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MARTE: PHOENIX E' MORTO


Phoenix, il robot della Nasa parcheggiato al polo Nord marziano è morto. L’ultimo segnale arrivato al Jet Propulsion Laboratory (Jpl) a Pasadena, da dove governavano la sua vita, risale al 2 novembre. Da allora è stato un continuo tentativo di ripresa di contatto, ma invano: il robot è rimasto inesorabilmente silenzioso. A questo punto la Nasa ha decretato la sua morte anche se per qualche settimana tenterà ogni tanto di ascoltare eventuali segnali. Non c’è però alcuna speranza. Lo avevano previsto e anzi l’agonia iniziata qualche settimana fa è stata più corta del previsto. Allora avevano avviato delle operazioni spegnendo alcuni sistemi di riscaldamento del robot indispensabili per tenere in funzione gli strumenti nell’intento di prolungare la sua vita sia pure limitandone l’attività. Al Jpl dovevano infatti fare i conti con la poca energia trasmessa dal Sole e che pioveva a fatica sulle celle solari di Phoenix. Perché nella zona in cui si trovava era ormai arrivato l’autunno, l’astro era basso sull’orizzonte e una tempesta quasi continua di sabbia e polvere oscurava ancor di più il cielo. Risultato: poca luce sui pannelli solari e quindi poca energia a disposizione; anzi sempre meno, man mano i giorni passavano a causa del peggiorare delle condizioni climatiche. Infatti si sperava con gli interventi avviati di arrivare magari fino alla fine di novembre. Invece Phoenix non ce l’ha fatta e ora con temperature notturne glaciali di quasi cento gradi sotto zero ogni sua parte è definitivamente paralizzata. «La missione è conclusa», ha comunicato lunedì notte Barry Goldstein, project manager della sonda, con un filo di amarezza. Non era più ricco di parole e sorrisi come quando lo abbiamo incontrato al Jpl al momento dello sbarco sul pianeta rosso il 25 maggio scorso. E senza entusiasmo ha elencato i meriti e i successi ottenuti dal robot che ha scavato il suolo polare. Doveva rimanere attivo per 90 giorni e invece è rimasto lassù, operativo, per 149 giorni marziani dei 152 trascorsi. Il giorno marziano è appena più lungo del nostro: 24 ore e 40 minuti. E durante tutto questo tempo ha raccolto e trasmesso oltre 25 mila fotografie e osservato il suolo con il primo microscopio atomico installato su una sonda. Il suo braccio ha raccolto campioni di suolo che ha analizzato in due minilaboratori automatici confermando la presenza di ghiaccio d’acqua a pochi centimetri di profondità come aveva stimato la sonda Mars Odissey dall’orbita. E ogni giorno trasmetteva un bollettino meteo raccontando le condizioni climatiche del luogo. «Infine Phoenix ha compiuto un importante passo sostenendo la nostra speranza di dimostrare che Marte una volta era abitabile e in grado di sostenere la vita», ha commentato Doung McCuistion, direttore del programma marziano alla Nasa. Questo era infatti l’obiettivo primario della spedizione. L’amarezza per la sua fine è stemperata comunque dalle imminenti tappe future. L’anno prossimo sarà lanciata un’altra sonda, la Mars Science Laboratory, un gigantesco Suv marziano che alimentato da generatori a radioisotopi potrà viaggiare a lungo nel territorio dove sbarcherà lavorando giorno e notte. L’esplorazione del pianeta posso, dunque, continua per cercare tracce di vita passata o presente e per preparare il futuro sbarco dell’uomo.Giovanni CapraraFonte: www.corriere.it