è un'alba livida e carica di umidità quando arriva all'appuntamento con gli altri.
scala la marcia del suo pick up da quattro soldi, poco piú di un ferrovecchio quasi inutile anche solo per portare il cane a pisciare, spegne i fari lasciando che a guidarlo siano le tracce degli pneumatici degli altri, appena visibili, che si infilano nel sottobosco dove finisce la radura.
scende dalla macchina, solo un cenno agli amici, che rispondono con qualche grugnito e qualche sibilo che appare tetro in quest'aria da funerale. attendono questo momento da mesi, ma all'inizio mai nessuno ha voglia di fare troppa festa. in fondo è solo caccia, è solo carne.
mezz'ora dopo hanno tracciato sentieri sulle mappe, luoghi di incontro, se necessario - ma non lo sará, lo sanno giá - segnali convenzionali, segnali di allarme. giusto per sparare alle prede giuste, e non ai compari in caso di incroci pericolosi.
si arriva in gruppo, si parte da soli. le prede della giungla - della foresta pluviale amazzonica, come la chiamano quei cazzo di professoroni che la foresta non l'hanno mai vista neanche in fotografia - sono scaltre e sensibili, adattate ai pericoli e adattate a captarli. fare casino in sette, otto, dieci, tutti insieme, vorrebbe dire la stessa cosa che risalire su quelle macchine fottute e tornarsene a dormire. che sarebbe pure meglio, in fin dei conti.
tre minuti nella foresta e il mondo è fuori. il mondo non c'è, sarebbe meglio dire. il sole fa fatica a mandare giú la sua luce, le piante piangono acqua anche se non piove, l'umiditá ammazza e il caldo è giá insopportabile. quaggiú, tra il fogliame, è ancora buio, lassú, in cima agli alberi, gli uccelli cantano la gloria del giorno, e non canterebbero tanto se vedessero che razza di armamentario porta nelle mani. dal machete alla balestra, compreso un paio di bombe, giusto per non farsi mancare niente. non si sa mai.
trascorrono ore di nulla, non una traccia, non un fruscio di fogliame. il caldo assordante e i rumori assordanti della foresta, macachi, serpenti, aracnidi, nidi di formiche rosse, e palude, e terreno secco, e foglie morte, alberi enormi, acqua che cade dalle cime, piccoli ruscelli, acqua pura, buona da bere. ma non una preda, niente di ció per cui ha speso una fortuna in tempo e denaro.
trova un piccolo spiazzo, si ferma a mangiare e fuma una sigaretta. tira fuori un piccolo termos dove una brodaglia nera dovrebbe fare le veci del caffè, e che pretenderebbe durare fino a domani. vuota il termos, metá nel bicchiere e metá a terra, tira fuori una fiaschetta con del whisky e riempie il bicchiere, poi butta tutto, termos e fiaschetta, tra il fogliame. "in culo a voi, ambientalisti di merda. prosit".
il cicchetto lo mette di buon umore. e l'allegria gli mette sonnolenza. si appisola un pó, tanto ha l'impressione che sia tempo di vacche magre.
nel sonno, dal suo piccolo riparo è scivolato in un mezzo acquitrino. l'acqua putrida, melmosa, lo risveglia. si accorge di avere un'erezione, lo sfiora il pensiero di scoprire come sarebbe menarselo lí, nella giungla, ma viene distratto da un rumore.
un ramo che si spezza, qualcosa che s'allontana fuggendo, veloce. annusa l'aria, sente profumo di paura e di carne selvatica. non si alza, non corre. basteranno le tracce.
è pomeriggio inoltrato, ormai il sole non filtra piú perché è troppo debole, sta calando inesorabilmente verso il suo sonno. ha segnato tutti i passaggi, non vuole finire i suoi giorni in questo posto perduto da dio, un numero ogni cinque alberi, è arrivato ormai a duecento, almeno dieci km da stamattina, ma chissá in quale direzione, e magari la macchina è lí, a pochi passi. lo saprá solo domani.
non ci vede quasi piú, è ora di cercare un riparo per la notte, significa perdere le tracce della sua preda, ma il cammino è segnato, domattina le troverà facilmente. domani sarà una bestia morta.
e invece no. piove, ne fa cosí tanta che l'ombrello di vegetazione non basta a contenerla, è un diluvio che lava tutto, lo bagna nel midollo, gli imputridisce la carne, trasforma il sottobosco in un ruscello. bestemmia il dio degli ebrei e gli dei degli indios, vorrebbe urlare ma non puó, perderebbe per sempre la preda, e giá cosí, con quell'acqua, potrebbe rimettersi gli stracci in spalla e contare le sue tacche a ritroso.
si arrampica su un albero, la pioggia l'ha liberato da formiche e ragni e serpenti. "se dio m'assiste domani ti faccio la festa", sono le ultime cose che pensa prima di addormentarsi.
quel dio non lo vuole assistere, evidentemente. si sveglia a mattina inoltrata, appeso come un sacco da pugile, ancora fradicio perché ci ha dato sotto tutta la notte. la foresta ha giá fatto tutto il suo casino e i suoi banchetti, il tronco deve aver iniziato ad asciugarsi, perchè le termiti sono lí, minacciose, che si dirigono sui rami verso di lui.
scende, un ultimo giro, poi sarà ora di battere in ritirata e tornare dagli altri. cibo non ne aveva, sta finendo anche l'acqua.
dopo pochi metri, un colpo di fortuna. la preda è tornata, forse hanno dormito vicini senza accorgersi l'uno dell'altra. ed è andata via da poco. lo testimonia quella massa di feci ancora calde - fa schifo toccare la merda, ma se vai a caccia grossa il senso di schifo te lo devi dimenticare.
quella merda gli racconta di tante fortune. la pioggia ha lavato via il suo odore, l'animale non lo ha fiutato, e per essere certo di avere ancora un minimo di vantaggio si rotola a terra, tra il fogliame e il fango. gli dice, quella traccia, che la bestia è davvero isolata come pensava, lontana dal suo gruppo, impaurita e confusa, altrimenti non se ne sarebbe stata lí, tranquilla, nella zona del suo cacciatore. un ramo spezzato, e un altro ancora, gli dicono la direzione dell'animale.
ancora un'ora, ed è là, a meno di un centinaio di metri. ignara di tutto, mangia erba e radici.
deve avvicinarsi, la sua balestra è potente e precisa, ma non puó rischiare di fallire il colpo. non ne avrebbe un secondo.
striscia sul terreno, come un serpente, attento a non incrociarne uno vero. gli si gela il sangue a trovarsi faccia a faccia con uno scorpione, non puó tentare nessun movimento, solo rimanere immobile e sperare che quello se ne vada. i minuti trascorrono lentissimi, il sudore gli infradicia la fronte e gli occhi, la vescica è gonfia, si piscia addosso per non scoppiare. alla fine lo scorpione se ne va, strada libera.
intanto la preda è rimasta immobile, a mangiare erba e radici e ad annusare l'aria. tende l'orecchio, aguzza la vista, si muove a scatti in ogni direzione al minimo rumore, ma niente, l'unico che non vede e non sente è proprio lui.
adesso dio è con lui. a dieci metri, gli offre un cespuglio fittissimo, enorme, che lo nasconde completamente e al tempo stesso gli lascia uno spiraglio per guardare e una fessura per infilare la freccia della balestra.
è tutto pronto. l'animale perfettamente inquadrato, il corpo ben bilanciato, la balestra ferma nell'incavo della spalla, il dito pronto a sfiorare il grilletto.
"bene". è l'ultima cosa che pensa prima di sparare.
per una frazione infinitesimale di secondo, l'ultima cosa che il suo udito percepisce è il clangore del machete che gli spacca il cranio in due. la freccia parte, ma il sussulto del contraccolpo la fa virare di un'inezia, un secondo su una scala graduata, e l'animale è salvo...
... in quel momento, l'indio sente un rumore di machete che spacca qualcosa lá, dietro quel cespuglio. e sente il sibilo di una freccia che passa a pochi centimetri dalla sua testa. alza gli occhi atterriti e vede un uomo con il cranio spappolato che sta rotolando a terra.
un suo compagno lo guarda, serio, poi guarda con curiositá il cervello del cacciatore che si sparge nel sottobosco... poi gli fa un cenno, e insieme tornano alla tribú.
Inviato da: nagual_juan
il 01/01/2011 alle 02:07
Inviato da: goetterbote
il 01/12/2009 alle 18:47
Inviato da: venuss99
il 28/11/2009 alle 13:33
Inviato da: chimicamd
il 28/11/2009 alle 07:38
Inviato da: venuss99
il 12/11/2009 alle 14:47