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Post N° 222

Post n°222 pubblicato il 09 Gennaio 2009 da umbojumbo99
 

    L'orribile vaso in ceramica bianca, ornato con dei complicati intrecci floreali in oro, che occupava da sempre un angolo del bagno, apparteneva alla famiglia Della Rocca da cinque generazioni, ma non piaceva veramente a nessuno. Più volte Alice aveva provato l'impulso di scaraventarlo a terra e di gettarne i minuscoli e inestimabili frammenti nel cassonetto di fronte alla villa, insieme alle confezioni di Tetra Pak del purè in scatola, agli assorbenti usati, non certo da lei, e ai blister vuoti degli ansiolitici di suo padre.
    Alice ci passò un dito sopra e pensò a quanto fosse freddo, liscio e pulito. Soledad, la governante ecuadoriana, era diventata via via più meticolosa con il passare degli anni, perché a casa Della Rocca si faceva caso ai particolari. Quando si era presentata la prima volta, Alice aveva appena sei anni e la studiava con sospetto al riparo della gonna di sua madre. Soledad si era chinata su di lei e l'aveva guardata con meraviglia. Che bei capelli che hai, le aveva detto, posso toccarli? Alice si era morsa la lingua per non dire no e Soledad le aveva sollevato una ciocca castana come se fosse stata uno scampolo di seta e poi l'aveva lasciata ricadere. Non riusciva a credere che dei capelli potessero essere tanto sottili.
    Alice trattenne il fiato mentre si sfilava la canottiera e non poté fare a meno di strizzare gli occhi per un momento.
Quando li riaprì vide se stessa riflessa nel grande specchio sopra il lavandino e provò una piacevole delusione. Arrotolò l'elastico degli slip di un paio di giri, in modo che arrivassero appena sopra la cicatrice e rimanessero abbastanza tesi da lasciare un po' di vuoto tra l'orlo e la pancia, a formare un ponte fra le ossa del bacino. L'indice ancora non ci passava, ma il mignolo sì e poterlo infilare lì in mezzo la faceva impazzire.
    Ecco, deve spuntare proprio da qui, pensò.
    Una rosellina blu, come quella di Viola.
Alice si mise di profilo, il destro, quello buono, come era abituata a dire nella sua testa. Spostò tutti i capelli in avanti e pensò che così assomigliava a una bambina indemoniata. Provò a raccoglierli in una coda di cavallo e poi in una coda più alta, proprio come la portava Viola, che piaceva sempre a tutti. 
   
Non funzionava nemmeno così. 
    
Lasciò ricadere i capelli sulle spalle e con un gesto abituale li pinzò dietro le orecchie. Appoggiò le mani al lavandino e si spinse con la faccia a pochi centimetri dallo specchio, così veloce che gli occhi le sembrarono sovrapporsi in un unico, terrificante occhio da ciclope. Con il fiato caldo creò un alone sul vetro, che le coprì parte della faccia. 
   
Non riusciva proprio a spiegarselo dove Viola e le sue amiche trovassero quegli sguardi con cui andavano in giro a fare strage di ragazzi. Quegli sguardi spietati e accattivanti, che potevano decidere se distruggerti o graziarti con una sola, impercettibile flessione delle sopracciglia. 
   
Alice cercò di essere provocante con lo specchio, ma vide solo una ragazza impacciata, che agitava le spalle senza grazia e pareva muoversi sotto l'effetto di un anestetico. 
   
Era convinta che il vero problema fossero le sue guance, troppo gonfie e paonazze. Soffocavano gli occhi, mentre lei voleva che le schizzassero fuori dalle orbite e si piantassero, come schegge appuntite, nello stomaco dei ragazzi che li incrociavano. Voleva che il suo sguardo non risparmiasse nessuno, che lasciasse un segno indelebile.
    
Invece continuava a dimagrire solo di pancia, culo e tette, mentre le guance restavano lì, due cuscinetti tondi da bambina.
    
Qualcuno bussò alla porta del bagno.
   
«Ali, è pronto» risuonò la voce odiosa di suo padre attraverso il vetro smerigliato.
   
Alice non rispose e risucchiò le guance dentro la bocca per vedere come sarebbe stata meglio così.
   
«Ali, ci sei?» la chiamò suo padre.
   
Con la bocca tutta arricciata in avanti, Alice diede un bacio al proprio riflesso. Con la lingua sfiorò la propria lingua sul freddo dello specchio. Chiuse gli occhi e, come nei veri baci, fece ondeggiare la testa, con troppa regolarità per risultare credibile. Il bacio che desiderava veramente non l'aveva ancora trovato sulla bocca di nessuno.
   
Davide Poirino era stato il primo a usare la lingua, in terza media, per una scommessa persa. L'aveva fatta ruotare meccanicamente intorno a quella di Alice per tre volte, in senso orario e poi si era girato verso i suoi amici e aveva detto okay? Quelli erano scoppiati a ridere e qualcuno aveva detto hai baciato la zoppa, ma Alice era contenta lo stesso, perché aveva dato il suo primo bacio e Davide non era niente male.
   
Poi ce n'erano stati altri. Suo cugino Walter alla festa della nonna e un amico di Davide di cui non sapeva neppure il nome, che in segreto le aveva chiesto se per favore faceva provare anche lui. In un angolo nascosto del cortile della scuola erano rimasti con le labbra appiccicate per alcuni minuti, senza che nessuno dei due avesse il coraggio di muovere un muscolo. Una volta staccati, lui aveva detto grazie e si era allontanato a testa alta, con il passo molleggiato di un uomo fatto.
   
Adesso era indietro. Le sue compagne parlavano di posizioni, di succhiotti e di come usare le dita e discutevano se era meglio con o senza il profilattico, mentre Alice aveva ancora sulle labbra il ricordo sciapo di un bacio a stampo in terza media.
   
«Ali? Mi senti?» gridò più forte suo padre.
   
«Cheppalle. Sì che ti sento» rispose Alice scocciata, con un tono di voce che fosse appena udibile da fuori.
   
«È pronta la cena» ripeté il padre.
   
«Ho capito, accidenti» disse Alice. Poi, sottovoce, aggiunse rompicoglioni.


[ da La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano - Mondadori, 2008 ]

 
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