costume verbale, o moda che dir si voglia, che ha creato i due nuovi vocaboli buonismo e buonista. Per sgombrare subito il campo da ogni dubbio ed evitare qualunque ambiguità, dico subito che ritengo tali termini disgustosi. E vi dirò perché. Ma prima bisogna ancora sapere che tale magnifico dono, di due nuovi vocaboli, ci viene dal mondo della politica, che li utilizza per descrivere, ovviamente in maniera spregiativa, quella parte che assume dei comportamenti molto accomodanti con l’avversario, ma esclusivamente per perseguire un suo non dichiarato scopo od ottenere dei vantaggi per sé che a tutta prima non sono espliciti: come se dai nostri governanti ci fossimo mai aspettati altro che ipocrisia e inganno e sfruttamento delle idealità altrui. Ora, molti Italiani hanno sùbito recepito le due chicche nell’uso comune, ma stravolgendone il significato originario, a mio avviso. Entusiasti di queste due nuove parole pret-à-porter, che comodamente esimono dal dover produrre pensieri propri, hanno cominciato ad adoperarle a più non posso, affascinati anche dalle implicazioni riguardanti il loro significato, che esse portavano con sé. Essi pensano, usandoli, di emanciparsi e di esprimere delle belle idee moderne e spregiucate, magari anche anticonformiste, ma in realtà vengono soltanto usati a loro volta; un po’ come quelle macchine che portano in giro sulle fiancate le squillanti e colorate scritte pubblicitarie di qualche sponsor. In questo caso il messaggio sventolato ai quattro venti è quello che ci si deve vergognare di essere capaci, o di avere la volontà di amare le persone, le cose, le situazioni dell’esistenza, dando all’esistenza stessa un significato autentico ed una sostanza, di immedesimarsi in chi ci sta di fronte senza giudicarlo, di rinunciare ad una parte del proprio bene per quello altrui. Qualcuno potrebbe obiettare che in fin dei conti si tratti comunque di sistemi più sofisticati per soddisfare sempre il proprio ego, con l’orgoglio e la superiorità di chi si pone al servizio del prossimo. A questi ultimi dico che ben venga chi riesce a sublimare l’imprescindibile e ineludibile e affatto auspicabile necessità di affermazione personale, nella forma più alta di magnanimità, quella di chi si abbassa all’umiltà, perseguendola parallelamente all’eleganza di non farla pesare su chi è oggetto del proprio aiuto, magari in modo affatto anonimo. Ebbene io dico e sostengo che non ci si deve per nulla vegognare di tutto ciò, anzi si deve andarne fieri. Certo, l’eccellenza dà sempre fastidio ai mediocri, anche se non raggiunta (la fallibilità umana pone degli ostacoli che, ad un certo punto, non sono superabili) ma soltanto perseguita. Per questo chi non si sente abbastanza forte o determinato a percorrere la strada dell’eccellenza morale, ma si accontenta, per la propria vita, di miseri e miserabili obiettivi materiali o di un cinismo insulso o di un fatalismo senza speranza, non può far altro che disprezzare, per invidia e gelosia, chi tenta faticosamente, con una lotta titanica, impari, probabilmente destinata al fallimento ed alla sconfitta, di perseguire, anche in piccolo, nel proprio quotidiano, la virtù e la saggezza, il rispetto e l’amore di sé e del prossimo e della nostra realtà. Capisco che non viviamo più nell’epoca del libro Cuore e che i paroloni che ho snocciolato nelle poche frasi precedenti facciano sorridere; ma è proprio qui la sfida, nel tornare a pronunciare termini che definiscono concetti infinitamente più grandi della nostra umanità, purché abbiamo la consapevolezza che, pur non potendoli mai raggiungere, una vita spesa bene è quella spesa nel tentativo caparbio di raggiungerli. Nella nostra epoca di demistificazione, ci siamo abituati a screditare la bontà riducendola a luogo comune, a moda, a vezzo, a posa, a ipocrisia. Mi pare giunto il momento, visto che ormai ci siamo emancipati, nel quale ci dobbiamo riappropriare con orgoglio di questa nostra capacità umana di essere buoni. Altrimenti, esaurito il compito di smascherare chi voleva l’uomo buono solo per poterlo tenere a bada e manipolarlo per i propri scopi, ci ridurremo all’estremo opposto, ad essere manipolati da quei cialtroni che si comportano sempre nel modo più comodo, mai in quello più responsabile, e hanno interesse che siano sempre meno coloro che possono fare da termine di paragone antitetico al loro modo di essere. Questi cialtroni hanno interesse che noi si adoperi sempre più la parola “buonismo”, in modo che siano sempre maggiori il dubbio, l’incertezza, l’ansia di essere fuori del coro, poco alla moda, di essere inconsapevolmente falsi e pretestuosi, magari bacchettoni e secchioni, di chi ha la forza di seguire un’etica nel proprio pensare e agire quotidiano. Gli ignavi, i maliziosi dovrebbero invece vergognarsi perché, incapaci di innalzarsi, con la diffusione del disprezzo implicito nella parola buonismo, intendono abbassare gli altri al proprio livello. Gode dell’uso della parola chi ha interesse che il comportamento morale medio e la percezione di esso siano abbastanza bassi da giustificare, mimetizzare i propri comportamenti utilitaristi, se non addirittura criminali, chi vuole il regresso verso la legge della giungla, cioè verso un mondo improntato alla conflittualità, dove magari poter sfogare le proprie furie bestiali. Ma l’uomo può e deve ambire a ben altri traguardi, riconoscendo il giusto valore dei comportamenti.