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Osservatore Romano


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Pericolosamente onesto · Fede e giustizia nella tragica parabola del giudice Rosario Livatino ·18 giugno 2014   Rosario Livatino ha lasciato poche parole scritte al di fuori di quelle contenute negli atti giudiziari ma con la sua testimonianza di uomo e di giudice è una di quelle figure in grado non solo di parlare al cuore di chi lo incontra ma di infondere la stessa speranza certa che ha illuminato i giorni della sua breve vita terrena.
Lo scrive Ferdinando Cancelli ricordando che Livatino fu barbaramente assassinato dalla mafia agrigentina all'età di 37 anni mentre il 21 settembre del 1990 rientrava nella sua casa di Canicattì dopo una delle sue solite dure giornate di lavoro. Il giudice, «pericolosamente onesto» nella definizione che di lui diede il magistrato di Corte di Cassazione Lo Re pochi mesi dopo la sua uccisione, mostra con evidenza la forza che si può nascondere dietro le dimesse apparenze di una vita semplice e schiva, ordinata da profondi valori e da una rettitudine che non si ferma davanti alle minacce e ai tentativi di corruzione.Indicato da Papa Francesco nel discorso del 17 giugno al Consiglio Superiore della Magistratura come un «testimone esemplare» cui ispirarsi insieme a Vittorio Bachelet, figlio di quella Sicilia spesso trascurata dai riflettori, Rosario Livatino crebbe e si formò su una solidissima base culturale sia familiare che scolastica tanto da essere in grado, come ricordato dalla professoressa Abate sua docente liceale e sua biografa, di «tradurre i capolavori per appropriarsene, per riascoltare nella loro lingua il timbro delle voci eterne, per farsi uno stile». E lo stile del giudice Livatino, sostenuto da una fede limpida, lo porterà, come scrive un suo collega, ad essere «un magistrato non patinato, un uomo abituato a svolgere il suo lavoro lontano dal proscenio delle interviste e delle polemiche, calato nell'ordinarietà di un servizio così forte da suscitare l'allarme e la vendetta della bestialità mafiosa».