Triballadores

Pietro Ingrao


Scritti di Pietro Ingrao 1936 - 1954Share on FacebookShare on Facebook+1+1Share on TumblrShare on TumblrMI SONO MOLTO DIVERTITO - SCRITTI 1936 - 1954PDFStampaEmailINDICEMi sono molto divertitoScritti 1936 - 1954Scritti 1976 - 1997Scritti 1999 - 2003Trattamento di Jeli il pastoreTutte le paginePagina 2 di 5Scritti di Pietro Ingrao1936 - 1954 Cinema ColonnaAl ritorno della campagna, s'apriva la scuola di Cinematografia. V'entrai come chi faccia una valigia per domani e v'infili due libri, che forse gli serviranno e vorrà leggere, ma se la valigia è colma è tentato ad ogni attimo di metterli da canto; col peso di un autunno che non riusciva a comporsi su un ordine, e la mancanza di un ritmo, per occhi cresciuti da sempre ad uno sciogliersi sereno nel tempo delle campagne e del mare, era una fatica ed una pena che si scontava ora ad ora.I primi giorni non bastava la curiosità della cosa: gente che non si conosceva, ci si guardava da lontano, staccati, in sospetto l'uno dell'altro. C'erano cortili ampi che mi ricordavano l'infanzia con le partite di calcio, rischiate contro il volere di casa, le palle di stracci, un grosso violino che imparavo a suonare allora e mi portavo appresso nelle ore rubate per il gioco. Accanto, una scuola d'avviamento al lavoro, che mi inquietava con l'immagine precisa d'una vita che si svolgeva cosciente ed aveva i suoi tempi e le sue avventure.Io facevo passeggiate lunghissime ed ogni volta che ritornavo alla scuola mi pareva un tradire.Il principio fu duro. Ma forse quella prima asprezza liberò la voglia nei muscoli: il sentire che quella scorza d'ingrato poteva essere un'esperienza che giovasse, e molto. Ormai i giorni sonavano dentro, anche se sonavano amaro.Venivano i primi freddi, e si chiarivano naturalmente le amicizie. Il cinematografo si coloriva come materia, liberava dagli occhi ogni falso, ogni nebbia, ogni giro tortuoso. Chi stava a chiedersi se il cinematografo era un'arte; se il problema dell'industria avrebbe soffocato l'intelligenza? Nessuno doveva domandarselo. Noi scoprivamo un paese dove cadeva il giorno e la notte, dove la valle dava frutto e i monti s'aprivano agli occhi: un paese da vivere intero, goderlo e lavorarlo. Di quei mesi, l'incontro con l'opere antiche ma belle. Nascevano e morivano in un modo misterioso, generavano una musica che non si spiegava, ma si segnava meglio negli occhi, come un nevicare in un campo. Noi eravamo innamorati. Venne il Natale e fu una pausa giusta. Ognuno stette con una voglia forte di lavorare, ma senza fortuna.Pure si ritornò più calmi e freschi come dopo un sonno. Le amicizie si fecero più serrate, s'incontravano in un punto comune. Cominciarono i viaggi nella città alla ricerca dei films dimenticati: gennaio recava nei pomeriggi piogge pigre, e a me piaceva dormire.In quei giorni m'addormentavo nei cinematografi: su certe sedie d'angolo, il braccio poggiato su ringhiere di legno che portavano dipinti angeli verdi e celesti e grossi mazzi di fiori rossi. Le maschere vigilavano silenziose ed un amico mi svegliava al momento buono. Ricordo un cinematografo profondo, selciato, dai finestroni alti, appena bui, che rammentava gli androni della mia casa paterna; dove le piogge risonavano lunghe, marine, e al risveglio mi toccava una luce leggera, di latte, come un'alba nebbiosa. Le immagini sul rettangolo dello schermo nascevano accanto a quelle sottili dei sogni; imparavamo il valore delle sembianze, che il bianco e nero della fotografia formava e scioglieva in un cadere continuo, come un tempo: segni di un alfabeto, verdissimo. Io dinnanzi ad alcune comiche di Charlot spiegavo ad un amico che si trattava di un sogno ordinato, i termini essenziali fermati in apparenze e distesi in ritmo, con i modi più limpidi ed elementari.Amavamo la fantasia ed il racconto semplice; innamorati anche noi, come una volta gli strapaesani, del viennese Stroheim e dei suoi monaci, che sorgevano sulla terra le notti di tempesta, dei sobborghi sudici (custoditi da grandi mandorli) che la plebe agitava e gli aristocratici cattivi come il diavolo visitavano. Films muti ci nutrivano una passione per la favola che non tollerava fastidi di montaggi astrusi, impagli d'angolazioni, compilazioni sapienti, verosimiglianze. Si faceva chiaro per noi che il cinematografo voleva soprattutto immaginazione, e chi aveva fantasia sincera, estro genuino poteva giuocare sicuro.Della brigata era un compagno particolarmente ingordo che sgranocchiava sempre mostaccioli durissimi e spesso urlava; noi ci tenevamo lontani dalle sale ben messe per non correre rischi e ci buttavamo in periferia. Ciascuno di noi cercava figure vedute una volta, in qualche corsa rapida alla borgata: ragazze d'una diffidenza spinosa che rispondevano irto e pure dovevano essere docili.Ad ogni occasione di caccia tradiamo il film; ma il cinematografo non ci portava sempre fortuna. Erano allora attese crucciate su strade, che guardavano prati ed anfratti boschivi, dove ognuno passava - la donna col canestro del latte e l'uomo che sfilava silenzioso in bicicletta - ti scrutava fisso; fino a quando dalle nubi cominciava una pioggia quieta e infinita, e non restava che cacciarsi in un'osteria, col malumore negli occhi e il ricordo di quei prati nascenti.C'era modo più tardi d'avventurarsi per i quartieri sconosciuti incontro a piazze buie e sonore in cui riposare il respiro; vie dove ti cadevano intorno i bambini come nei paesi. Conoscemmo librai ambulanti, venditori di cioccolatini che improvvisavano farse nei crocicchi (chi si scorderà di quella ragazza che ci vendeva i numeri, gli occhi d'una malizia aperta e lustra, che decantavano sapienza); una bambina che faceva l'acrobata nell'osterie, perché la mamma stava male (si toglieva il gonnellino in un canto protetta da una zia rugosa, vestita d'un lungo camice marrone - e quando le demmo dei soldi ci fece un sorriso stanco di antica esperienza). La sera, di ritorno nei tram lenti e anziani, il cappello rideva di pioggia e il sonno cadeva sugli occhi leggero. Il mio cappello era gloriosissimo.Il nostro cinematografo s'ordinava così in una conoscenza naturale e semplice degli uomini, in un viaggio alla scoperta della nostra città e dei nostri luoghi. Cresceva da un amore alle cose, da un attento entusiasmo, da un cosciente abbandono al respiro del tempo, che ci sembrava allora e ci sembra ancora la sola misura essenziale di vita, la sola grande avventura possibile.Coi primi annunci della primavera amici partirono. Veniva un tempo nuovo e noi lo sentivamo: ora pensavamo sempre alle ragazze, ma come fosse sorta una distanza nuova, si fosse scoperto un cammino che non finiva mai, una lontananza.I cinematografi furono abbandonati. Io avevo ripreso le passeggiate lunghe da solo e la stagione mi sconvolgeva, segnandomi ad ogni passo, ad ogni giorno, ad ogni trascorrere d'ora; i grandi prati lungo le mura antiche spalancate nel cielo, ed il ritorno degli alberi sulle colline della città, stormenti.Dalla contemplazione di queste cose non so come accadesse che mi nasceva uno sgomento, un timore che tutto ciò venisse a mancare d'un tratto, mi sfuggisse via. Ritornavo, come da ragazzo, a pensieri di isole lontane e di paesi che la stagione mutava: la primavera nel mondo.Nel sangue s'originava un fervore e ci demmo tutti a lavorare ferocemente. Alla scuola ormai tacevano le discussioni, sopito ogni rancore, ogni diversità nel manifestarsi improvviso d'una fatica comune, d'una somiglianza di uomini dinnanzi al tempo e al lavoro.I giorni dell'inverno vivevano di quell'entusiasmo che ci avevano dato ed il ricordo cresceva la pena e il desiderio di non tradire, di non mancare un abbraccio, che avevamo pensato in sogno. Ogni errore diveniva fonte di sconforti grandi, che duravano, ed ogni invenzione colmava giorni e luoghi.Si faceva caldo: dal paese giungevano parenti in affari con le notizie del grano e della stagione. Noi cominciavamo a pensare ai cieli assordanti di cicale, alle stanze campestri abitate dal vento e dall'ombre degli alberi, alle grandi bevute rigati di sudore.Nell'attesa ci davamo a riflettere che il caldo era propizio al cinematografo. Ora ch'era chiusa la filza delle novità, ritornavano in campo con un colore pallido di vecchia bandiera le pellicole sdrucite e garibaldine.Aspettavamo la stagione al Colonna. Di tutti i cinema rozzi e nobili da pochi soldi il Colonna era l'antico, il primogenito. Simile ad un signore di razza, imprigionato dall'inverno nella città eguale, che nell'estate ritorni in villa e tiri fuori di nuovo servitù e carrozze, doppieri d'oro e stoffe di pregio; il Colonna, dopo la bassa cronaca dell'anno, nei mesi dell'estate annunziava i campioni più validi, le opere che si mangiavano gli anni: Charlot, Keaton, Douglas, i muti tedeschi e così via.Per tempi generazioni s'erano educate al Colonna ed era sempre sangue denso che veniva alle vene impoverite dai digiuni sofferti per il passato. Noi aspettavamo: come i contadini i quali, ad ogni venuta della stagione buona, temono che con il freddo il padrone sia morto nella città e la villa resti chiusa per sempre.Poi d'un tratto vi fu il buio, come una malattia. Fui occupato per molto; quando a poco a poco potetti riprendere i miei lavori più cari, la scuola era ormai chiusa, molti amici erano partiti, solo qualcuno ancora in giro con un'aria d'arrivederci all'anno venturo. Si tirava avanti in attesa della partenza.Ci aiutò il Colonna: il signore si ricordò della villa. Vi trovammo un vecchio "Douglas" e fu un entusiasmo. Ogni immagine ci ridava nella compiuta bellezza della favola tutti i pensieri dell'inverno, i cammini, le scoperte. Il pubblico gridava, batteva le mani e gridavamo anche noi. Ogni atto era puerile in noi: si conchiudeva la fatica di un anno, si spiegava giusta. Sullo schermo Douglas cavalcava a sciogliere dalla prigione il Re, i cavalli fumando toccavano le cime degli olmi; e appariva come il cinematografo era stato tradito, in tutti i punti.Vorremmo raccontarvi queste storie: storie in gran parte d'anni passati, segni d'un linguaggio che si veniva liberando e fu soffocato, dimenticato ogni giorno. Dovrà essere soltanto il cinematografo un pretesto all'ignoranza? Profitteremo del caldo e andremo in giro per quei nostri cinema, immaginando di trovarvi la ragazza che cerchiamo, e che dopo ci aspetti la cena su una terrazza aperta, alta sulla città. Forse a qualcuno verrà la voglia di fare come noi. "Italia letteraria", 26 luglio 1936