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IL NOSTRO COMPITO E' STUDIARE

Post n°9 pubblicato il 01 Agosto 2012 da tusiodejuliis

Esclusivo
"Il nostro compito è studiare"

di  Tusio del Juliis
20 May 2004

 

Dal nostro inviato a Baghdad


19 Maggio 2004 -- "Il nostro compito è di continuare solo a studiare come facevamo prima e nulla più". Risposta altrettanto lapidaria quanto forte e coraggiosa: "è questa la democrazia che ci state portando"? L'altro ieri mattina, alla facoltà di lingue dell'Università di Baghdad, c'erano i primi esami di fine anno degli studenti della lingua italiana; strano, ma tra embarghi, guerra, occupazione militare, impossibilità ad avere libri nuovi non hanno fiaccato la voglia di sapere degli studenti iracheni. Entrando all'Università, non potevo non ricordare le immagini di appena qualche tempo fa.

Eravamo a marzo di questo anno, entrando nell'aula magna dove avrei dovuto incontrare il Comitato della Lega Democratica dei Docenti dell'Università di Baghdad, di cui fa anche parte il carissimo amico Prof. Saad Altai. Mi ritrovai davanti alla porta almeno cinque o sei civili iracheni armati, mentre all'interno c'erano una ventina di soldati americani, con armamento da guerra e non più di dieci studenti, seppi poi si trattavano di rappresentanti degli studenti che venivano interrogati da tre graduati e tra questi una donna.

Motivo dell'incontro: la situazione studentesca, i loro bisogni e i loro problemi. Ma quando i primi studenti cominciarono a presentare la reale situazione della loro sicurezza personale interna ed esterna all'Università, si ritrovarono di fronte ad una risposta lapidaria: (la scena è stata rigorosamente e fortunosamente registrata). Sono più di trenta gli studenti che hanno scelto l'italiano e l'altro ieri sono stati tutti promossi.

Promozione meritata e meritevole e tutto, vi garantisco, senza avere una biblioteca, nè vocabolari a sufficienza: ecco perchè insieme alla ricostruzione della Biblioteca dell'Accademia di Belle Arti, andata completamenete bruciata, vogliamo aiutare con Reporter Associati anche loro. Poi, siamo usciti tutti assieme lungo i viali dell'Università dove il caldo cominciava a farsi sentire, 31 o 34 gradi, non saprei.

Eravamo tutti felici l'altro ieri, anche se la paura o la morte è dietro ad ogni angolo di strada o ad ogni incrocio. Fuori, oltre i cancelli del lungo viale, c'è Baghdad, con i suoi cento palazzi e alberghi protetti da fortini di cemento armato, da chilomatri di filo spinato, dai sacchi di terra e poi, ci sono loro: carrarmati, soldati, giornalisti con la pistola, body gard e "contractors"con i visi duri e i capelli impomatati, spie, terroristi, mercenari, ladri e poi ancora...Bush e bin_Laden. Da sempre e per sempre soci.

 
 
 

LA DEMOCRAZIA DEL BADR

Post n°8 pubblicato il 01 Agosto 2012 da tusiodejuliis

Irak: la democrazia del BADR

di  Tusio De Iuliis
25 Aug 2005

 

Dora, circondata da decine di check point di marca americana e della nuova polizia irachena, come Falluja, vive il suo dramma nella più taciuta omertà dei mezzi di informazione.

Dora, è lontana da Baghdad, mezz'ora circa di macchina la divide dal centro della città; la raggiungi passando tra la grande raffineria di "Al-Dora, "difesa" durante la guerra da sparuti gruppi di scudi umani, i poderosi "silos" di cereali, per inoltrarti subito dopo in un immenso e vasto mare di palme.

Dora é un quartiere di circa 400.000 abitanti, sconosciuta alla maggior parte dei giornalisti; è sede del grande collegio-scuola della Chiesa cattolica Caldea, una volta diretto da padre Joseph Habbi, membro dell'Accademia delle scienze dell'Iraq e docente presso l'università Cattolica di Roma, morto nel 2001 in territorio giordano, a causa di un dubbio incidente stradale sulla strada che da Baghdad conduce ad Amman. Fin dai primi giorni del "dopo guerra", Dora è stata sempre molto attiva nella resistenza all'occupazione americana.

Le notti sono scandite dalle esplosioni che si susseguono lungo la "linea veloce" che la percorre e la taglia in due; qui i mezzi blindati americani poche volte riescono a passare indenni e sistematicamente, ad ogni attentato, le "reazioni" della coalizione e del governo si abbattono indiscriminatamente e pesantemente sulla popolazione civile.

Così, in piena estate, tra i 55 e i 60 gradi all'ombra, anche le poche ore di erogazione di corrente elettrica (appena due), ad oltre due anni dalla "fine" della guerra, viene sistematicamente interrotta. Così vale per quella "salubre" acqua all'uranio impoverito che i bambini iracheni sono costretti a deglutire per non morire di sete.

Lo stesso accade per i telefoni. Isolati, maledettamente isolati, da Dio, dagli uomini e dal resto del mondo "civile". Operazioni sistematiche, che si rivelano di pura criminale ritorsione, per costringere in qualche modo la popolazione, alla "collaborazione" e alla delazione.

La democrazia cammina così a Baghdad, con i nuovi cartelloni pubblicitari che fanno capolino lungo la Al-Saddon , con l'invito a frequentare le nuove palestre "ARNOLD Classic GYM".

Qui a Dora come ad Adhamiya, come a Falluja o a Baquba, come a Samara, spiccano le attività di sedicenti militari governativi, che operano liberamente, senza nessun controllo, anzi in piena e sfacciata legalità occupante.

In realtà sono veri e propri squadroni della morte e del terrore; il braccio armato del "Consiglio della Rivoluzione Islamica" e della CIA, è riconoscibile sotto le insegne dell'Organizzazione "Badr", diretta da Abdel Aziz Al-Hakeem, fratello dell'Imam, Mohamed Baker Al-Hakeem, ucciso a Najaf..

Il "Consiglio della Rivoluzione Islamica", insieme al partito "Al-Dauaà", hanno dato vita alla "Lista dell'Alleanza Unita", di cui grande consigliere politico è l'Imam Al Sistani.

Nel frattempo la coalizione dei partiti dell'Alleanza sciita ha occupato tutti i posti e i ruoli chiave di comando, nell'esercito e nella polizia.

Nessun dubbio, Negroponte, ha fatto un buon lavoro.

Martedì 17 Maggio, forze "speciali" del Ministero dell'Interno provenienti da Hilla e il Battaglione Wolf, hanno arrestato 52 musulmani sunniti dal quartiere Al-Sha'ab che fà parte del comprensorio di Adhamiya. Dieci ore dopo, 13 cadaveri sono stati lasciati della zona.

I segni indicavano che erano stati torturati barbaramente prima di essere uccisi. Pochi giorni dopo, stessa sorte per un gruppo di 15 agricoltori residenti nella città di Al-Mada'in, a Sud-Est di Baghdad, venuti a Baghdad per vendere i loro prodotti.

La stessa squadra di forze di sicurezza, li ha arrestati e i loro corpi, dopo qualche ora, furono trovati in una discarica in località "Kasra Wa Atash" ad Est di Baghdad.

Avevano le mani legate, con evidenti segni di tortura sul corpo, fratture alle ossa e al cranio.

Erano solo agricoltori, religiosi e fedeli, modestissima e povera gente, nulla che potesse in qualche modo avvicinarli alla resistenza e tanto meno al terrorismo; ma erano sunniti e tanto basta oggi in Iraq per essere massacrati.

Quel giorno, la signora Um Sara (mia vicina di casa) era sola con sua figlia di 10 anni; puntando le armi alle tempie delle due donne, sei poliziotti alla ricerca di armi (che non trovarono), decisero di non andarsene a mani vuote: le derubarono del loro gigantesco e prezioso generatore di corrente.

Da quel momento, più di dieci famiglie restammo senza luce elettrica che ci veniva fornita gratuitamente.

Questi orrori accadono in ogni momento del giorno e della notte.

Le voci camminano più veloci delle pallottole per le strade di Dora e le notizie, si susseguono e si rincorrono, una più terribile dell'altra, di atrocità commesse o in atto, a Mikanik o Al-Boethea. Gli squadroni spadroneggiano, spalancano le porte delle case, arrestano e rubano ogni cosa, dai computer, denaro, gioielli: qualunque cosa che abbia un valore.

Gli arresti di giovani, per strada o nelle case, da parte degli uomini del Badr non si fermano; il 21 agosto, a Dora, alcuni ragazzi e uomini sunniti sono stati presi e fermati; le voci dicono che sono stati tutti uccisi.

Il giovane Wessam Abdul Ridha, venticinque anni, studente presso l'Accademia di Belle Arti, bravissimo calligrafo e fotografo, è stato anche lui ucciso, mentre con la sua macchina tornava a casa. Era uno splendido ragazzo colpevole di nulla.

L'ultima volta che ci vedemmo, fu a cena, nella sua casa. Ancora pochi giorni fa, circa settanta ragazzi, sono stati arrestati al mercato della frutta di Al-Dora, poi mostrati in televisione, come fossero stati dei pericolosi terroristi.

Insomma si solidifica la "democrazia" in questo Paese, costata 2.500.000 morti innocenti, la distruzione dell'Iraq, la sua divisione per il controllo e la rapina del suo petrolio, che ha riportato il Paese indietro di cent'anni.

Nessuno in occidente e nemmeno in Iraq, si sognerà mai di erigere monumenti a questi ragazzi, vittime del più devastante terrore che, fuori di qui, si chiama democrazia.

Tusio De Iuliis
t.deiuliis@reporterassociati.org

 
 
 

Festa di Matrimonio

Post n°7 pubblicato il 01 Agosto 2012 da tusiodejuliis

FESTA DI MATRIMONIO

di  Tusio de Juliis

16 May 2004

Dal nostro inviato a Baghdad

Baghdad, notte tra il 16 e il 17 Maggio 2004 -- Con un 737 con equipaggio interamente russo, alle 5.30 del mattino e con due ore di ritardo sulla partenza, finalmente decolliamo in direzione della nostra meta, l’Iraq. Circa settanta persone, ma stracolmo all’inverosimile, tanto che gli aiuti occupano oltre che il vano di carico dell’aereo, anche il resto dei posti rimasti liberi.

Tutti insieme: lo staff della CRI per il consueto cambio di addetti presso il loro ospedale; tre giornalisti ed un operatore di Sky News, una dottoressa del centro di ricerche archeologiche di Firenze. Poi donne, bambini ed accompagnatori iracheni che sono stati curati o hanno dovuto subire interventi, a Trieste nel centro clinico del Professor Andolina ed in altri centri specializzati del nostro paese.

Un tranquillo volo di poco più di quattro ore che non lasciava presagire minimamente, neppure al pessimista più incallito (e porta sfiga).. quali fossero i metodi e le procedure di atterraggio che i piloti usano per scendere sull’aeroporto di Baghdad.

 Una discesa a vite spaventosa, una vera caduta in verticale alla pista di atterraggio, che mi dicono serva ad evitare i rischi di trovarsi sotto la mira dei razzi della resistenza irachena, terrificante anche per i non principianti del volo, qualcuno vomita e forse qualcun altro si chiede in quale parte stiamo andando a schiantarci, il pilota russo è bravo. Risaltano le sue qualità di ex pilota da caccia dell’aviazione militare, come apprenderò all’arrivo. Scendiamo le scalette dell’aereo mentre alcuni elicotteri americani sfiorano la pista di decollo.

Pochi addetti nella sala degli arrivi, elegante e sobria quanto basta; nessun controllo di dogana e siamo subito fuori, sul piazzale dell’aeroporto di Baghdad. Il tempo di caricare sui camion tutto il materiale che i volontari della Croce Rossa portano a seguito, poi i pacchi del centro di ricerche archeologiche ed infine i nostri aiuti per l’ospedale di Falluja. Così come mi avevano dato il passaggio per Baghdad, la Croce Rossa mi offre un passaggio fino all’ospedale, dove da lì mi è più facile telefonare ai miei amici che devono venirmi a prendere.

Quando arrivo all’ospedale, trovo già Bahaa, un giovane studente della facoltà di lingue che mi aspetta per portarmi a casa sua e lungo il tragitto mi dice: guai se vai in albergo, sarai ospite della mia famiglia; non aggiungo altro mentre viaggiamo verso Dora, una lontana periferia di Baghdad, meglio conosciuta per la localizzazione della raffineria di petrolio difesa durante la guerra dagli scudi umani e per le scuole della chiesa caldea.

A casa arrivano già le prime telefonate degli iracheni amici e tra queste quella del prof. Saad Altai, preside della facoltà di Belle Arti dell’Università della capitale irachena, mentre Nur, una giovane studentessa della facoltà di lingue, mi invita ad matrimonio di una sua cugina. Non posso rifiutare e di lì a poco sono pronto malgrado sentissi le palpebre pesanti come macigni e qualche dolore postumo per l’avventuroso atterraggio di poche ore prima. Sarà Bahaa ad accompagnarmi alla festa di matrimonio.

E’ giovedì, Baghdad si scatena, con i suoi cento e cento matrimoni, una allegria legittima e contagiosa che sembra di grande contrasto in mezzo com’è ai mille tamburi ritmati dei continui scoppi delle armi. Un giovedì denso di paure. Un giovedì come tutti gli altri da più di un anno a questa parte. Il giorno dei matrimoni, il giovedì, per tradizione, è come se Baghdad si sollevasse di colpo dalla stanchezza di un embargo, di una guerra e di una occupazione senza pietà.

Dopo il matrimonio, tornando verso la casa dei miei amici ho pensato che in fondo avevo fatto bene ad accettare il loro invito, si è rivelato uno dei momenti più belli mai vissuti in questi anni di continui viaggi verso l’Iraq..

La strada della Sciarre Falastin nella zona di al-Adrissi è praticamente tagliata a metà da un filare lunghissimo di tavoli dove con altrettanta cura erano posati più di cinquanta grossi vassoi di “dlemia” coperti da leggeri fazzoletti colorati di carta per impedire alla polvere della sabbia del deserto di posarsi. Sui marciapiedi tutto intorno sono seduti gli invitati uomini alla festa, mentre le donne, (le amiche della sposa) e la sposa stessa si trovano tutte all’interno della casa o appena fuori il giardino.

Io non resisto e voglio vedere la sposa; senza nessuna esitazione tutti i parenti mi danno il loro assenso ed insieme allo zio, ci avviamo in casa. Lei è bellissima vestita di bianco, come le nostre spose, circondata da forte vociare delle amiche, delle sorelle e delle cugine. Tutte altrettanto belle e senza veli. Sono già le sette di sera, quando a un cenno dello sposo gli uomini si dirigono a passo deciso verso i tavoli imbanditi.

Sul marciapiede opposto un’orchestra di pochi elementi ma dai molti strumenti (ciascun musicista, infatti, ne riesce a suonare più di uno contemporaneamente) inizia a diffondere le note della musica tradizionale irachena. Una musica di festa, una musica da matrimonio. In breve anche noi invitati rimaniamo come inebriati dal ritmo travolgente e a tratti nervoso del “Ciobi”.

Ed è a questo punto che scopro l’altra Baghdad, l’altra faccia di una città che non conoscevo ancora: una città descritta dai giornalisti “embedded” che alloggiano al Palestine o alla Sheraton senza mai mettere il naso fuori per le strade della città, come una sorta di città degli orrori.

 La Baghdad che è sotto i miei occhi rivela un’anima a me ancora sconosciuta: la città della gioia temporanea, della musica e delle danze. Dove la vita è più forte di qualsiasi guerra e occupazione. Di qualsiasi crudeltà.

Ogni tanto la musica della orchestrina viene coperta dai rumori dei caccia e degli elicotteri Usa che ci sorvolano incessantemente. Tutti pensano che vadano in direzione di Karbala, mi dicono che proprio Karbala e Najaf sono sotto bombardamento in queste ore.

Ora mi accorgo che è tutta la strada a ballare, tutti gli abitanti che si affacciano dalle case e si godono lo spettacolo del matrimonio dall’alto dei loro terrazzini. Molti invitati sparano colpi in aria in segno di giubilo con le loro pistole A tratti lo strepitio delle armi è così intenso che potrebbe essere scambiato per quello di una battaglia vera. Qualcuno mi offre la sua una pistola per partecipare alla sparatoria generale, garbatamente rifiuto.

Sto assistendo senza saperlo, alla testimonianza più pacifica e più forte allo stesso tempo dell’anima più popolare della resistenza irachena contro il terrore imposto dagli eserciti di occupazione. La musica, i colpi in aria, la voce dell’anziano cantante, diventano in breve appelli gridati e cantati ritmicamente con la musica e dedicati alla città martire di Falluja; ai bambini, alle donne, agli uomini trucidati dentro le loro case e le moschee. Centinaia di cittadini, operai e casalinghe senza nessuna forzatura, nè atteggiamenti “militanti” o di odio. Una festa di matrimonio che diventa una serata di gioia della resistenza e per la resistenza.

Ho sonno, è già notte quando torno a casa dei miei amici, porto con me la certezza di aver visto, sentito e vissuto qualcosa che altri non vedranno mai. O che nemmeno non vogliono sentire e vedere peggio ancora testimoniare.

 

Tusio de Juliis

t.dejuliis@reporterassociati.org  

 
 
 

FALLUJA

Post n°6 pubblicato il 10 Marzo 2012 da tusiodejuliis

FALLUJA

di  Tusio de Juliis
21 May 2004

Dal nostro inviato in Iraq

Questa mattina ci siamo svegliati presto, quasi le sei e mezza, per le otto e mezza era in programma appuntamento con la Signora Kamar al-Ajaby (Luna) - irachena di origine italiana - coordinatrice dei volontari della Mezza Luna Rossa di Baghdad. Nei giorni precedenti assieme a Luna abbiamo provato a valutare se esistevano le condizioni per un viaggio a Karbala o a Najaf. Niente, nessuna possibilità. Questa mattina ancora scontri. Niente, dobbiamo rinunciare. Bahaa, esce quasi subito per trovare un taxi ed un camioncino per portare con noi anche quattro pacchi per oltre 150 kg. di matite, colori, penne ecc. che avevo depositato qui, a casa mia a Baghdad, durante l' ultima missione. Alle otto e mezza trovo Luna che sta preparando i documenti necessari a un viaggio che, sorprendentemente, ci porterà fino a Falluja.

Carichiamo i pacchi portati da casa, gli apparecchi per aerosol, gli sfignomanometri, latte in polvere, biberon e ciucci, oltre 300 termometri insieme a qualche apparecchio per il controllo del diabete. Il resto, rimane qui, soprattutto gli antibiotici, in attesa che ci sia il via libera per Karbala e Najaf, dove in questo momento sicuramente ce n’è una necessità maggiore. Passiamo a casa di Luna a prendere lo scatolone con i peluche e via finalmente in direzione di Falluja.

Appena fuori Baghdad, veniamo rallentati da una lunga fila di cingolati americani che vanno nella nostra direzione. Ormai stiamo sull' autostrada, la stessa che si prende per andare verso Amman (circa 1000 chilometri). A meno di cento metri sulla destra dell'autostrada oltrepassiamo le famigerate carceri di Abu Khraib. Un luogo questo che non ha bisogno di dettagli; il concentrato peggiore della disumanità, della stupidità e della volgare raffinatezza della perversione umana. Davanti vi sostano un centinaio di macchine e tantissime persone. C'e chi è convinto che gli orrori che succedevano all' interno sono sporadici casi della malattia mentale di qualche soldatino americano; c'è chi invece sostiene l'esistenza di una direttiva governativa. La realtà è ben diversa. E' la cultura dell' americano che ormai viaggia sulla falsa riga dell' uomo superiore, ma è soprattutto la convinzione di larghi settori dell' economia e della politica americana ad essere convinta che sopra ogni cosa e al di sopra di ogni altro interesse vi sia quello della supremazia ad ogni costo per il mantenimento del proprio benessere. Non ci resta che sperare nell'intelligenza e nelle capacità dell'altra America !

Oltrepassiamo Abu Khraib e poco dopo usciamo dall'autostrada per immetterci sulla strada per Falluja. Tutto sembra molto tranquillo, al di sotto di un cavalcavia c'è il primo chek point dei soldati iracheni; i soldati americani sono sparsi un pò intorno, ma sono fuori dal perimetro della città, questi sono gli accordi con la resistenza. Una lunga fila di macchine e camion, e appena le guardie si accorgono della nostra presenza, sganciano un pezzo di filo spinato e ci lasciano passare risparmiandoci la lunga attesa dei controlli.

Siamo entrati a Falluja. Percorriamo un diritto e lunghissimo viale fino alla sede della Mezza Luna. I negozi sono aperti e c'è parecchia gente in giro, si cominciano ad intravedere i primi effetti dei venti giorni di assedio ma soprattutto degli “eroici” bombardamenti difensivi della “valorosa” aviazione americana. Molte le case ridotte a colabrodo dalle sventagliate di mitra dei carrarmati, altre colpite dai missili, sono completamente distrutte.

Ed ecco che incontriamo la prima moschea, dove donne e bambini vi avevano trovato rifugio, qui gli eroici soldati americani hanno vomitato con particolare accanimento tutta la loro viltà e forza distruttrice. Almeno sette sono state le Moschee colpite, circa mille i morti e duemila i feriti: un crimine senza precedenti. Quando siamo arrivati alla sede della Mezza Luna Rossa, c'erano dirigenti e volontari. Non mi aspettavo una tale accoglienza e appena sanno che siamo italiani, ho visto i loro volti aprirsi e ringraziarci con un affetto tutto particolare. Abbiamo scaricato tutto il nostro materiale e abbiamo aperto i pacchi: Apparecchi per areosol - circa 300 termometri - biberon e ciucci, ecc.: la loro gratitudine sembrava non finire mai. Caricato su di una macchina, il grande scatolone dei peluche, riprendiamo il grande viale, attraversiamo un piccolo ponte in ferro e ci godiamo per qualche secondo il colore verde-azzurro dell' Eufrate.

L'Ospedale Centrale di Falluja, è appena oltre il grande fiume; entriamo, diritti verso l' ufficio del direttore, che ci riceve con grande cortesia. Noi lo invitiamo a venire con noi a consegnare i peluche insieme, accetta immediatamente e così, seguiti da infermieri e medici andiamo verso il reparto pediatrico; passa un infermiere con una maglia azzurra, quella della nostra nazionale di calcio con tanto di stemma sul petto. Il dott. Ablel al-Jebar, questo il nome del direttore, ci esprime tutta la sua amicizia e gratitudine, insieme a quella dei cittadini di Falluja. Con altre parole si esprime riguardo alla politica del nostro governo.

Sono tantissimi i bambini ricoverati e a tutti, uno per uno, consegniamo un piccolo peluche, pare nulla, ma vi posso garantire che l’effetto sui bambini è persino superiore a quello di un medicinale.Non si esce mai bene da queste visite, perchè si è più carichi, consapevoli che c'è bisogno di fare di più, tanto, tanto di più. Mentre risaliamo in macchina, i nuovi amici della Mezza Luna ci invitano a pranzo, non potevamo dire di no, anche perchè erano ormai passate oltre tre ore e avevamo proprio una gran fame. Sicuramente, se si vuol gustare il miglior Kebab di tutta l' Iraq e del Medioriente,

bisogna venire qui a Falluja, la città martire, la città che ha imposto agli americani di restare lontani, la città che non può aver riconosciuti funerali di Stato; tra questa gente che “pare esprimano” lo stesso pianto delle nostre madri; loro, che hanno visto morire centinaia di migliaia dei loro figli senza poter fare nulla.

Loro, costretti ogni giorno al dolore più grande che si possa mai vivere: vedere assassini e sadici spadroneggiare dentro i loro rifugi cingolati. Tornando a Baghdad pensiamo alla necessità di restare ancora di più accanto a questo popolo martoriato, di invitare le associazioni umanitarie a rientrare in Iraq (casomai con un simbolo che le distingua e le renda ben riconoscibili), perchè non passi tra gli iracheni l' idea falsa del “volontariato umanitario degli occupanti” e degli “eserciti di pace”.

Tusio de Juliis
t.dejuliis@reporterassociati.org

 
 
 

Francavilla

Post n°4 pubblicato il 27 Ottobre 2011 da tusiodejuliis

 
 
 
 
 

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