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Rimini si racconta

Notizie da una città

 

 

1719, la chiesa dei Gesuiti

Post n°21 pubblicato il 13 Marzo 2019 da ilrimino

Lo storico Giuseppe Pecci (1891-1969) in "Notizie e pettegolezzi romagnoli del Settecento" (Imola, 1928), presenta numerose lettere di Girolamo Fabbri Ganganelli (1749-1779), pronipote di papa Clemente XIV. Il 19 giugno 1773, egli scrive da Roma all'abate riminese Giovanni Antonio Battarra: "Il mondo Gesuitico credo che ormai sia moribondo, il suo giudizio finale e la eterna condanna non deve tardar molto a farsi sentire". Infatti, il 21 luglio il papa sottoscrive il breve "Ad perpetuam rei memoriam", con cui si sopprime la Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola nel 1534 ed approvata da Paolo II il 27 settembre 1540.
Ignazio era passato per Rimini poco più che trentenne nel marzo 1523. Alessandro Tingoli, a nome della Magistratura cittadina, nel 1554 gli scrive con la richiesta di far venire a Rimini la sua Compagnia. Nel 1610 il nobile Francesco Rigazzi, dopo aver diseredato il figlio Giovanni Antonio (un bastardo criminale, lui lo definisce), lascia usufruttuaria la moglie Portia Guiducci. Alla di lei morte, i beni finiranno ai Gesuiti. Dal 1627, i Gesuiti cominciano ad operare a Rimini. Gli altri Ordini religiosi locali protestano a Roma contro di loro: li incolpano di godere del "legato" di Rigazzi, pur non avendo una loro chiesa in città. Rigazzi allora offre ai padri il suo granaio (nell'attuale corso Giovanni XXIII), trasformato in "una chiesetta", aperta nel nome di San Francesco Saverio il 14 giugno 1631. Il 22 agosto, Rigazzi muore. La vedova apre ai Gesuiti un pezzo della sua casa, dove da novembre s'inizia "la scola".
Nel 1646 Rimini conta nel collegio gesuitico 5 classi (contro le 11 di Bologna e le 6 di Ferrara), con 169 alunni (434 erano sotto le due torri, 298 nella città estense). Nel 1655, il protonotario riminese Cesare Galli lascia erede la Compagnia del suo patrimonio, con l'obbligo di costruire una nuova chiesa, che è edificata a partire dal 1719. Nel 1773 si chiude la storia cittadina dei Gesuiti. La Compagnia è soppressa da Clemente XIV, il papa francescano Lorenzo Ganganelli di Santarcangelo. Battarra aveva capito tutto.
I Gesuiti appena giunti a Rimini furono ospitati nel palazzo vescovile, poi in una "casetta dirimpetto a S. Maria da Mare", chiesa parrocchiale retta da don Giuliano Floridi. La chiesa s'affacciava sull'attuale via Cavalieri. La "casetta" era vicina a quella di Francesco Rigazzi.
Alla fine del secolo XVII, come attesta una carta parigina del 1710, i Gesuiti hanno ormai costruito quasi per intero la loro Isola, attraverso acquisti di altri edifici. Dove oggi sorge la chiesa "del Suffragio", in quella carta si legge: "Qui si deve fabbricare la chiesa nuova", a cui si porrà mano dal 1719. Le abitazioni dei Padri sono sulla via Cavalieri. Verso la fine di via Tonini ci sono sei case, che non appartengono, ancora per poco, al collegio: "Ne sarà facile la Compera... per compimento dell'Isola", dice una didascalia della stessa carta parigina. Nel 1739, la chiesa nuova era già terminata.
L'edificio che oggi ospita il Museo, attiguo alla chiesa costruita in onore di San Francesco Saverio, sorgeva tra 1746 e 1755 su progetto dell'architetto Alfonso Torregiani (1682-1764) come "Collegio" dei Gesuiti.
Antonio Montanari

Lettera al "Corriere Romagna", 25 febbraio 2019

 
 
 

1819, nella crisi serve il ricordo

Post n°20 pubblicato il 13 Marzo 2019 da ilrimino

Nell'antico palazzo comunale di piazza Cavour, conosciuto con il nome del conte Francesco Garampi, nonno del Cardinal Giuseppe (1725-1792), che lo disegnò "prima del 1687" (L. Tonini) per sostituire quello del 1562 crollato con il tremendo terremoto del 1672, c'è una loggia con gli elogi dei riminesi celebri. Sono sei lapidi collocate nel 1819 che ricordano sette figure illustri, di cui due ancora viventi: gli scienziati Francesco Bonsi (1722-1803) e Giovanni Antonio Battarra (1714-1789), il poeta Aurelio Bertola (1753-1798), il teologo Vincenzo Pani (del 1744 scompare nel 1826), il medico Michelangelo Rosa (1731-1812) ed i fratelli Gaetano Francesco (1753-1810) ed Angelo Battaglini (1759, defunge nel 1842).
Il ricordo del passato e dei suoi cittadini emeriti, serve per superare i momenti bui di una crisi che è politica ed economica. Nel giugno 1815 il Congresso di Vienna ha sancito la fine del sistema napoleonico. Gli "antichi nobili del governo papale ne mossero doglianze", scrive Carlo Tonini. Con il rientro di Pio VII lo Stato pontificio ritorna "nelle mani dei cardinali e soprattutto della fazione più conservatrice" dei cosiddetti "zelanti" (G. Ratti). Il nuovo per Rimini significa la processione del Venerdì Santo, le sei botteghe per macellai nella piazza malatestiana, il passeggio pubblico allungato alla Chiesa della Colonnella, la muraglia e le gradinate del Gioco del Pallone pagato dai privati, come osserva Carlo Tonini, da cui ricaviamo anche le notizie che seguono.
I marinai si sono calmati, dopo aver portato un cannone davanti al palazzo dei Consoli (l’Arengo) e minacciato di far fuoco, all’arrivo delle varie autorità, a cui hanno strappato la promessa di far diminuire i prezzi del grano e del granoturco.
Il podestà Battaglini ha ottenuto da Forlì che le milizie acquartierate a palazzo Gambalunga custodissero quello pubblico, e raccoglie da fuori città mille soldati per calmare gli animi. I marinai ("animi grossi e rudi") non abboccano: in piazza portano altri cannoni. Li frena il capitano del porto marchese Alessandro Belmonti promettendo di provvedere alle loro necessità. Non mancano gli arresti con severe condanne penali. Secondo A. Silvestro, "Belmonte è tra i principali esponenti dei democratici ma, più che dalle sue convinzioni politiche, il suo comportamento pare dettato dal desiderio di migliorare l’efficienza e la prosperità della marina pontificia e di procurare vantaggi ai marinai".
Bastano queste scene per spiegare la collocazione nel 1819 delle sei iscrizioni per i sette personaggi illustri, di cui due ancora viventi, quasi a voler dire che la Storia è non soltato quella del passato che si legge negli appositi libri, ma pure il divenire che si costruisce giorno dopo giorno, con le mani di tutti. È una mossa politica per far credere che è tornata la tranquillità nella vita cittadina.
Il 30 marzo 1815 Gioacchino Murat ha lanciato da Rimini il suo proclama: combattere per essere liberi ed indipendenti. Il 13 ottobre a Pizzo Calabro è fucilato dai borbonici. Alessandro Manzoni chiude nel cassetto la canzone "Il proclama di Rimini" con quel verso "liberi non sarem se non siam uni" che diventa un programma politico negli ideali del Risorgimento.
Antonio Montanari

Lettera al "Corriere Romagna", 12.03.2019

 
 
 

Settembre 1999, nasce "il Rimino"

Post n°19 pubblicato il 15 Settembre 2018 da ilrimino


il Rimino, Settembre 2018, n. 273, anno XX

il Rimino n. 1. 10 settembre 1999:
La "santa Innocenza" perduta.
Bandiera rossa sul litorale.
L'Anfiteatro. Rimini "vetrina" di Roma.
L'Anfiteatro. L' "impostura" del 1763.


"il Rimino" dal 1999  ARCHIVI 1999-2008



 

 
 
 

"Uno bianca", Rimini 31 gennaio 1988.

Post n°18 pubblicato il 26 Gennaio 2018 da ilrimino

Quindici storie dal lato oscuro, le chiama uno slogan nella quarta di copertina. Sono quelle che Roberto Sapio, magistrato in pensione, napoletano di origine e riminese di adozione, racconta in un libretto interessante per molti aspetti, non ultimo quello di fornirci la testimonianza diretta del suo lavoro, svolto nella "Rimini nera" di cui dice il titolo. Sono storie che partono dagli anni '80 e che dovrebbero delineare, come suggerisce il sottotitolo, "L'altra faccia di una città".
L'introduzione dell'editore Massimo Roccaforte annuncia una Rimini post-moderna come sintesi di quella nuova società italiana in cui tutto sembra perduto, guastato e putrefatto. Il libro di Sapio è come un piccolo mosaico, le cui tessere delineano un'immagine inquietante, se ci si lascia sopraffare dall'emozione. Se usiamo la freddezza che richiede la volontà di capire, scopriamo che non si parla soltanto di Rimini.

Il volume raccoglie testi già apparsi sulla stampa locale e contributi originali, il più importante dei quali, per il suo contenuto e contesto, è quello intitolato "Banditi in divisa", ovvero la storia della banda della "Uno bianca". Storia che meritava maggior spazio, se non tutto il libro, per un approfondimento che appare indispensabile.
Sapio parte dal 18 agosto 1991, quando due senegalesi (Babon Cheka e Malik Ndiay, operai, 27 e 29 anni) sono uccisi a San Mauro Mare: "La Uno bianca degli assassini fugge e, all'altezza di San Vito, non si ferma ad uno stop e quasi investe una Ritmo con a bordo tre ragazzi provenienti da un locale da ballo. Alla rabbiosa protesta di costoro la Uno bianca si mette ad inseguirli sparando un colpo che per fortuna non raggiunge alcuno dei ragazzi, che arrivati al vicino paese, si rifugiarono in un bar mentre gli inseguitori proseguirono verso Torre Pedrera dove abbandonarono la macchina".
Il sostituto procuratore di Rimini Sapio, avvisato dai Carabinieri, interviene sul posto, e decide di saltare le ferie per chiarire il mistero di quel fatto. Si forma una convinzione: quelli che hanno ucciso a San Mauro i due giovani (ferendone un terzo) sono "persone che indossano una divisa o che, all'occorrenza, possono mostrare un tesserino".
Questo è l'aspetto autobiografico del racconto, in cui si aggiunge: la riflessione di quel sostituto procuratore "provocò la reazione dei superiori e la minaccia di esonero dall'inchiesta". A questo punto Sapio riassume come giunse a quella scandalosa conclusione che sarebbe stata confermata dagli sviluppi delle indagini.
Sono considerazioni psicologiche che il cronista può riassumere con una sola parola, arroganza. Sapio fa un ritratto dei banditi basandosi anche sui precedenti episodi in cui la banda della "Uno bianca" ha agito. Quello di San Mauro non è il primo della serie.
Ripercorriamoli, gli altri fatti. Dal libro di Antonella Beccaria intitolato "Uno bianca e trame nere", riprendiamo l'elenco delle vittime con i luoghi dei ferimenti o delle esecuzioni, che precedono il delitto di San Mauro.
Antonio Mosca, poliziotto, ferito a Cesena il 3 ottobre 1987 muore nel 1989; Giampiero Picello, guardia giurata, ucciso il 30 gennaio 1988, Rimini; Carlo Beccari, guardia giurata, ucciso il 19 febbraio 1988, Casalecchio di Reno; Umberto Erriu e Cataldo Stasi, carabinieri, ammazzati il 20 aprile 1988, Castelmaggiore; Adolfino Alessandri, pensionato, ucciso il 26 giugno 1989, Bologna; Primo Zecchi, autista Hera, ammazzato il 6 ottobre 1990, Bologna; Rodolfo Bellinati e Patrizia Della Santina, nomadi, uccisi il 23 dicembre 1990, Bologna; Andrea Farati, benzinaio, e Luigi Pasqui, dirigente aziendale, uccisi il 27 dicembre 1990, Castelmaggiore; Paride Pedini, artigiano, ammazzato il 27 dicembre 1990, Trebbo di Reno; Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini, carabinieri, uccisi il 4 gennaio 1991, Bologna; Claudio Bonfiglioli, benzinaio, ammazzato il 20 aprile 1991, Borgo Panigale; Licia Ansaloni, commerciante, e Pietro Capolungo, carabiniere a riposo, ammazzati il 2 maggio 1991, Bologna; Graziano Mirri, benzinaio, ucciso il 19 giugno 1991, Cesena. In tutto fanno 19 vittime. Giancarlo Armorati, pensionato, ferito il 15 gennaio 1990 a Bologna, muore nel 1993. Siamo così a 20 vittime.

Antonio Mosca, ferito a Cesena, era un poliziotto di Rimini. Leggiamo le nostre cronache nel Ponte del 1987. La banda del racket che ha preso di mira l'autosalone riminese di Savino Grossi, è intercettata dalla polizia il 3 ottobre, mentre sta ritirando a Cesena sull'autostrada una valigetta piena di soldi. I banditi sparano contro la vettura di Grossi e l'auto-civetta del Commissariato di Rimini, colpendo tre agenti: Antonio Mosca (39 anni), Luigi Cenci (25), Addolorata Di Campi (22). Il Ponte si domanda: "Dietro tutta la vicenda, c'è solo una richiesta di trenta milioni?". Antonio Mosca muore nel 1989 in seguito a quelle ferite.
Saltiamo al 1988, sabato 31 gennaio. Alla Coop delle Celle, due portavalori sono assaliti da altrettanti malviventi mascherati che sparano tra la folla, con fucili a canne mozze. Una guardia privata, Giampiero Picello, 41 anni, di Ravenna, è uccisa, un suo collega ferito gravemente, altre cinque persone colpite, tra cui una bimba di nove anni raggiunta da pallini alla testa.
È una "nuova malavita senza volto" quella che si affaccia in città, scrive Il Ponte, sottolineando un particolare che sfugge alla cronache dei quotidiani, e che verrà confermato dalla indagini sulla banda riminese della "Uno bianca": "Il piano della fuga era stato predisposto con attenzione, utilizzando scappatoie che solo gente molto pratica della zona" poteva conoscere.
All'allarme che si diffonde in città, il questore di Forlì Francesco D'Onofrio risponde che sulla Riviera la malavita non è un'epidemia come a Palermo, anche se, ammette, la nostra è una zona "estremamente ricettiva ad accogliere una criminalità stanziale". Il vice-questore di Rimini Alessandro Fersini parla di "criminalità che viene da fuori e si muove disposta a portare a termine a qualsiasi prezzo un'impresa".
Le ultime vittime della banda, dopo i due senegalesi, sono Massimiliano Valenti, fattorino, 24 febbraio 1993, Zola Predona; Carlo Poli, elettrauto, 7 ottobre 1993, Riale (BO); Ubaldo Paci, direttore di banca, 24 maggio 1994, Pesaro. Il bilancio finale è di 25 morti e 10 feriti in 103 delitti. Esso non è geograficamente limitato alla nostra zona, per poter parlare soltanto di "Rimini nera".

È la solita storia. Quella delle storie di periferia che scivolano nel dimenticatoio perché le si crede secondarie, in base all'opinione alquanto ridicola che a far notizia dev'essere soltanto quanto accade nelle capitali o nelle grandi città.
Provate a guardare nei libri più famosi sulla recente storia italiana usciti in questi anni: non troverete una riga della vicenda della "Uno bianca". Una agente di Polizia, Simona Mammano, recensendo su Repubblica-Bologna il bel volume di Antonella Beccaria, nel 2007 ha scritto: "Una questione irrisolta per tutte: come è stato possibile che un commando di assassini potesse operare indisturbato per così tanto tempo?", concludendo: "Questa, dunque, è una storia scandita da errori, valutazioni sbagliate, depistaggi palesi e false testimonianze".
Nel 2003, Sandro Provvisionato su "L'Europeo" ha ricordato che il sostituto procuratore di Rimini Roberto Sapio fu "il primo a sostenere (non creduto)" che la banda fosse composta di gente in divisa.

Sapio era osservato da vicino. E minacciato dalla Falange Armata. Anche con un messaggio cifrato, come il richiamo ad un racconto di Poe, "La lettera rubata". Dove una missiva scomparsa nella casa di una gran dama è ritrovata sulla scrivania di un prefetto.
Nel 1995 si è discusso se la banda della "Uno bianca" fosse collegata a Gladio, come suggerivano i servizi segreti francesi. Smentiva Daniele Paci, il magistrato riminese che ha incastrato i sei feroci assassini della banda: "occuparsi dei servizi segreti o della falange, sarebbe come occuparsi dei marziani".
Sulla Falange Armata scrive Beccaria che nel 1994 essa è indicata da una informativa della DIGOS come un gruppo formato da uomini appartenuti al Sisde ed alla Folgore.
Nicola Mancino nel 1991 quale ministro dell'Interno la ritiene composta da "terroristi della disinformazione che lavorano in orario di ufficio".
Un sostituto procuratore romano parla di gente che ha piena disponibilità di una rete informativa all'intero dell'apparato pubblico. Le telefonate intercettate della Falange sono circa 500, delle quali 221 riguardano la banda della "Uno bianca". Tutte arrivano a fattaccio avvenuto.
Nel 1995 a Roma in Senato il prefetto di Forlì Raffaele Pisasale sembra non credere ad un'organizzazione a vasto raggio: "Voglio dire che mi sembra strano che una organizzazione, sia essa terroristica o mafiosa, non sia intervenuta in aiuto, non abbia tentato un qualche intervento".

Quella della "Uno bianca" non è soltanto una vicenda della Rimini nera, ma una pagina sconosciuta e misteriosa delle politica italiana. Come tante altre storie simili. Ridurla ad un fatto locale è una stranezza provinciale di chi, come l'editore, scambia il proprio ombelico per il centro del mondo.
A risolverla furono due poliziotti riminesi, Pietro Costanza e Luciano Baglioni, che da soli scoprirono i Savi. Il loro capo era Oreste Capocasa, attuale questore (ed ex compagno di corso nel 1979 di Antonio Di Pietro). "Dopo la vicenda dei Savi me ne sono successe di tutti i colori" confidò Baglioni a Simonetta Pagnotti di "Famiglia Cristiana", dichiarando che il vero errore della Procura di Bologna era stato di seguire la pista del "clan dei catanesi" e poi quella della "quinta mafia" del Pilastro.
Antonio Montanari (2010)

 
 
 

Costituzione, 70 anni

Post n°17 pubblicato il 22 Dicembre 2017 da ilrimino

Ricordo i 70 anni della Costituzione con questa lettera del 20 luglio 1944, da parte di mia nonna Lucia.

 

Il 20 luglio 1944, ore 15, da Viserba mia nonna Lucia Meldini Nozzoli scriveva a mia madre Maddalena sfollata con me e mio padre Valfredo a San Marino:

«Stamani alle 5 sono venuti ad avvisare di sgomberare la Via Puccini, sembra solo la parte di fronte ed hanno dato quattro ore di tempo. Doveva essere libera per le 9, ma sembrava sorgessero dei malintesi ed allora per evitare tutto si è dovuto attendere una decisiva risposta del comando protratta alle 11 e così tra pochi minuti scadono le 4 ore. Vedessi è una cosa impressionante e nella nostra via non si rimarrebbe che noi. Mentre ti scrivo trema la casa perché in qualche posto bombardano, anche mezzodì si è dovuto sospendere il pranzo per lo stesso motivo e questa notte pure è stata bruttissima, sono alzata dalle due. […] Certamente che a passo accelerato ci avvicineremo al brutto, ma speriamo che la bufera non sia tanto impetuosa come ce la prospettano… Dicono che per radio hanno inteso fare i nomi di tutti gli elencati fascisti repubblicani e dice che ci preavvisano di riguardarci da tutti loro. La realtà è che noi dobbiamo soffrire e lottare per vedere se ci riesce salvarci da ogni pericolo. […] Che disperazione! Dobbiamo pensare a fuggire e nello stesso tempo, anche a rischio di perdere tutto bisogna pensare per l’avvenire».(Dal mio «Rimini ieri».)
Antonio Montanari

Fonte: http://digilander.libero.it/ilrimino/att/2004/963.1944.nonna.html

 
 
 

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